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Discussione: Le palle...

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    Predefinito Le palle...

    ...d'Israele

    Gerusalemme. Ieri il gabinetto della sicurezza del governo israeliano di Ariel Sharon si è riunito per decidere su come rispondere all’attacco terroristico, rivendicato da Hamas e Martiri di al Aqsa, di domenica ad Ashdod, in cui sono morte 12 persone. La strage del porto poteva però essere ancora più grave: l’obiettivo dell’attacco erano i depositi di sostanze chimiche contenute in una nave cisterna. L’intenzione dei mandanti era quella di creare un avvelenamento generale nella città di Ashdod. L’allerta è ora così grave che si valuta la possibilità di rafforzare le difese immunitarie dei cittadini contro la malattia della Bolla Nera (vaiolo nero). I servizi di sicurezza hanno proposto reazioni forti, dure, come non si vedevano da tempo nei territori palestinesi. I servizi sostengono infatti che più si parla dell’intenzione del premier Sharon di lasciare Gaza più crescono i tentativi dei terroristi palestinesi di colpire Israele. L’obiettivo è anche d’immagine: vogliono far sembrare che, più che una scelta d’Israele, il ritiro da Gaza sia una fuga. Una prima reazione dell’esercito di Gerusalemme – che dopo la riunione del gabinetto della sicurezza ha deciso di riprendere le operazioni tese a colpire i membri di Hamas –c’è già stata ieri, con i tre missili lanciati contro un’abitazione e due veicoli di Gaza, con tre morti e almeno otto feriti. Oltre al quasi mega attentato, come lo definiscono i servizi di sicurezza, di Ashdod, i terroristi palestinesi, lunedì scorso, hanno valicato un’altra linea rossa, inviando in missione assassina un inconsapevole bambino di 12 anni con un zainetto pieno di esplosivo. Gli attivisti del Tanzim hanno anche avuto l’intenzione di attivare il dispositivo, una volta che il ragazzo è stato scoperto dagli israeliani durante un controllo. Abdallah Kurian ha 12 anni e abita nel piccolo villaggio Hawara, non lontano da Nablus.
    Il bambino, negli ultimi mesi, ha lavorato al posto di blocco vicino al suo paese, aiutando gli anziani a caricare la merce. Lunedì mattina, militanti del Tanzim lo hanno convinto a trasportare una cintura di esplosivo da una parte all’altra del posto di blocco promettendogli una ricompensa. La cintura doveva servire per un attentato in Israele. I mandanti di Abdallah sapevano che c’era la possibilità che fosse scoperto, così per non perdere il prezioso esplosivo hanno fatto in modo di poterlo seguire e di poter attivare il suo zaino bomba col telefono cellulare. La loro missione è fallita grazie all’attenzione di un giovane soldatessa, Moran Buknet, e al fatto che, nonostante i tentativi, il cellulare non ha attivato l’ordigno. Come ogni giorno, nel pomeriggio di lunedì, centinaia di bambini si sono avvicinati al posto di blocco dove servono unità di paracadutisti dell’esercito a fianco delle soldatesse della polizia militare. Toccava a Moran controllare Abdallah. “Le due borse che aveva erano piene di vestiti, allora gli ho indicato di aprire lo zainetto e subito mi sono accorta che qualcosa non andava – ha raccontato Moran – ho notato una scatola con tre fili bianchi e un piatto dove erano attaccati proiettili di una pistola. Gli ho chiesto di fermarsi e di allontanarsi dallo zaino e ho avvertito il comandante del posto di blocco”. Poi sono giunti militari che hanno allontanato dall’area i soldati e i palestinesi. Lo zainetto è stato fatto brillare con un esplosione che ha causato un buco enorme nel terreno. Secondo le stime si trattava di 10 chili di esplosivo. Abdallah è stato fermato per un breve interrogatorio in cui ha raccontato che mentre tornava da scuola ha ricevuto la borsa da uno sconosciuto che gli ha promesso soldi. “E’ un bambino simpatico e molto dolce”, ha detto il comandante dell’unità militare che ha gestito l’operazione. “Il nostro problema non è il bambino ma chi lo ha mandato per ingannarci: potrebbe essere la stessa cellula che un mese e mezzo fa tentò di contrabbandare esplosivo nascosto tra gli abiti di una donna, madre di sette figli”. La notizia ha ovviamente creato molto interesse e preoccupazione: ieri decine di giornalisti si sono recati a casa della famiglia di Abdallah. Sua madre Dalal ha espresso dubbi: non crede che i Tanzim abbiano tentato di attivare lo zainetto mentre Abdallah era ancora vicino; ha difficoltà a credere a questa storia.

