di Mario Cervi

I comunisti, che non si facevano nessuno scrupolo nel mancare di rispetto al Quirinale, trattarono male Antonio Segni già nel giorno della sua elezione a presidente, il 6 maggio 1962.
La Dc, che s’era accordata per sostenere il suo nome, aveva retto durante otto votazioni, avvicinandosi, ma senza raggiungerli, ai 428 voti necessari. Determinante era stato, in questa progressione di Segni, l’apporto dei missini e dei monarchici.
E su questa violazione del cosiddetto «arco costituzionale» insistevano con veemenza il Pci e la stampa fiancheggiatrice.
Veniva proiettata su Segni l’ombra d’un revival reazionario.
Tanto che Moro sentì il bisogno di stilare un comunicato: «La piattaforma sulla quale l’elezione è stata proposta è di un deciso orientamento democratico, popolare, anticomunista e antifascista».
Il segretario del Msi Michelini ribattè che «noi abbiamo votato per Segni e non per Moro».

Si procedette così alla nona votazione. Quando cominciò la chiamata in ordine alfabetico non tutti i senatori e deputati avevano ricevuto la scheda. Fu subito il turno di Antonio Azara, democristiano, già primo presidente della Cassazione e ministro della Giustizia, che era senza scheda.
Un altro democristiano, Angiolo Cemmi, di professione notaio, gli porse la scheda che già aveva in mano e sulla quale era vergato a grandi lettere il nome di Segni.
Azara la prese e l’imbucò nell’urna.
«Camorra!» si gridò dai banchi del Pci, vi fu del trambusto, il presidente della Camera Leone, che non aveva visto, fu informato dell’incidente.
Dopo di che sospese la seduta e ammonì Cemmi.
Quindi ricevette Togliatti che aveva chiesto di parlargli e che avanzò una proposta: se la Dc, rinunciando a Segni, avesse ripiegato sul nome di lui, Leone, i comunisti che fino a quel momento avevano appoggiato Saragat si sarebbero accodati.
Ma il galantuomo Leone non accettò lo scambio, e alle dieci di sera Segni fu un presidente inviso alle sinistre, incluse quelle democristiane.
Enrico Mattei, il petroliere, che sponsorizzava la conferma di Gronchi, era furioso. «Me ne vado da Roma - disse a un collaboratore - perché se rimanessi non so cosa farei, potrei addirittura fare del male all’Eni».

Segni, questo anziano signore esile, risoluto, irritabile si trovò alle prese con un fuoco di fila d’insinuazioni comuniste per la sua elezione contaminata dall’appoggio «fascista», con i soliti bisticci della «balena bianca» e soprattutto con la questione dell’ingresso del Psi nella maggioranza.
A lui il centrosinistra non andava a genio, vedeva in certe scalmane socialiste la causa dell’appannamento del «miracolo economico».
Il 3 luglio 1964, dopo aver incaricato Moro di formare il governo, aveva detto a Nenni:
«È necessario che lo comprendiate. Il Paese non tollera la vostra presenza al governo».
Nonostante l’opposizione del capo dello Stato il centrosinistra fu varato. Ma, in completa sintonia con i comunisti, la sinistra del Psi si ribellò. Riccardo Lombardi rinunciò alla direzione dell’Avanti congedandosi con un editoriale polemico.

Il 7 agosto 1964, nel tardo pomeriggio, Antonio Segni fu colpito da una trombosi cerebrale mentre era nel suo ufficio al Quirinale.
Il 6 dicembre successivo il presidente semiparalizzato firmò con la mano sinistra - la destra era inerte - la lettera di dimissioni.
Finì con questo atto il suo tormentato itinerario politico, ma le accuse contro di lui, anziché placarsi, vennero rinfocolate dall’affaire portante il nome del generale Giovanni De Lorenzo, già capo del Sifar (i servizi segreti militari) e comandante dell’Arma dei carabinieri.
Articoli sul settimanale l’Espresso, a firma di Lino Jannuzzi, seguiti da interrogazioni parlamentari a valanga, delinearono i connotati d’un tentativo di golpe.
Per la cui esecuzione De Lorenzo aveva a disposizione un corpo di specialisti, aveva i dossier, aveva Segni. Il quale gli avrebbe parlato, il 14 luglio 1964, d’un governo di emergenza. «Mi accorsi - parole di De Lorenzo - che aveva progetti riposti o addirittura che non ne aveva nessuno e farneticava già minato dal male».

Al deflagrare dello scandalo Saragat, divenuto presidente della Repubblica, telegrafò a Segni per esprimere la sua solidarietà.
De Lorenzo querelò Eugenio Scalfari - come direttore dell’Espresso - e Lino Jannuzzi, come autore della cronaca incriminata, entrambi condannati in primo grado per diffamazione: ma poi la querela contro i due fu ritirata.
Il presunto golpe di De Lorenzo - probabilmente solo un ambizioso arrampicatore - viene evocato quando fa comodo per accennare a nuove minacce contro la democrazia italiana, e per sostenere che allora come oggi la sinistra ne è oggetto.
Quella vicenda serve per screditare anche postumamente il povero Segni e per far assurgere al ruolo di vittima il Pci. Il cui leader, Palmiro Togliatti, proprio in quell’estate del 1964 - 21 agosto - era morto a Yalta.

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