Da: http://www.asslimes.com/nuovi%20libr...ntroeuropa.htm




Romolo Gobbi
"America contro Europa. L'antieuropeismo degli americani dalle origini ai giorni nostri"
pp. 264, euro 15,00
M&B Publishing 2002

di Alessandro Bedini (Da Diorama n°259)


Circa centocinquant'anni fa Alexis de Tocquevìlle, riferendosi alla neonata democrazia americana, scriveva: «Non conosco alcun paese in cui regni, in genere, minor indipendenza di spirito e minor vera libertà di discussione dell’America». Le parole del grande pensatore francese sono ancora oggi di sconvolgente attualità e l’ultima ricerca di Romolo Gobbi, docente di Storia dei movimenti e dei partiti politici all’Università di Torino, ne è una limpida dimostrazione. Non è facile trovare libri che con tanta chiarezza e capacità argomentativa spazzino via le banalità e i luoghi comuni che si materializzano, specialmente di questi tempi, nelle categorie di americanismo e antiamericanismo. Quest’ultimo epiteto equivale, lo sappiamo in particolare dopo l’11 settembre 2001, ad un’autentica scomunica, contro la quale ogni battaglia è persa in partenza. Non è un caso che i politici e gli intellettuali nostrani, di destra e di sinistra, prima di pronunciare una qualsivoglia critica nei confronti del gigante a stelle e strisce, si affrettino a premettere che l’America è il paese per eccellenza della democrazia e dei diritti civili, che l’Europa e l’Italia saranno eternamente grate agli Usa per averle liberate dal giogo nazifascista e concludano sempre con un atto di fede e di omaggio ai padroni d’oltreoceano. E questo il prezzo da pagare per non incorrere nella scomunica. Romolo Gobbi invece inverte radicalmente la questione, sostenendo che storicamente, politicamente e culturalmente sono gli americani ad essere “contro” l’Europa e non viceversa, rintracciando nella cultura americana un filone antieuropeista che va dalle origini ai giorni nostri. E forse per questo che anch’egli ha subito la sua brava censura: America contro Europa doveva infatti essere pubblicato dalla Rizzoli, che si è però tirata indietro. La stessa cosa è accaduta con altri editori. Al di là dell’indubbio merito della M&B Publishing, piccola e coraggiosa casa editrice milanese, si è fatto di tutto per far circolare il meno possibile un libro che offre un ampio e accurato mosaico di fatti, idee, documenti, letti alla luce dei rapporti euro-atlantici in prospettiva storica, attraverso cui si ha chiaro come gli Stati Uniti d’America, fin dalle origini, abbiano fatto riferimento a modelli religiosi e culturali del tutto estranei e confliggenti con quelli della “vecchia Europa”. «Secondo la storiografia tradizionale la cultura americana si formò su quella europea senza alcuna particolarità», osserva Romolo Gobbi. «In effetti il contrasto tra americani ed europei si sviluppò fin dalle origini [...] da parte europea invece prevalse a lungo un atteggiamento benevolmente protettivo verso questi ex europei che si davano tanto da fare, ma che erano notevolmente inferiori per la loro rozzezza e ingenuità». Nel corso del XIX secolo le grandi correnti culturali europee ignorarono gli Stati Uniti, mentre le cose cambiarono radicalmente dopo la Prima guerra mondiale. In Italia, ma non solo, si creò una sorta di cortocircuito: la destra manifestò sentimenti antiamericani in quanto il modello industrialista fordista, elaborato e adottato oltreoceano sulla scia delle teorie di Taylor, avrebbe sconvolto il modello sociale ed economico su cui si fondava il paese. Il fascismo, avendo ereditato dalla cultura cattolica il ruralismo, il corporativismo e lo spirito conservatore, si oppose alla ventata modernista che l’organizzazione socio-economica statunitense portava con sé come forma avanzata della modernità, declinata in chiave neo_capitalista. La posizione della sinistra era invece a favore dell’America. Antonio Gramsci, in particolare, individuò nel modello fordista il mezzo per svecchiare le tronfie borghesie europee, parassitarie e conservatrici, attardate e appiattite sull’economia artigianale e sullo sfruttamento della proprietà terriera, che vivevano spesso grazie al patrimonio ereditato dagli avi e rappresentavano quel patriarcalismo idilliaco che alimenta «le masse fannullone e inutili», capaci solo di esprimere il pregiudizio antiamericano della cultura europea. Ma il cortocircuito tra sinistra e destra non finisce qui. Mentre negli Stati Uniti si plaudiva al fascismo che allontanava il pericolo comunista dall’Europa, Gramsci rendeva omaggio alla libera iniziativa e all’individualismo economico. In Americanismo e Fordismo scriveva: «l’Europa vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti i benefizi che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che, divorando masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale». Insomma, la fabbrica americana organizzata secondo i dettami fordisti avrebbe dovuto rappresentare per le classi produttive europee la spinta a mutare in profondità il loro assetto politico-sociale antiquato. Anche