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Re: Le palle...

    In origine postato da mustang
    ... Gerusalemme. Ieri il gabinetto della sicurezza del governo israeliano di Ariel Sharon si è riunito per decidere su come rispondere all’attacco terroristico...
    La decisione è stata quella solita. Armiano una diecina di tanks e 3-4 elicotteri ed andiamo ad assassinare un pò di palestinesi, compresi 2-3 bambini.

    Ricordati che gli ebrei non riconoscono Gesù, e che per loro "Occhio per occhio, dente per dente" è ancora parola di Dio...

  3. #3
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    Predefinito Non è una risposta

    ...a bamboccetto Dario


    Roma. La strategia del governo Sharon per favorire la soluzione del conflitto con i palestinesi e il mondo arabo si basa su tre pilastri – l’antiterrorismo, il ritiro da Gaza e Cisgiordania, la diplomazia – e su una forte dose di unilateralismo convinto e almeno in parte obbligato. L’uccisione del leader di Hamas, Ahmed Yassin, è un evento che contiene tutti gli aspetti della linea Sharon.
    E’ un’operazione di antiterrorismo perché Hamas è il gruppo che ha organizzato e rivendicato quasi tutti gli attentati della
    lunga seconda Intifada fino a quello di Ashdod che se fosse riuscito del tutto, colpendo l’obiettivo: depositi di sostanze chimiche, avrebbe avvelenato una città e provocato una strage senza precedenti.
    Perché Hamas ha di recente valicato un’altra linea rossa,
    passando dall’indottrinamento dei giovani (fino alla scelta del martirio assassino) all’utilizzo di un bambino di 12 anni per il trasporto di esplosivo.
    Perché Hamas collabora sempre più con le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, gruppo legato ad al Fatah, il partito di Yasser Arafat.
    Perché Hamas ha una sola prospettiva dichiarata: la distruzione
    d’Israele, e risulta dunque impossibile per qualunque premier di Gerusalemme immaginare un’alternativa alla forza.
    Il governo israeliano ha più volte ribadito che per fermare il terrorismo bisogna colpire uno a uno i suoi capi, i suoi organizzatori, i suoi ideologi, i suoi finanziatori.
    Oltre alle uccisioni mirate e alle azioni d’intelligence per scongiurare attentati, le altre due iniziative che Sharon considera fondamentali in questo campo sono la barriera di difesa e il contestuale ritiro unilaterale dai Territori.
    L’uccisione di Yassin è legata al piano di ritiro da Gaza e Cisgiordania.
    Per due ragioni.
    La prima: Israele ricorda il precedente del governo laburista di Ehud Barak che ordinò il ritiro dal Libano del Sud, ma la decisione fu interpretata ed esaltata da Hezbollah e dai palestinesi radicali come un segno di debolezza di Gerusalemme che non ottenne nulla dal punto di vista diplomatico, ma diede ai gruppi armati una carta per la propaganda tesa a raccogliere nuove forze e illusioni di successo per la causa del terrorismo. Sharon non vuole creare una situazione analoga e man mano che procede con il piano di ritiro dai Territori vuole dimostrare che la scelta di lasciare Gaza e Cisgiordania dipende da un desiderio di favorire una soluzione del conflitto e non da una carenza di successi militari.
    La seconda ragione può apparire paradossale, a prima vista. L’uccisione di Yassin provoca scontri e violenze subito e nel breve periodo, ma può servire a scongiurare una guerra civile o il caos nei Territori. Un’analisi più azzardata può arrivare perfino a dire che sia un aiuto dato alla debole classe dirigente dell’Autorità palestinese.
    Hamas, infatti, da tempo si rafforza in termini di consenso interno e di risorse esterne, ai danni della screditata, anche in patria, leadership di Arafat e del suo premier del momento, prima Abu Mazen, poi Abu Ala.

