Prevengo la critica (scontata e in malafede).....FORSE SAREBBE MEGLIO DIRE ANTIEBRAISMO E NON ANTISEMITISMO.
La sostanza non cambia.
LEGGETE QUA:
da "Notizie su Israele"
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PICCOLI ANTISEMITI MUSULMANI
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Un'impressionante audizione della «Commissione Stasi»
In conseguenza dei problemi sollevati dal velo islamico nelle scuole francesi, il 3 luglio scorso il presidente Jacques Chirac ha annunciato la formazione di una commissione con il compito di svolgere un'indagine "sull'applicazione del principio di laicità" in Francia. L'11 dicembre la commissione, presieduta da Bernard Stasi, ha consegnato il risultato dei suoi lavori al Presidente della Repubblica francese. Nella sua indagine la commissione ha ascoltato diverse persone, tra cui la professoressa Louise Arvaud, preside del Collegio Beaumarchais (Parigi XI). Riportiamo la trascrizione integrale dell'audizione della professoressa Arvaud, avvenuta il 9 settembre 2003.
Sono la Preside di un istituto situato nella ZEP (Zona d'Educazione Prioritaria). Il mio collegio conta 400 alunni. Il 40% sono di origine straniera, di prima o di seconda generazione. Di questo 40% di origine straniera, la maggior parte sono originari del Magreb e dell'Africa nera, e, per una piccola parte, del Sud-est asiatico o della Cina.
Le difficoltà sono di diversi ordini, ma quello su cui vorrei intervenire è soprattutto il problema dell'antisemitismo a scuola. E' uno dei maggiori problemi che ho incontrato quest'anno. Ci sono dei ragazzi vittime dell'antisemitismo.
Musulmani che «giocano» a picchiare gli ebrei
Farò un piccolo riassunto delle ultime esperienze che ho vissuto e le accompagnerò con qualche commento.
Non è raro che dei ragazzi ebrei siano vittime di frasi antisemite, di cui «sporco ebreo!» è l'espressione più corrente e più edulcorata. Queste frasi sono state accompagnate, in seguito a certi avvenimenti che non ricorderò, da dei «Viva Bin Laden!», che sento tutto il giorno nei corridoi, nonostante che combattiamo continuamente contro tutto questo.
Non è neanche raro che gli stessi ragazzi siano vittime di violenze fisiche, perché i loro avversari giocano - dico «giocano» tra virgolette, perché è l'espressione che usano - giocano a picchiarli. Li seguono per strada e arrivano fino a casa loro, e li tormentano anche per telefono. Queste violenze sono perpetrate sia all'interno che all'esterno dell'istituto.
Non sarebbe giusto credere che sia la mancanza di personale che impedisce di agire contro gli aggressori. Questi, evidentemente, aggrediscono le loro vittime soltanto quando non ci sono testimoni. E se testimoni ci sono, sono degli alunni che sentono e vedono quello che succede, ma rispettano la legge del silenzio che, in questi casi, funziona al di là di ogni immaginazione.
I ragazzi che sono aggrediti in questo modo il più delle volte finiscono per aprirsi e confessare la loro sofferenza a un parente, o a un professore, o a un membro dell'équipe educativa all'interno dell'istituto. Ma il più delle volte quando si aprono è perché non ne possono assolutamente più. E allora il male è fatto, e la sofferenza psicologica di questi ragazzi è assolutamente immensa.
Devo dire che molto spesso si ha sentore che qualcosa di questo genere sta avvenendo, perché si vedono dei ragazzi che erano bravi alunni che, per esempio, tutt'a un tratto non lavorano più bene, sono instabili, angosciati, non rispondono più al professore che li interroga, ecc. In altre parole, ci sono dei segni che si possono riconoscere. Ma quando si vedono quei segni, ci possono anche essere cause diverse, e non necessariamente quella [del tormento antisemita]. Ma in ogni caso, quando si scopre un caso di violenza antisemita, quei segni ci sono sempre.
