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    Predefinito Carnevale: noterelle antropologiche

    Dal sito http://old.lapadania.com/

    Un antico mito trova la sua dimensione nei riti di inizio primavera
    Così l’Uomo Selvaggio entrò nel Carnevale

    http://old.lapadania.com/2000/febbra...80200p12a1.htm

    di Massimo Centini

    Il rapporto Uomo Selvaggio-Carnevale ha radici lontane e si pone quasi come conditio sine qua non in numerose manifestazioni celebrate nell’arco alpino in occasione delle pratiche folkloristiche che precedono e annunciano la primavera. Va detto per chiarezza che il modello tipico dell’Uomo Selvaggio, così come descritto dall’iconografia ricorrente, solo in alcune occasioni è presente senza alterazioni formali di sorta. Infatti il suo modello tipico si armonizza senza eccessivi attriti in altre figure che ibrida con la sua presenza, senza peraltro alterarne il significato primitivo. Va inoltre constatato che nei carnevali tradizionali, l’Uomo Selvaggio rappresenta una sorta di sintesi delle altre figure generalmente chiamate a svolgere il ruolo di maschera del Carnevale uomo-albero, orso, Arlecchino, matto. Di ognuna di queste figure, l’Uomo Selvaggio esprime qualche peculiarità, simbolizzata nella sua immagine e nei suoi aspetti culturali. Nel Carnevale, l’Uomo Selvaggio è particolarmente presente nelle Alpi Orientali, in cui appare sotto le sembianze di maschera del Salvanèl, spesso amalgamata ad altre figure di più recente origine, così può capitare che, accanto al personaggio Selvaggio tipico, trovi posto Arlecchino, la Capra Barbana, o la Dama Selvaggia. Quasi sempre si tratta di maschere ombrose ed ambigue, come rilevato dal Toschi studiando la festa piemontese della "Capra, dello stagnino e della barba". L’Uomo Selvatico, chiamato nelle feste trentine anche Bilmo (la femmina Graostana), riveste sempre il ruolo, a metà tra il comico e il drammatico, di creatura temuta ma vinta, essere da scacciare dal nucleo civile, o addirittura da sopprimere. In Val di Fiemme, il Salvanèl veniva ucciso dopo un’articolata rappresentazione a cui partecipava tutta la popolazione. Il rito-spettacolo della battuta si pone sul modello dell’Uccisione del Carnevale, che in pratica costituisce la formula ricorrente in numerose tradizioni analoghe. Il soggetto in genere è caratterizzato da un travestimento in cui ricorrono gli elementi simbolici come pelli e foglie destinati a porre in rilievo le prerogative selvagge e l’appartenenza alla Natura. Le connessioni sono comunque moltissime e possono essere scorte in un ampio complesso di tradizioni che dal Charivari giungono alla danza delle corna di Abbats Brohley (Staffordshire), fino alle tante tradizioni note come le "Feste dei pazzi". Nelle valli tirolesi, le maschere del Wilder Mann e più raramente della Wilder-Frau sono inserite nelle tradizioni carnevalesche. La loro tipologia è andata evolvendosi nel tempo fino ad acquisire elementi formali diversi, da porre in relazione alle intrusioni culturali che hanno interessato le singole aree geografiche. Così accanto agli esponenti tipici del Carnevale nordico, può accadere di incontrare le maschere della Commedia dell’Arte