    I messaggi
    Che succede se Israele si ritira? Anarchia o trionfo di Hamas, sono le due previsioni più pessimiste e probabili.
    L’Anp si riforma e governa con l’aiuto dei vicini arabi, Egitto soprattutto, sono le due previsioni meno probabili e più ottimiste. Israele, eliminando Yassin, spera di favorire la seconda e più ottimista prospettiva.
    Hamas di fatto già controlla, dal punto di vista militare e sociale, Gaza e parti della Cisgiordania.
    Al Fatah, ammesso che l’intreccio-alleanza con Hamas non sia già consolidato, dovrebbe auspicare, almeno segretamente, un indebolimento del gruppo di Yassin. La cui uccisione peraltro, dal punto di vista d’Israele, ha anche obiettivi “diplomatici”. Gerusalemme segnala agli Stati Uniti che il piano di ritiro unilaterale va avanti e non può essere troppo legato alle scadenze elettorali americane.
    Agli europei Sharon manda a dire che con i terroristi non c’è tregua possibile.
    Ai vicini arabi, invece, arriva il richiamo a prendere sul serio la prospettiva di un’Anp libera e dunque a rischio caos.
    Con l’Egitto, del resto, a parte lo stop ai colloqui di ieri, Israele ha sempre tenuto e tiene aperti i canali di comunicazione ufficiali e non.
    Che poi una buona dose di unilateralismo sia indispensabile per Israele lo si può dedurre da dieci anni di processo di pace fallito, da tre anni e mezzo d’Intifada, da due premier bruciati sulla via della road map, dal fatto che sono gli israeliani a vivere ogni mese l’11 marzo di Madrid e sono gli israeliani ad avere il diritto di difendersi.

    da il Foglio di martedì 23 marzo

    saluti

  4. #4
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    Predefinito Israele e...

    ...USA

    Roma. “Abbiamo agito da soli”, ha detto ieri il ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom, dopo l’incontro con il vicepresidente americano Dick Cheney, riferendosi all’uccisione del leader di Hamas, Yassin.
    I motivi di distanza tra Washington e Gerusalemme, nell’ultimo periodo, sono più di uno. Un documento del Consiglio per la sicurezza nazionale, presieduto dalla Rice, ha giudicato il piano Sharon confuso, inutile, controproducente per gli Stati Uniti, dettato dal desiderio del premier di veder risalire i suoi consensi nei sondaggi, di allontanare lo scandalo finanziario nel quale è coinvolto suo figlio: il benservito dell’Amministrazione Bush.
    Non era mai accaduto, ma le elezioni del 2004, più l’atteggiamento europeo questo hanno provocato.
    Anche al boicottaggio del piano di difesa di Israele, così lo ha inteso Sharon, così lo ha comunicato ai ministri del gabinetto, da parte degli Stati Uniti, hanno risposto i tre missili che ieri hanno colpito Yassin.
    Se Sharon ha mandato un messaggio chiaro, guerra senza quartiere a Hamas, ultimo avvertimento ad Arafat, ce n’era anche per l’alleato Bush; le prime reazioni da Washington sono caute, ma dimostrano comprensione del segnale.
    Parla proprio Condoleezza Rice, prima di Colin Powell, e ricorda che l’Amministrazione non ne sapeva niente, il che è vero, e che Hamas è organizzazione terroristica, e lo sceicco ne era a capo. Tutto qui per il momento, cautela anche perché non salti fuori troppo vistosamente nella campagna elettorale, e nella constituency degli ebrei d’America, quanto Sharon sia stato irritato dai risultati delle missioni alla Casa Bianca del suo inviato speciale, Dov Weinglass; il quale a lungo ha stazionato laggiù insieme ad altri esperti per ottenere un accordo sul piano di ritiro unilaterale da Gaza, ma una settimana fa è tornato latore di note scoraggianti.
    Il piano non piace, non è chiaro, è stato annunciato dal premier israeliano prima di averlo discusso con l’alleato, prevede solo il ritiro dei civili, non si capiscono le ragioni dell’urgenza, visto che nel 2003 nessuno è stato ucciso nella striscia di Gaza, non si capisce chi controllerà le strade di accesso.
    Ancora, se volete tener fermo il porto di Gaza e l’aeroporto, isolare con un cordone di un chilometro la strada parallela al confine con l’Egitto, e volete anche lasciar circolare liberamente fra Gaza e West Bank, e anche far entrare in Israele i palestinesi che lavorano, tanto vale lasciar le cose come sono, perché secondo noi non cambia niente comunque.