Impotenza dei capi d'istituto
Allora, naturalmente uno può dire: ma che cosa fa il capo dell'istituto davanti a tutto questo? Le vittime, quando sono identificate - e voi avete ben capito in quali condizioni -, finiscono sempre per dichiarare i nomi dei loro carnefici. Dico «carnefici» tra virgolette, ma questo comunque si può dire, considerata la sofferenza fisica e morale che viene inflitta [alle vittime].
Ma i «carnefici» in questione, quando sono interrogati, una volta che sono stati identificati grazie alla testimonianza del ragazzo martirizzato, non confessano assolutamente mai. Cioè, quando si chiede: «Allora, avete detto quella cosa a quel tale ragazzo, avete fatto quella cosa a questo o a quel ragazzo?», la risposta è sempre: «Non è vero! Non è vero!» Il sistema di difesa è sempre lo stesso: non confessano assolutamente mai.
Stando così le cose, per un capo d'istituto è assolutamente impossibile punire un alunno che non riconosce la sua colpa, perché non ci sono testimoni. Se ci sono testimoni, è chiaro, se ne può uscire meglio, ma se non ci sono testimoni - ed è questo il caso per il 99% dei fatti -, e se il giovane aggressore nega, non c'è altro mezzo che la parola per tentare di riportare quel ragazzo a migliori sentimenti verso i ragazzi perseguitati.
Dunque, dicevo che punire un alunno che rifiuta di riconoscere il suo sbaglio è impossibile, e se lo faccio devo affrontre i fulmini - assolutamente terribili - dei genitori, che naturalmente gridano all'ingiustizia, e che non esitano a mandare lettere ai miei superiori gerarchici, al Rettorato per esempio, per spiegare che hanno a che fare con un capo d'istituto razzista, e che sono vittime del razzismo di questo capo d'istituto. Ecco, è il colmo, ma è assolutamente reale.
Ci sono casi in cui l'aggressore confessa. Forse. Vi dico sinceramente che, in tutti i casi in cui ho dovuto trattare faccende di questo tipo, questo m'è capitato una volta sola. Dunque l'aggressore confessa: "Sì, signora, ho detto a quel ragazzo: sporco ebreo!» Allora io lo punisco, in virtù della legge e del regolamento interno della scuola. Poi faccio una predica all'aggressore e gli ricordo il rispetto degli altri - al di là, del resto, di ogni idea religiosa -, al rispetto della persona. Ebbene, subisco delle reazioni del tutto inaspettate. Perché bisogna sapere che quando il ragazzo torna a casa con la punizione, non gli dicono: «Ragazzo mio (di solito sono i ragazzi che hanno questi atteggiamenti), quello che hai fatto non sta bene.» Al contrario, gli dicono: «Hai fatto quello che dovevi fare. Bravo!» Ecco.
In altre parole, l'atteggiamento del giovane è incoraggiato e valorizzato, in modo che avviene una discrepanza tra il discorso del capo dell'istituto e il discorso della famiglia. E questo fa sì che è estremamente difficile sperare che la punizione riesca a risolvere il problema. Se ne punisco uno che riesce a comportarsi più o meno correttamente, ne ho altri dieci che picchiano alla porta per mostrarsi all'altezza della situazione.
Che bisogna fare allora in situazioni simili? Perché anche se punisco il ragazzo aggressore, non riesco a proteggere del tutto il ragazzo aggredito. Che si fa allora in queste situazioni? Ebbene, non ho altra soluzione che tentare si sottrarre l'aggredito ai suoi aggressori facendogli cambiare istituto. E a questo punto avvio una procedura all'amichevole, da una parte con il capo dell'istituto che sollecito, e dall'altra parte con i genitori del ragazzo, naturalmente, e anche con il ragazzo con cui ho parlato, e poi con il rettorato, che, in generale, avalla il cambiamento d'istituto.