che, pur mantenendo la loro autonomia, intrecciano un rapporto drammatico con l’uomo selvaggio. In occasione della festa di San Gregorio (12 marzo) si svolgono in Val Venosta i Gregorispiel a cui partecipa il Wilder Mann con una grande barba incolta che accentua il suo status di Selvaggio. Porta un cappello a larghe falde e coperto di muschio, ha un grande mantello e in una mano stringe un lungo tronco di pino. Il suo ingresso è accolto da un gruppo di fanciulle del luogo, che gli vanno incontro proponendo una tenzone costituita da versi a cui il Wilder-Mann risponde spesso con rime baciate. Dopo il contrasto, le donne cercano di legare il Selvaggio con nastri rossi, in questa operazione alcuni studiosi vedrebbero gli echi di una antica ritualità nordica e medievale evocare la lotta delle forze del bene su quelle del male e in particolare modo contro il demone Herlekin, demone maligno raffigurato in origine con un costume a fetucce colorate. A Termeno, in occasione del martedì grasso, la maschera locale, l’Egetmann (uomo del maggese, spaventapasseri, spirito della Natura) è accompagnato dall’orso, dal cacciatore e dal Wilder-Mann, coperto con un costume di foglie di edera; nel corso del rito inscena una fuga, presto arrestata dal cacciatore e appena può tenta di spaventare gli spettatori. Giunto nella piazza principale il Selvaggio viene ucciso dal cacciatore, che in questo modo celebra il rito antico della fine della brutta stagione e quindi della rinascita, secondo lo schema ricorrente dell’"Eterno ritorno". Nei paesi di cultura ladina, l’Om Salvarek, è presente in molte tradizioni legate al rito del Carnevale gli sono accanto, oltre la Donna Selvaggia, anche i suoi figli. Una singolare variazione giunge dal Carnevale di Moena, in Val di Fassa dove il personaggio centrale è rappresentato dalla maschera di Manitù, creata localmente negli Anni Trenta, ma il cui modello riflette il tipo classico dell’Om Salvarek. Senza dubbio si tratta di una singolare elaborazione moderna, in cui lo stereotipo più arcaico del Selvaggio si amalgama ad una figura esterna, ammantata di sacro che con il mito locale ha in comune uno stretto legame con il tema del "Signore del bosco", entità presente in molte culture che hanno mantenuto un solido legame con la Natura. Ricorre anche il richiamo alla figura demoniaca; ancora in Val di Fassa, il Salvan era associato allo Strion (stregone), alla Stria e al Diaol. I costumi riproponevano la tipologia dell’essere silvestre, ma con l’aggiunta di corna diaboliche, che avevano il ruolo di esasperare il legame del selvaggio con l’universo infernale. Emblematico è anche il caso dei Krampus friulani. Si tratta di maschere indicate come "diavoli" che, nell’itinerario ludico-trasgressivo del Carnevale, svolgono il ruolo di alterare gli equilibri sfruttando il loro aspetto "demoniaco", molto adatto per esasperare l’intrusione del male nello spazio del bene (secondo l’antropologia si potrebbe dire l’intrusione della Natura nella Cultura).Riferimenti analoghi possono essere individuati nella maschera del Malan del Carnevale di Val Gardena, in cui il modello tipico del Selvaggio si amalgama quasi indissolubilmente, a quello del diavolo.