    Egitto e Gaza
    Dura reazione di Mubarak al raid contro Yassin
    Milano. L’Egitto ha annullato la visita di una delegazione di deputati in Israele in occasione del 25° anniversario degli accordi di pace di Camp David del ’78.
    “Un atto di codardia, di cui Israele si pentirà”, ha detto il presidente egiziano Hosni Mubarak, commentando l’uccisione di Yassin. Interrogato sulle conseguenze dell’“omicidio mirato” sul processo di pace, Mubarak ha risposto: “Quale processo di pace?”.
    I delegati egiziani, con i colleghi israeliani, avrebbero valutato la possibilità di una parte attiva del paese nel piano di disimpegno unilaterale promosso da Sharon.
    Anche se il Cairo ha smentito le voci secondo cui avrebbe acconsentito alla richiesta di Gerusalemme di inviare truppe per mantenere la sicurezza nel Sud della Striscia di Gaza, dopo un eventuale ritiro israeliano, è certo che l’Egitto, per il suo ruolo di mediatore e la vicinanza geografica ai Territori palestinesi, tiene sott’osservazione tutti gli aspetti legati alla sicurezza a Gaza.
    La presenza dell’esercito egiziano nella Striscia è “una trappola per noi – ha detto Mubarak in un’intervista al Figaro – ci troveremmo in una situazione di confronto con i palestinesi e, se ci fossero problemi, potremmo anche trovarci in conflitto con gli israeliani”.
    Per il presidente egiziano è l’Autorità nazionale palestinese che deve occuparsi di mantenere il controllo dell’area.
    Il Cairo non può però tirarsi indietro del tutto e garantisce a Gerusalemme la collaborazione per mantenere la sicurezza lungo il confine tra Egitto e Israele, una zona in cui il maggior problema è il contrabbando di armi. A tale scopo Mubarak ha chiesto al governo Sharon di rivedere alcuni punti degli accordi di pace di Camp David, secondo i quali all’Egitto è permesso mantenere lungo il confine con Israele soltanto una forza di polizia e nessuna unità dell’esercito.
    Il Cairo chiede un “emendamento” per poter svolgere in maniera più efficace il controllo di una frontiera critica. Mubarak ha inoltre promesso che garantirà il maggior aiuto possibile a Israele, in modo che il ritiro dagli insediamenti possa avvenire in breve tempo. E benché il paese non abbia alcuna intenzione di mandare le sue truppe nella Striscia di Gaza, il Cairo è pronto ad assistere e ad addestrare le forze di polizia palestinesi, come ha già fatto in passato, perché queste possano al più presto garantire autonomamente la sicurezza di quei territori che, nel piano di Sharon, Israele sarebbe pronto a lasciare.

    saluti

  5. #5
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    Predefinito Il teologo del....