Lenin ammirava il sistema inventato da Taylor e affermò in più occasioni di voler coniugare il potere e l’organizzazione amministrativa sovietiche con le più avanzate proposte tecnologiche del capitalismo. Alla luce di queste considerazioni Gobbi trae una prima, fondamentale conclusione: «quindi l’alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica nella Seconda Guerra mondiale non fu un caso». Gobbi prosegue il suo ragionamento portando alla luce il fiume carsico dell’antieuropeismo che si sviluppò in America fin dall’inizio, con i Padri Pellegrini. La componente religiosa è di grande importanza per comprendere i comportamenti politici e sociali dei primi colonizzatori del continente nordamericano e capire come il millenarismo insito nella cultura dei Pilgrim Fathers rappresenti la pezza d’appoggio di un’ideologia ancora oggi dominante nella mentalità statunitense. Le dottrine della "predestinazione" e del "popolo eletto" traggono linfa dal puritanesimo dei Padri Pellegrini che nella prima metà del Seicento fondarono nella Baia del Massachusetts la prima colonia puritana in America. Scacciati da Giacomo I, essi si rifugiarono dapprima in Olanda, per poi attraversare l’Oceano. Insieme alla colonia i fuorusciti inglesi fondarono anche la Chiesa Congregazionista, staccata da quella anglicana. Oltre ad apportare vari cambiamenti nella liturgia, i puritani si rifacevano alle Apocalissi ebraiche, soprattutto a quella di Giovanni, interpretate liberamente e adattate alla condizione di esuli nella quale si trovavano. L’idea della predestinazione permetteva agli abitanti del nuovo mondo di giustificare la demonizzazione del nemico, in quanto predestinato alla dannazione eterna, mentre quella di popolo eletto creava una solidarietà di fatto con l’Israele della Bibbia che reclama la sua terra per impiantarvi il Regno di Dio. Appare evidente fin dai primordi quanto il fattore religioso, che aveva indotto l’esodo dei puritani dall’Inghilterra, sia determinante nel futuro sviluppo degli Stati Uniti d’America e della loro politica. In questo quadro si colloca l’antieuropeismo secondo cui l’Europa cattolica o comunque cristiana sarebbe il regno dell’Anticristo, secondo la versione di quello che possiamo correttamente definire il fondamentalismo cristiano. A questa deriva integralista si aggiunge l’idea calvinista che legittima l’arricchimento come segno del favore di Dio. Ancora oggi i telepredicatori americani non fanno che predicare profitto, profitto e ancora profitto. Nel cuore della Silicon Valley, alla facoltà di Economia e commercio di Santa Clara, i masters per dirigenti post-aziendali ora includono anche seminari di religione. NeI 2001 la rivista dei manager Usa «Fortune» apre con il significativo titolo in copertina God and Business, a sottolineare la coincidenza tra successo economico e favore divino, secondo la teologia americana. «In America», ha scritto su "La Repubblica” Mario Bellipanni, «nonostante la separazione tra stato e chiesa, la presenza della religione nella vita quotidiana è molto più forte che in Europa: presidenti come Jimmy Carter e George Bush esibiscono la loro fede [...] decine di emittenti tv o stazioni radio sono controllate da predicatori evangelici». Tutto questo ha riflessi importanti sul piano politico. Permette ad esempio ai governanti americani di «lievitare al di sopra della superficie terrestre», osserva Mark Crispin, docente di cultura e comunicazione alla New York University: «i governi non rispondono più all’opinione di massa o ai desideri di massa, il nostro sistema mediatico può fare quello che meglio crede: non c’è competizione». Gobbi prosegue nel suo excursus storico indicando nel gruppo radicale dei Quaccheri il portatore di un antieuropeismo millenaristico che ebbe immediato sviluppo in Pennsylvania, dove si raccolse «un melting pot di risentimenti verso l’Europa». Nel 1759 il Pastore Mayhew dichiarava solennemente che si poteva pensare per il Nord America «a un potente impero, forse meno popoloso di quelli europei, ma a nessuno inferiore quanto a felicità [...] E alla religione professata e praticata in tutto questo spazioso reame come la più grande purezza e perfezione che si sia data dal tempo degli Apostoli». L’idea è che il nuovo popolo eletto, titolare del Bene, abbia come missione primaria quella di sconfiggere il Male ovunque esso si presenti, in omaggio a quell’abitudine manichea di concettualizzare il conflitto politico secondo le categorie di Buono e Cattivo che incominciò ad apparire nei discorsi pubblici alla fine del XVIII secolo ed ancora oggi fa bella mostra di sé nei discorsi di Donald Rumsfeld, Richard Perle e George W. Bush. Dopo la Guerra civile, la condanna dell’aristocrazia europea divenne un topos dell’ideologia americana. La Dottrina Monroe precisò meglio quali avrebbero dovuto essere i rapporti tra Nuovo e Vecchio continente. Qualsiasi ingerenza europea sarebbe stata vista come un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e le nuove repubbliche del Sud e del Centro