Unica soluzione: il cambiamento d'istituto
Il cambiamento d'Istituto è una misura di protezione che prendo. Non è, a dire il vero, una misura educativa, o una misura che va nel senso dell'apprendimento della laicità, perché questo è l'oggetto della vostra Commissione. E' una misura di protezione che prendo perché non ne ho un'altra - almeno per il momento - a mia disposizione. E poi questo si può fare perché esiste una reale solidarietà tra i capi d'istituto, e perché tra noi ci capiamo, su questo tipo di problemi.
Perché quello che vi voglio anche dire è che i fatti che vi riporto - che sono dei fatti reali, che ho vissuto più volte - non sono la sola ad averli vissuti. Conosco un bel numero di capi d'istituto, a Parigi, che hanno vissuto le stesse situazioni.
A questo proposito, vorrei leggervi la testimonianza della mamma di un alunno che frequentava un istituto diverso dal mio. Sono venuta a conoscenza della lettera che [la mamma] aveva inviato al Rettorato di Parigi, perché aveva chiesto un cambiamento d'istituto per suo figlio per le ragioni che capirete, e chiedeva che suo figlio fosse iscritto nel mio istituto. Io non ho incoraggiato il passaggio di questo ragazzo al mio istituto, perché conoscevo le difficoltà di molti ragazzi, che corrispondevano alle difficoltà che lei aveva incontrato nell'altro istituto. Ecco la lettera di quella madre, indirizzata al Signor Ispettore d'Accademia. E' una lettera molto recente: porta la data di fine agosto [ricordiamo che l'audizione della professoressa Arvaud ha avuto luogo il 9 settembre 2003], e in essa vengono esposte le ragioni per cui la mamma desidera un cambio d'istituto per suo figlio.
«Signor Ispettore d'Accademia,
sollecito la sua benevolenza per una domanda di cambiamento di collegio in quarta classe per mio figlio X, e questo a causa dei fatti di cui al seguito.
Mio figlio si è iscritto al collegio X per l'anno scolastico 2002-2003, in classe quinta. I primi giorni, sentendo l'ostilità feroce nei confronti degli ebrei, mio figlio si è ben guardato dal rispondere alle provocazioni, tacendo il suo stato di ebreo e non mostrando alcun segno ostentatorio, come medaglia o altro, della sua religione.
Purtroppo, durante un cambio di vestiti nello spogliatoio, nel corso di educazione fisica, un alunno si è accorto di mio figlio e si è affrettato a far conoscere a tutta la classe il segno ebraico della circoncisione [di mio figlio]. Da quel momento per mio figlio è stato un vero calvario. Mio figlio è stato molestato, insultato, trattato da «sporco giudeo!», e questo per tutto l'anno scolastico. E' stato perfino sottoposto a dei racket. Sono intervenuta energicamente presso la consigliera d'educazione, signora X. Questo fatto non ha minimamente impedito all'organizzatore del racket di tiranneggiare mio figlio, che è stato vittima della rappresaglia del fratello maggiore dell'aggressore.
I giorni seguenti abbiamo vissuto un vero incubo. La maggioranza degli alunni della sua classe sono d'origine arabo-musulmana, e io mi meraviglio che nessun professore abbia avuto il coraggio di interporsi tra gli alunni e mio figlio.
Mi sono lamentata più volte presso i suoi professori, e mi sono sentita dire che erano impotenti davanti a questo tipo di problema e che bisognava pensare, senza alcun dubbio, a cambiare istituto scolastico, perché - detto tra virgolette e parlando crudamente - i pochi ebrei rimasti nel collegio erano troppo in minoranza, e quindi nell'impossibilità di difendersi. Essendo una madre non sposata, attualmente senza lavoro, come potrei proteggere mio figlio da una molestia quotidiana che potrebbe degenerare?