    ....terrore

    Roma. Itzhak Rabin considerava uno dei suoi più gravi errori aver favorito l’impianto di Hamas e l’opera di proselitismo di Ahmed Yassin nei Territori e a Gaza agli inizi della prima Intifada delle pietre, nel 1985-87.
    E’ importante ricordare quel clamoroso errore israeliano per comprendere il processo che ha portato oggi Gerusalemme alla eliminazione di Yassin.
    I leader israeliani, sia laburisti sia del Likud, venti anni fa, pensavano che il radicamento sociale di Yassin e di Hamas, basato sulla ben finanziata attività di organizzazione di “welfare islamico” da parte delle moschee, avrebbe migliorato le condizioni materiali dei palestinesi e rafforzato così un’alternativa praticabile al terrorismo stragista dell’Olp.
    Ma i leader israeliani non avevano ancora scoperto in Yassin quel che ancora oggi certa Europa non coglie: il suo essere il punto di incontro, di sovrapposizione e di unione dell’estremismo terrorista sunnita con quello sciita.
    Morto nell’89 l’ayatollah Khomeini, Yassin è rimasto infatti il massimo teologo islamico che unisce leadership religiosa e strategie teorico-pratiche di terrorismo islamico (incluse esecuzioni sommarie di centinaia di palestinesi “collaborazionisti”, personalmente ordinate).
    Egli ha definito una teologia sincretistica, basata su una visione della Storia in cui gli ebrei (non gli israeliani, gli ebrei), sono i nemici principali dell’umanità e una concezione “etica” per cui l’individuo può celebrare la sua salvezza solo nel culto della morte e del jihad assassino.
    Yassin ha insomma recepito nel corpo dottrinario sunnita quella teologia del “martirio” che si è radicata nell’Iran sciita con Alì Shariati e Khomeini.
    Una fusione di estremismo sunnita e sciita che gli è stata riconosciuta dagli ayatollah iraniani, succeduti a Khomeini, compreso quel Khatami che in Occidente passa per riformista e che appena rieletto presidente della Repubblica iniziò il suo mandato col gesto simbolico di un versamento di alcuni milioni di dollari a favore di Hamas.
    Le ragioni di questa empatia sono evidenti se si leggono le parole incise da Yassin nello statuto di Hamas:

    “L’ultimo Giorno non verrà sino a quando tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno…”; “Oggi si tratta della Palestina, domani di uno o più
    altri paesi. Perché lo schema sionista non ha limiti e dopo la Palestina cercherà di espandersi dal Nilo all’Eufrate.
    Quando avrà digerito la regione di cui si è cibato, guarderà avanti verso un’altra nazione e così via. Questo è il piano delineato nei Protocolli dei Savi di Sion”.

    La sintesi del finalismo islamico (il giudizio universale coincide con la scomparsa definitiva degli ebrei, sterminati dai musulmani) e delle follie dei Protocolli è il baricentro della teologia di Yassin, che rappresenta così la fusione tra il filone dei Fratelli musulmani, di cui era dirigente riconosciuto e rispettato, e quello di Hezbollah, che arriva in Palestina nei primi anni 80, passando per la tappa libanese.
    Lo scopo di Yassin, di Hamas, di Hezbollah è la distruzione dello Stato d’Israele; lo strumento è il martirio-stragista, che Yassin introduce nel movimento palestinese dal 6 aprile ’94, data del primo attentato suicida in Israele, ad Afula (9 morti), diretto contro l’accordo di pace Rabin-Arafat.

    “Per sterminare gli ebrei”
    Ieri Israele ha dunque ucciso uno tra i più popolari e prestigiosi leader del terrorismo islamico, un nemico sanguinario della prospettiva di “due popoli, due Stati”, perché per Hamas l’intera Palestina è un “‘waqf’, territorio affidato alle generazioni islamiche sino alla Resurrezione, di cui nessun uomo politico o capo di Stato o organizzazione internazionale può quindi disporre”.
    Da ieri non si sentirà più la voce di Yassin incitare i musulmani a “farsi saltare, ovunque nel mondo, per sterminare gli ebrei che sono porci e scimmie”.

    saluti

  6. #6
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    Predefinito I sermoni "pacifisti"....