  2. #2
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    Dal sito http://www.carnevalecommunity.it/

    CARNEVALE?... COS'E'?.... COME NASCE?...

    http://www.carnevalecommunity.it/carnevale.htm

    PROVIAMO A DARE UNA RISPOSTA:
    A livello nozionistico il termine Carnevale deriva da carnem levare, abolire la carne, perche' anticamente indicava il banchetto d'addio alla carne che si teneva subito prima della Quaresima, periodo di astinenza e digiuno. Ha la stessa origine carnasciale, modo antiquato di indicare lo stesso concetto. La parola indica quindi un momento ed estendendo il concetto un periodo particolare dell'anno, in cui si svolgevano fin dal remoto passato determinati riti e si dava vita ad un insieme di festeggiamenti.
    Esiste anche una diversa origine del termine "Carnevale", maggiormente accreditata nell'ambito delle tradizioni carnevalesche teutoniche e del nord Europa in genere: essa fa derivare il termine da "Carrus Navalis", simbolica imbarcazione che con l'avvento della primavera era usanza per le popolazioni di pescatori agghindare e preparare per un ideale viaggio verso la città degli dei; l'origine di questa tradizione risale addirittura all'antica Grecia.
    Il Carnevale si è sviluppato poi spontaneamente nella società umana, rivestendo sempre un’importanza fondamentale al suo interno e nel suo immaginario collettivo: la fantasia, l’energia, la spontaneità e le creatività popolari hanno trovato espressione, fin dai tempi passati, in questo evento, la cui portata simbolica va ben al di là della semplice festa.
    Contrapposto alle forme religiose ufficiali, il Carnevale era la festa del popolo, il luogo del riso e della follia, dello scherzo, della materialità e dell’abbondanza. Nella festa vige la più assoluta libertà e tutto diviene lecito: ogni gerarchia viene a cadere ed i rapporti divengono spontanei, liberi e disinibiti, superando i freni imposti dalle convenzioni sociali e le barriere create dalle differenze di età, di classe e di sesso. Il singolo si spoglia della sua individualità per fondersi e confondersi nel vortice gioioso della festa; l’ebbrezza, la danza, la musica permettono di liberarsi dal proprio io contingente, di annullarsi per ritrovarsi con gli altri a condividere emozioni comuni che esulano dalla sfera quotidiana, emozioni in cui l’elemento materiale e quello simbolico trovano la loro sintesi.
    La dissacrazione parodica di ogni autorità ed istituzione permette di emanciparsi temporaneamente dal potere dominante e di intravedere per un momento la possibilità di un mondo completamente diverso. Il comico diviene infatti un momento di rottura della regolarità, scardinando le logiche comuni e sovvertendo potenzialmente gli ordini sociali.
    La cerimonia del buffone che viene proclamato re offre una rappresentazione di "mondo alla rovescia" in cui si opera un capovolgimento dei rapporti alto-basso, tutto a vantaggio di quest’ultimo, in opposizione a tutto ciò che viene calato dall’alto come assoluto, indiscutidile ed immutabile.
    Le classi dominanti tendono a presentare le proprie idee come oggettive ed intoccabili, cementando il loro potere attraverso il controllo e la manipolazione della mentalità collettiva, bollando e demonizzando qualsiasi diversità, se non nelle forme legali, sotto quelle più sottili e perverse del tabù, e cercando di ricondurre all’interno dei propri schemi ogni devianza.
    Il Carnevale, così, ha finito per costruire un canale di sfogo per l’esuberanza e la vitalità popolare, che è stato legalizzato e ammesso alla pubblica piazza nelle forme della festa, attraverso un processso di normalizzazione e quindi neutralizzazione di energie potenzialmente sovversive. Ma si tratta comunque di una legalizzazione forzata, incompleta, affiancata al divieto ed alla repressione per il resto dell’anno e solo finalizzata a concedere quello sfogo scolmatore del malcontento e dell'esigenza di liberta' del popolo.
    Ma di fatto questo temporaneo stravolgimento di ruoli e realtà rappresenta una forte esigenza dell'uomo; per questo motivo sopravvive, nonostante la strumentalizzazione dei potenti, sino ad oggi, dove assume una valenza di piacevole festa e ancora di sfogo.
    Emblematica della concezione carnevalesca del mondo è la maschera. Essa è uno dei motivi più complessi e ricchi di significato della cultura popolare: indossare la maschera è un modo di uscire dalla banalità del quotidiano, di disfarsi del proprio ruolo sociale, di negare sé stessi per divenire altro. Andando avanti nel tempo la maschera ha finito per assumere un’accezione negativa: è divenuta qualcosa che cela, dissimula, inganna. Arrivando ai giorni nostri, in una società dove l’ipocrisia è norma e prassi quotidiana, paradossalmente la maschera può assumere un nuovo (cioè vecchio) significato, non di negare bensì di rivelare, o di rivelare negando.
    La maschera può, celando il volto alla vista, mostrare un carattere più essenziale del nostro essere, e rafforzare la nostra identità, intesa nel senso più pieno del termine.

  3. #3
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    Il Carnevale è l'adattamento cristiano di antiche usanze pagane quali i Lupercali (riti di purificazione del 15 febbraio celebrati dai sacerdoti "luperci") e i Saturnali (festa popolare dell'antica Roma in onore di Saturno che nel periodo di svolgimento, tra il 17 e il 23 dicembre, annullava le barriere servili e sociali).