Mio figlio ha avuto dei risultati scolastici molto mediocri. Ma con la paura allo stomaco, come fa a concentrarsi sui corsi?
La scuola della Repubblica è agonizzante e io non posso farci molto. Non ho neppure i mezzi per mandare mio figlio in un istituto privato per proteggere la sua integrità fisica e mentale. Questa molestia mi è costata una fortuna in fatto di materiale scolastico, vestiti [allusione al racket], e sempre senza nessuna sanzione.
L'intifada in Medio Oriente non deve essere un pretesto per il linciaggio di alunni ebrei. Noi abbiamo già dato. I nonni paterni di mio figlio sono stati catturati in una retata e la stella gialla della famiglia è stata adeguata ai tempi!
Non voglio più veder soffrire il mio ragazzo, e a rischio di essere tacciata di proselitismo, le citerò il Talmud: «Il mondo è sostenuto dai ragazzi che studiano».
Mio figlio ha diritto all'istruzione come qualsiasi altro cittadino francese. Io stessa sono stata alunna della scuola della Repubblica. Sono nata in Tunisia: il che è tutto un programma.
La ringrazio in anticipo per la sua attenzione...»
Ecco, questa è una testimonianza con le parole della mamma. Ma è esattamente la situazione che ho vissuto io, diciamo, due o tre volte l'anno, in questi ultimi anni. Perché in ogni caso è un fenomeno relativamente recente.
Nei diversi posti che ho occupato come preside, sono stata in provincia, sono stata in periferia, e poi ho finito la mia carriera a Parigi, dove adesso mi trovo da undici anni. Dunque, ho visto questa evoluzione.
A scuola mascherati da terroristi
A tutto questo vorrei aggiungere che ci sono altri fenomeni contro i quali sono stata costretta a lottare, e che non sono meno gravi né meno preoccupanti per quel che riguarda la laicità. Per esempio, c'è una cosa contro cui conduco una lotta tutti i momenti: degli alunni, direi, mascherati - non posso dire diversamente - da terroristi, soprattutto dei ragazzi, coperti da un cappuccio nero che lascia fuori soltanto gli occhi, foulard palestinese sulle spalle, fasce di pallottole da revolver attorno al collo, ecc, che tentano di entrare nel collegio in questa tenuta. E qui posso dirvi che non sono sola in questa cosa. Non è soltanto il caso del collegio Baumarchais, è il caso di diversi istituti. A Parigi, in ogni caso, e forse altrove. Parlo di Parigi perché conosco dei colleghi che hanno dovuto lottare contro questo genere di cose. Questo vuol dire che tutte le mattine sono alla porta del collegio e verifico che i ragazzi non entrino in quella tenuta.
Vorrei far presente anche il relativo lassismo che certi membri del personale possono manifestare riguardo a tutto questo. Normalmente io ho un sorvegliante che è sempre alla porta [della scuola], ma che non sempre ha il coraggio di opporsi a questo tipo di situazione. Dunque bisogna che ci sia io. E io ci sono.
Una donna non può punire un maschio musulmano
Che vi posso dire ancora? Per quanto riguarda i genitori musulmani, non vorrei sembrare - come dire? - contraria alla religione musulmana. Non è affatto questo. Ma è l'esperienza che mi mostra che è sempre in relazione a dei genitori e a dei ragazzi di confessione musulmana che io ho dei problemi.
Quando punisco un ragazzo, per qualsiasi motivo, per una malefatta leggera, o più grave, all'interno dell'istituto, io mi trovo i genitori d'origine musulmana - ma dico genitori per dire padri - che piombano nel mio ufficio, con gli zii, i fratelli maggiori, il fratellino più piccolo, tutta la fratellanza. Piombano nel mio ufficio e mi spiegano che non se ne parla proprio di dare una punizione al loro ragazzo, per il fatto che è stata una donna a pronunciarla. Bene, questa è la realtà, e non è marginale.