America dovevano essere considerate zone d’influenza Usa nelle quali nessuno avrebbe dovuto intromettersi. Conosciamo bene i risultati della tesi espressa da Monroe nel 1823. In questo modo egli assumeva un atteggiamento di superiorità nei confronti dell’Europa, considerata ricettacolo di idee superate e di una religione influenzata dal cattolicesimo, subordinato agli interessi politici della Chiesa Cattolica guidata da un despota. Numerosi sono, in America contro Europa, le citazioni e i riferimenti il cui scopo è dimostrare la tesi di fondo del volume, che ruota intorno all’idea millenaristica della nazione americana quale depositaria delle virtù necessarie a redimere il mondo e al mito del pionierismo. La Prima guerra mondiale portò definitivamente alla ribalta gli Stati Uniti d’America come grande potenza. Nonostante la proclamata neutralità iniziale, gli americani rifornirono di armi gli alleati indebitati con l’amministrazione Usa per due miliardi e trecento milioni di dollari: «Quella era una guerra che gli USA stavano già combattendo, una guerra economica contro l’Inghilterra e per far questo dovevano aiutarla e aiutare i suoi alleati europei perché continuassero a indebitarsi e aprissero i loro mercati alla penetrazione americana per sempre». Dopo l’entrata in guerra gli americani di origine tedesca subirono gravi discriminazioni, chi aveva un cognome germanico fu costretto a cambiarlo americanizzandolo, fu proibito in molte scuole l’insegnamento della lingua tedesca e a Boston si arrivò persino a proibire la musica di Beethoven. Dietro il rituale paravento dei diritti delle nazioni, della libertà e della democrazia si nascondevano ben precisi interessi: ieri come oggi. Durante la Seconda guerra mondiale Harry Truman, futuro presidente, riassunse così la sua posizione, che rifletteva quella della maggioranza delle classi medie statunitensi: «Se vediamo che la Germania sta vincendo, dovremo aiutare la Russia; se invece vince la Russia dovremo aiutare la Germania e in questo modo lasciare che si scannino il più possibile tra loro, sebbene io non desideri in alcun modo vedere Hitler vittorioso». L’obiettivo era chiaro: per esercitare una egemonia costante sull’Europa, era indispensabile che Il Vecchio Continente uscisse il più possibile indebolito dal conflitto, in modo da permettere agli Usa di riorganizzarne a piacimento l’assetto geopolitico e geoeconomico. E per questo motivo che Roosevelt dimostrò tanta indulgenza verso il comunismo, facendo tuttavia calcoli che si rivelarono sballati. La crisi di Suez del 1956 rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio l’atteggiamento ostile americano verso le potenze europee ex coloniali. Eisenhower arrivò a minacciare sanzioni persino a Israele.

Gobbi conclude il libro con uno sguardo sull’attualità. Sottolinea ancora una volta come le Lobbies religiose statunitensi esercitino una influenza talvolta decisiva sulle diverse amministrazioni. E stato così per la «Moral Majority» che aveva appoggiato Reagan e in seguito per la Christian Coalition. Recentemente i fondamentalisti cristiani hanno varato i «Born Again Christians» (Cristiani rinati), un’associazione che raccoglierebbe, secondo gli ultimi dati, ben settantacinque milioni di adepti. Costoro nutrono la certezza che «prima delle Tribolazioni essi verranno assunti in cielo. In un momento imprecisato del prossimo futuro Gesù Cristo apparirà tra le nubi e in un battito di ciglia, come dice la Bibbia, porterà in cielo tutti i cristiani». Quando si parla di fondamentalismo islamico sarebbe utile leggersi frasi come queste, speculari alle fatwa che qualche imam colpito da sacro furore è solito pronunciare nelle moschee o nelle aule universitarie di Al Hazar. La degenerazione interpretativa delle tre grandi religioni monoteiste genera il fondamentalismo e questo a sua volta porta a conflitti particolarmente aspri, che includono l’uso del terrorismo, ma il problema è sempre e comunque politico, e il fattore religioso vi si innesta fungendo da detonatore. I recenti conflitti scoppiati in Kosovo, in Afghanistan e in lrak evidenziano questa elementare verità che la stragrande maggioranza dei mass media preferiscono tacere, in omaggio alla sudditanza verso un Occidente sempre più imbarbarito e pronto a ricorrere alle maniere forti per tutelare i propri interessi. Naturalmente in nome dei sacri principi della libertà dei popoli, della democrazia e di un’interpretazione ideologicamente strumentale del diritto internazionale. Romolo Gobbi ha il merito di aver smascherato, con questo suo libro, ultimo di una serie di opere provocatorie e oggetto di vivaci discussioni, molte delle ipocrisie che circondano i reali rapporti fra Europa e Usa, e soprattutto di far saltare in aria un gran numero di luoghi comuni sulla “naturale” alleanza trans-atlantica e di costringere perciò chi avrà modo di leggere queste pagine a riflettere sulla storia passata e su quella presente, che vede l’Europa sempre più costretta alla periferia di un Impero che le è ostile.