    Dal Quattrocento, il Carnevale sostenne una serie di attacchi repressivi dai moralizzatori dell'epoca: giudicavano infatti troppo "pagani" i riti, i festeggiamenti e i banchetti che si svolgevano in quel periodo. Mal tollerate erano anche le sagre popolari, talune alquanto rozze, come la festa dell'Asino e quella dei Folli, con stravaganze oltre misura (nella Festa dei Pazzi di Parigi, per esempio, il personaggio principale era un asino che riceveva onori ridicoli. Davanti alla basilica di Notre-Dame si svolgeva uno spettacolo burlesco, improvvisato, che si concludeva con getti d'acqua sugli spettatori. Vi era una grande partecipazione di popolo ed esistono addirittura medaglie commemorative recanti figure grottesche con grandi orecchie d'asino ed iscrizioni satiriche).

    Durante le celebrazioni per il Carnevale, che a volte duravano anche intere settimane, veniva in un certo senso ribaltata la realtà canonica e si viveva in un “mondo alla rovescia”
    In queste circostanze vi era l’abolizione di tutti i rapporti gerarchici e si costituiva un nuovo rapporto tra gli uomini: il senso di estraneità con gli altri spariva e l’uomo ritornava ad essere se stesso, un essere umano fra gli esseri umani. Elemento fondamentale era il ribaltamento delle gerarchie esistenti era l’elezione di re e regine per burla che “mantenevano la propria carica” per tutto il tempo della festa.
    Questo accadeva per le strade, tra il popolo, mentre nelle quiete dei giardini e delle sale dei sontuosi palazzi, la nobiltà si dilettava in giochi "cortesi" sbalordendosi a vicenda per l'abilità nell'utilizzo delle armi.

    Nel tardo Medioevo il travestimento si diffuse nei carnevali delle città. In quelle sedi il mascherarsi consentiva lo scambio di ruoli, il burlarsi di figure gerarchiche, il satireggiare vizi di persone o malcostumi con quelle stesse maschere, oggi note in tutto il mondo, che sono poi assurte a simbolo di città e di debolezze umane.


    La Festa dei Folli, incisione di P. Bruegel il Vecchio



    ... Una parte del mondo si travestirà per ingannare l’altra, ed esse correranno per le strade come folli e fuor di senno; non si vide mai un tal disordine nella natura...” (Rabelais - da Gargantua e Pantagruel)

  4. #4
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    Predefinito Qualche curiosità...

    * Nel XV secolo era famosissima la "Compagnia della Madre Pazza" di Digione, formata dai più seri professionisti della città, bizzarramente mascherati, con berretti a corno e sonagli. Essi percorrevano le strade su carri variopinti, agitando scettri di legno. Approfittando del Carnevale, facevano pubblicamente la satira dei costumi e dei personaggi più in vista del tempo. In seguito alle forti proteste dei nobili di Digione, Luigi XIII soppresse la Compagnia della Madre Pazza. In Francia, il Carnevale raggiunse il suo massimo splendore sotto Luigi XIV, con celeberrime feste di Corte. Lo stesso re si presentò una volta con un bellissimo costume raffigurante il sole.


    * A Roma il Carnevale ebbe il suo momento magico sotto Papa Paolo II, nel 1466. Ricordiamo la famosa corsa dei cavalli, detta "Corsa dei barberi", come pure il corteo funebre del Carnevale defunto, la sera dell'ultimo giorno di Carnevale, dove ognuno reggeva un moccolotto e cercava di spegnere quello del vicino, difendendo il proprio. Il simulacro del Carnevale veniva arso in Piazza del Popolo.