Vorrei anche segnalare che sono stata costretta ad accettare un certo numero di certificati medici, che direi di compiacenza, per esonerare i giovani alunni di confessione musulmana dalla piscina, dai corsi d'educazione fisica, e perfino dai corsi di educazione civica, perché in questi corsi di educazione civica si inculcano ai ragazzi dei valori che non corrispondono a quelli che sono insegnati a casa.
Vi dico subito che i certificati medici per non andare in piscina, eventualmente, possono essere accettabili, perché ci possono essere delle ragioni mediche che giustificano l'assenza del ragazzo alla piscina. Non sono in grado di giudicare: non sono un medico. Ma quando chiedono che il ragazzo non assista al corso d'educazione civica perché questo lo destabilizza, su questo sono molto più resistente, e non dico solo resistente: mi oppongo con fermezza.
La complicità di certi professori
Ecco. Vorrei dire anche che i problemi che incontro non sono tutti collegati al comportamento degli alunni, ma possono anche essere collegati al comportamento dei professori.
Ho avuto a che fare, per esempio, con un professore di storia che insegnava in sesta classe, l'ultimo anno.Non so se conoscete il programma di storia della sesta classe, ma, in ogni caso, comprende una parte non trascurabile di studio delle grandi religioni del Medio Oriente. Dunque, c'è la religione ebraica, la religione musulmana e le religioni cristiane. Questo fa parte del programma di sesta. Ebbene, ho un professore di storia, in sesta, che ha trattato soltanto una parte del programma: quella che riguarda la religione musulmana. Normalmente questo non s'addice a un professore di storia, convinto che il suo insegnamento è pluridisciplinare all'interno di questa disciplina. Il detto professore ha portato i suoi alunni alla moschea di Parigi. Non avrei nessuna obiezione se avesse pensato di portarli anche, per esempio, una mezza giornata a Notre-Dame, e un'altra mezza giornata, forse, in una sinagoga. Ma non è stato così.
Dunque, qui c'è anche, forse, un lavoro di riflessione, non solo sul comportamento degli alunni, ma anche sul comportamento dei professori stessi.
Le ragazze con il velo non continuano la scuola
Ecco. Vorrei terminare dicendovi che ho dovuto affrontare anche qualche problema di velo. Sono sempre riuscita a risolvere la cosa amichevolmente, ricevendo le alunne da una parte, e i genitori dall'altra. A forza di discussioni, a forza di argomenti persuasivi sono sempre riuscita a fare in modo che le ragazze in questione si togliessero il velo prima di entrare in collegio e se lo rimettessero all'uscita. Ma vorrei dirvi qualcosa a questo riguardo. Il fatto è che queste ragazze io le ho seguite nel loro percorso scolastico dalla sesta alla terza. Voi sapete che alla fine della terza ogni ragazzo viene indirizzato verso un liceo: un liceo professionale, o un liceo generale e tecnologico. Pochi sono gli alunni che si indirizzano verso l'apprendistato, o addirittura direttamente verso il lavoro. E attualmente il 99,9% dei ragazzi che escono dalla terza entrano in un corso di formazione, sia di studi generali, sia di qualificazione a un mestiere. Ebbene, tutte le ragazze con cui ho dovuto affrontare il problema del velo, non hanno mai proseguito gli studi dopo la terza, nonostante che i professori le avessero indirizzate verso dei licei, come fanno con tutti i ragazzi che hanno in carico. Mai quelle ragazze continuano nella scuola, al liceo o al collegio. Forse i casi che ho conosciuto sono casi eccezionali, ma comunque è un'esperienza che vi riporto. Ed è la realtà.
Infine - e anche questo non è un fatto trascurabile -, nel rispetto della laicità si ha l'impressione che la visione della scolarità non quella che la Repubblica considera, ma quella che la tradizione familiare considera. Dunque, anche in questo penso che ci sia un problema che riguarda l'uguaglianza delle possibilità, che è ciò che di più nobile la Repubblica offre.
