Dal Corriere economia di oggi:
STATI UNITI - 1 «A rischio l’11% dei posti impiegatizi», dice una ricerca. «No. Scendono i prezzi, si alimenta l’innovazione»
Repubblicani, democratici, indiani
Spostare lavoro in Asia? Il tema irrompe nella campagna elettorale. Per alcuni è tradimento. Per altri sviluppo
Traditori, li ha definiti John Kerry, il più forte candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Gli imprenditori americani che spostano attività lavorative fuori dalla propria azienda (outsourcing) e fuori dal proprio Paese (offshoring) verso l'India e altri mercati emergenti, sono invece protagonisti di un gioco competitivo che fa vincere sia gli Usa sia il Terzo Mondo, sostengono i consulenti economici dell'attuale presidente George Bush. La polemica sull'outsourcing è diventata un tema caldissimo della campagna politica in corso negli States. L'opposizione dei Democratici cavalca il disagio non più solo degli operai (blue collars), che vedono chiudere le loro fabbriche nel Midwest perché gli stessi prodotti ora li fanno i cinesi; ma fa leva anche sull'ansia di impiegati e lavoratori specializzati (i white collars ), rimpiazzati dai giovani indiani nei centri hi-tech di Bangalore e Mumbai. I giornali abbondano di storie sui call center che dall'India rispondono alle domande dei clienti americani di American Express o di Dell; sui tecnici indiani che leggono i raggi X fatti ai pazienti di un ospedale di Boston; e sui programmatori di software californiani che perdono il posto a favore degli ingegneri indiani.
«Se nemmeno i lavoratori più qualificati possono stare tranquilli, dove andremo a finire? La gente è disperata e chi è disoccupato non sa più in quale settore riuscirà a riciclarsi. Qualche idea da suggerire?». Così una senatrice democratica ha apostrofato il governatore della Federal Reserve (banca centrale americana) Alan Greenspan durante la sua testimonianza al Parlamento della scorsa settimana. Il maestro dei mercati finanziari ha allargato le braccia e ha risposto: «Sappiamo solo che la percentuale di gente impiegata nei lavori più nuovi e più pagati è sempre cresciuta negli anni. Ho fiducia nell'ingegno umano e sono convinto che i posti che si perdono con l'outsourcing saranno sostituiti da nuovi lavori, com’è sempre successo in passato».
Nel campo degli oppositori all'outsourcing invece le previsioni non mancano di numeri: uno studio supercitato dell'Università della California a Berkeley calcola che ben 14 milioni di posti di lavoro da white collar, ovvero l'11% di tutti i dipendenti americani, sono a rischio di trasferimento all'estero, anche subito. E, sull'onda della denuncia dei 3 milioni già persi negli ultimi tre anni, si moltiplicano le proposte di legge per contrastare l'esodo: un emendamento alla legge finanziaria federale del 2004 proibisce di appaltare lavori pubblici ad aziende che ricorrono all'outsourcing; 15 Stati stanno valutando di adottare la stessa clausola a livello locale; e lo stesso Kerry ha proposto di obbligare gli operatori dei call center a dichiarare ai clienti la località da cui parlano, evidentemente per incoraggiare le iniziative «in patria».
Meno popolari e sbandierati, ci sono però anche autorevoli studi che mostrano come l'attuale transizione abbia molti precedenti storici e sia tutt'altro che solo negativa. L'economista Catherine Mann dell'Institute for International Economics di Washington ha appena pubblicato la ricerca «Globalizzazione dei servizi di Information Technology e lavori da white collar: la prossima ondata di crescita della produttività» (www.iie.com). La sua tesi è che quello che sta succedendo adesso al software e ai servizi è già avvenuto nell'hardware con grandi risultati positivi sia per gli Usa che per il resto del mondo. Nella seconda metà degli anni 80 la produzione di base dei chip si spostò dall'America all'Asia e fiorirono le previsioni più catastrofiche. Come quella famosa dello studioso del Mit Charles Ferguson, che nel 1988 pronosticò «una decisiva inferiorità» dell'industria microelettronica Usa «entro dieci anni», se imprenditori e governo non avessero cambiato politica prendendo misure protezioniste. Invece proprio grazie alla produzione globalizzata dei chip - sottolinea oggi Catherine Mann - i prezzi dell'hardware sono diventati meno cari, un numero sempre crescente di aziende e consumatori ha potuto permettersi di comprare pc e altri strumenti hi-tech e ne è derivato un eccezionale boom della produttività.
Ora tocca al software, secondo Mann: i programmatori in India costruiscono componenti di base di nuovi sistemi integrati di software, che diventano così accessibili a prezzi contenuti per tutta una serie di business medio-piccoli, che finora non se li sono potuti permettere e sono rimasti tagliati fuori dalla rivoluzione digitale.
Maria Teresa Cometto
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La seconda parte dell'articolo mi sembra faccia considerazioni interessanti...certo la teoria di Catherine Mann non va presa per oro colato,però da delle risposte interessanti al fenomeno dell'outsourcing,che sta coinvolgendo praticamente tutto il mondo industrializzato.