    Corsa dei Barberi


    * A Venezia la maschera veniva utilizzata per molti mesi durante l'anno: era permessa dal giorno di S. Stefano (il 26 dicembre, inizio del Carnevale veneziano) fino alla mezzanotte del Martedì Grasso. Durante questo periodo tutto era permesso e, sotto maschere e costumi, cadevano anche le differenze sociali. Ovunque era festa con balli, canti e giochi.
    Il costume più in voga era la baùta, composto da un cappuccio di seta nera, una cappa di merletto, un ampio mantello (il tabarro) e un cappello a tricorno, mentre una maschera bianca copriva il volto, permetteva di non essere riconosciuti e creava una cassa di risonanza che modificava la voce. La baùta era di casa nelle feste, nei teatri, nei caffè, negli incontri amorosi. Elegante capo d’abbigliamento per tutte le stagioni e protagonista di ogni importante avventura veneziana, era concessa e usatissima anche al di fuori del Carnevale.

    Infine, i coriandoli (inventati, si dice, da un milanese) erano in origine semi della pianta di coriandolo ricoperti di gesso, simili ai confetti, da lanciare dai carri e dai balconi.

  5. #5
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    Ezio Savino

    CARNEVALE, OGNI TRADIZIONE VALE



    Pieter Bruegel il Vecchio, Combattimento tra Carnevale e Quaresima (1559)


    Si sferra a Rio de Janeiro, felicidade trasgressiva, a orologeria, nello spazio idoneo del sambodromo, chiusa fra transenne, nel tempo comandato. Luccica nelle calli di Venezia. Si sganascia sui carri «allegorici» (o veridici?) di Viareggio. Ritmi folli in musica. Maschere. Il corteo, pellegrinaggio in miniatura verso un mondo che non c’è, precario e liberatorio. Sono tre attributi fra i tanti di sua maestà, il re Carnevale, un bengodi di scavo e di diatriba per etnografi, storici del folklore e psicologi. Perfino i linguisti si accapigliano sull’origine del nome. Ma siccome nomen omen, nel nome è già incastonato il reale, da lì è bello e curioso partire.
    Preso atto che il caramantran francese (carême entrant, «quaresima prossima») è un localismo dall’assonanza un po’ sfuocata, tre etimologie accreditate tirano in ballo la carne, pietanza, o fragile involucro del nostro ossame. Carnem levare, «sparecchiare la carne» e carne, vale! «addio carne» sono ovvie allusioni al tirare la cinghia nella quarantena di dieta leggera, a purificazione, in attesa della rinascita pasquale.

    Nel Medioevo, vera culla storica del carnevale, il popolo minuto di proteine ne addentava già poche. Per questo fantasticò di un paese dove «chi più dorme, più guadagna», «meno si lavora, e più si magna», vale a dire Cuccagna, retto da Poltroneria regina, che di politica sa poco, ma in compenso procura che le salsicce fioriscano sui rami, i fiumi siano bicolori (vino bianco e nero), e il caro-vita crolli al minimo, perché le strade sono pavimentate di monete d’oro, per altro inutili, visto che le oche stanno rosolandosi da sole sugli spiedi a ogni angolo di piazza.

    I pensatori sbandieravano le loro Utopie, filosofiche e noiose? Il contadiname (alla Baldus, l’eroe maccheronico del genio cinquecentesco Folengo) vi contrapponeva il suo sogno, grondante sugo, nel quale s’impastavano le due fantasie più grasse, come leggiamo nell’anonimo Trionfo di Carnevale nel paese di Cuccagna, stampato da Fernando Bertelli nel 1562. Un’onda lunga, se già in una fanfaronata goliardica datata 1162 troneggia un Abbas Cucaniensis, chierico gaudente che s’incastellava dalle parti di Treviso. Al pais di Coquaigne, come narrano i fablieau del ’200, bisognava scarpinare (quanto? più di millanta miglia), parodiando le ascetiche passeggiate che maceravano piedi e spirito fino a Santiago o alla Veronica di Roma. E a Cuccagna era logico andare in allegre brigate. Ecco, secondo alcuni eruditi, l’origine del corteo carnascialesco.