Qualche proposta di soluzione
Per finire, vorrei dirvi in quale modo io penso che, forse, alcune soluzioni potrebbero essere apportate.
Sono state prese, negli anni 90, delle decisioni a mio avviso molto incresciose. Come, per esempio, la reintegrazione, da parte del Rettorato o del Ministero dell'Educazione Nazionale, di alunni che erano stati espulsi da un istituto perché si rifiutavano, per esempio, di togliersi il foulard. Credo che sia stata una cosa abbastanza catastrofica, perché si è fatto intendere che era una pratica che si poteva imporre all'interno degli istituti scolastici. Mi sembra che ci sia uno spazio di libertà lasciato agli istituti scolastici nell'applicare la legge e il regolamento interno, ma questo è fonte di difficoltà in tutte le questioni relative alla laicità. Mi sembra quindi che un divieto puro e semplice di ogni segno esteriore di appartenenza a una confessione religiosa in un istituto d'insegnamento superiore pubblico dovrebbe essere pronunciato, per fare in modo che la legge esistente attualmente non sia interpretata, e che la sola responsabilità del capo d'istituto riguardi le decisioni da prendere. Questo, a mio avviso, renderebbe le cose molto più chiare.
A questo proposito, vorrei leggervi quello che ho scritto come preambolo al Regolamento interno del mio istituto. Non l'ho inventato, non è farina del mio sacco. L'ho preso dai documenti ufficiali dell'Educazione Nazionale.
«Introduzione. Il servizio pubblico dell'educazione riposa su valori ispirati a specifici principi che ciascuno ha il dovere di rispettare nell'istituto. La gratuità dell'insegnamento, la neutralità, la laicità, il lavoro, l'assiduità e la puntualità, il dovere della tolleranza della persona e delle sue convinzioni (come - tra parentesi - la richiesta a tutti i membri della comunità scolastica di guardarsi da ogni segno ostentatorio, vestiti o altro, tendente a promuovere una qualsiasi credenza), l'uguaglianza delle possibilità e del trattamento tra ragazze e ragazzi, le garanzie di protezione contro ogni forma di violenza psicologica, fisica o morale, e il dovere che ne consegue, per ciascuno, di non usare alcuna violenza, il mutuo rispetto tra adulti e alunni, e degli alunni tra di loro.. [Tutto questo] costituisce uno dei fondamenti della vita collettiva.»
Questo è nel regolamento interno, ma voi capite bene che ho ripreso dei testi che sono ufficiali al Ministero dell'Educazione Nazionale, e che, anche se vi si apportano piccole precisazioni, sembrano abbastanza chiari. Ebbene, io non ho, con la legge [attuale], i mezzi per intervenire contro le azioni che mettono in pericolo la laicità.
Vorrei finire dicendo che la scuola tenta di fare dei cittadini responsabili che riflettono, ma ci sono certi media - non necessariamente francesi - che imbottiscono il cranio degli alunni. Mi scuso per l'espressione «imbottiscono il cranio», ma non ne trovo un'altra che sia altrettanto esplicita. Questi alunni pensano già che il lavoro a scuola non ha scopo, e che il rispetto degli altri è a senso unico. E questo imbottimento di crani genera idee completamente false su tutto, e particolarmente sull'odio per gli ebrei. E, per il momento, ritengo che quei media siano più forti della scuola per quel che riguarda l'antisemitismo ordinario. Le ore di educazione civica non reggono il confronto, e penso che una formazione alla laicità portata all'attenzione dei futuri insegnanti e anche all'attenzione degli anziani, mi sembrerebbe una cosa indispensabile.
Quindi, per me, un legge chiara che definisca quello che è vietato all'interno della scuola pubblica sarebbe una garanzia di efficacità.
(UPJF, 30.01.2004 - trad. www.ilvangelo.org)
Ved. foto sul sito internet.