    Pieter Bruegel il Vecchio, Il paese di Cuccagna (1567)


    C’è un terzo spiraglio, latineggiante anch’esso, sui primordi del carnevale: carni levamen, «sollievo alla carne». Non travisiamo. In questi ambiti, spesso il contrario è più autentico di ciò che sembra d’acchito. L’espressione potrebbe non essere salutistica, spia di un regime alimentare «magro» e igienico, privo di pollame e bistecche. Indicherebbe invece il placarsi delle sofferenze terrene, la morte, il transi, come si diceva in quei secoli che tra pestilenze, guerre endemiche, carestie ripetute, epidemie e incendi avevano educato tutti all’idea che siamo di svelto passaggio. La morte trionfava. Letteralmente. Ognia omo more, era il funebre ritornello e da questo macabro immaginario gli artisti avevano tratto raffigurazioni pittoriche, miniature, affreschi, cicli iconografici.
    Il tunnel dell’orrore comincia con l’incontro agghiacciante: tre raffinati cavalieri s’imbattono in scheletri ghignanti. È un affresco del Duomo di Atri, ma il motivo serpeggia in tutta Europa, per culminare nella spettacolare vittoria della Grande Falciatrice che nell’allegoria dipinta a Siena da Ambrogio Lorenzetti, verso il 1330, orchestra un Armageddon, uno scontro finale da incubo. Da qui alla Danza Macabra il passo è breve. La troviamo sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, in Val Seriana, tragicomico balletto, con una schiera di fatui viventi che incedono ciascuno sottobraccio al suo scheletro personale. E al Museo del Prado, a Madrid, il visitatore fa gli scongiuri davanti al Trionfo della Morte di Pieter Bruegel il Vecchio (1562), dove in un incendio rosso da fine del mondo, una masnada di guerrieri senza volto, mascherati da scheletri, travolge i vivi, gigantesco Halloween.


    Danza Macabra - Oratorio dei Disciplini di Clusone


    Morire per rinascere. Nel carnevale si muore per gioco, in maschera. Secondo gli studiosi, la scura visiera di Arlecchino è un segno funebre, il vestito bianco di Pulcinella uno svolazzante sudario. È il filone infero, esorcizzante, che s’insinua nell’allegria forzata della settimana grassa. E che fluisce da molto lontano, da cerimonie antiche, come le Antesterie greche o i Saturanalia romani. Queste feste si aprivano il 17 di dicembre, vigilia del solstizio, quando l’astro solare pare smorire nel suo cerchio più basso, per poi rinascere nel nuovo ciclo perenne. Proprio come la terra, che dalla gelida aridità invernale si prepara al passaggio verso la fecondità primaverile. Tutto si rovescia. Anche il mondo umano si concede una temporanea, spensierata trasformazione. I padroni si rimboccano le maniche e servono a tavola. Gli schiavi comandano. Perfino l’imperatore indossa il pilleum a cono (l’antenato del nostro berretto di cartone che spunta nei veglioni, tra brindisi e coriandoli), che nella vita ordinaria è il copricapo del sottoposto.

    Florens Christian Rang, nel suo Psicologia storica del carnevale (a breve in libreria, con commento di Massimo Cacciari, ed. Bollati Boringhieri) riconduce carnevale a currus navalis, imbarcazione mistica che dalle antichità caldaiche e babilonesi, attraverso Iside, divinità lunare egizia incorporata nel pantheon romano, conduce alla «nave dei folli», di rinascimentale memoria, incunabolo di quel magico tempo in pausa che noi, contemporanei, riviviamo inconsciamente quando ci gettiamo nel marasma del sabato grasso.
    Attenti: quando lanciamo una stella filante, o ci copriamo il volto con la mascherina variopinta, godiamoci l’attimo fuggente, ma pensiamo a quale rito, a quale dramma interpretiamo, carico di storia, di simboli, di esperienza. Poi sarà la quaresima della solita vita. Un tran-tran, ma rigenerato dal voltar pagina, l’energia positiva della trasformazione.

    Ezio Savino – da Il Giornale di domenica 03 febbraio 2008

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