    ....di jihad

    Milano. Il 22 marzo del 2002, dagli schermi della tv dell’Autorità palestinese, sheikh Ahmed Abdul Razeq predicava:
    “Il musulamano fu creato per morire per Allah! Il credente fu creato per conoscere il suo Signore e per sostenere l’Islam, per essere un martire o voler essere un martire. Se il musulmano non desidera il martirio, morirà come nella jiayllhyya (politeismo pagano pre-islamico, nda). Noi dobbiamo desiderare il martirio, chiederlo ad Allah. Se noi lo chiediamo sinceramente ad Allah, Egli ci garantirà la sua ricompensa persino se moriremo nel letto! Allah ha impresso nella nostra gioventù l’amore per il jihad, l’amore del martirio! I nostri giovani si sono trasformati in bombe, essi si fanno saltare in mezzo agli ebrei giorno e notte!”.

    Poco più di un mese prima dell’attacco alle Torri gemelle, il 3 agosto 2001, sempre sulla tv palestinese, l’emiro Muhammad Ibrahim Madi recitava il suo sermone:
    “Il mio spirito si elevò quando un giovane mi disse: ‘Oh sheikh, ho quattordici anni, ancora quattro anni e poi mi farò saltare tra i nemici di Allah, mi farò saltare tra gli ebrei’. Gli dissi: ‘Oh ragazzo, che Allah ti faccia meritare il martirio e mi faccia meritare il martirio!”. "Tutte le armi devono essere puntate sugli ebrei, i nemici di Allah, nazione maledetta nel Corano, che Allah descrive come scimmie e maiali, adoratori del vitello e degli idoli!
    Nulla li scoraggerà tranne il colore del sangue nella loro sporca nazione, a meno che non ci facciamo saltare in aria, con la nostra volontà e come nostro dovere, in mezzo a loro!”.

    Queste prediche, raccolte da Carlo Panella nel libro “I piccoli martiri assassini di Allah”, raccontano la “nuova teologia di morte che si è imposta in Palestina” dal 1994 in poi, ma era stata elaborata dall’ayatollah Khomeini, leader della rivoluzione islamica in Iran nel 1978.
    Nessuno spazio per una logica di “pace contro territori”, dunque. Dagli imam dei sermoni di Hamas, come dallo statuto dell’organizzazione, si capisce bene che nessuna mediazione è possibile.
    La comunità musulmana – secondo Hamas – non può accettare che gli ebrei costituiscano uno Stato là dove regnava il califfato.
    E’ un atto di fede. La politica e la diplomazia non possono interferire con un atto di fede, possono soltanto essere usate per creare le condizioni migliori, perché la guerra santa, il jihad, che è imperativo condurre, si svolga nelle condizioni migliori possibili.

    Gerusalemme. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso di eliminare i capi delle organizzazioni terroristiche in seguito all’attentato di Ashdod, di domenica 14 marzo, rivendicato da Hamas e Brigate dei Martiri di al Aqsa.
    Come ha scritto il Foglio mercoledì 17 marzo: “I servizi di sicurezza hanno proposto reazioni forti, dure, come non si vedevano da tempo nei Territori palestinesi.
    I servizi sostengono infatti che più si parla dell’intenzione del premier Sharon di lasciare Gaza più crescono i tentativi dei terroristi palestinesi di colpire Israele. L’esercito di Gerusalemme ha deciso di riprendere le operazioni tese a colpire i membri di Hamas”. Dopo l’attentato di Ashdod, Ariel Sharon ha chiamato il capo di Stato maggiore, Moshe Ya’alon, e gli ha ordinato di seguire tutti i movimenti dei leader dei gruppi terroristici.
    I servizi segreti hanno considerato l’attentato un successo degli aggressori. La reazione dell’opinione pubblica israeliana è stata analoga.
    Nell’attacco sono morte 11 persone. Gli attentatori suicidi, che sono riusciti a infiltrarsi in un luogo strategico, un porto fra i più importanti del paese, avrebbero potuto causare una strage di dimensioni inaudite.
    L’attentato avrebbe potuto segnare una svolta nella realtà mediorientale.
    Nell’area del porto ci sono tonnellate di materiale pericoloso: bromuro, ammoniaca e petrolio. Se i terroristi fossero riusciti a far saltare in aria i depositi, una nube tossica enorme si sarebbe alzata nel cielo di Ashdod.
    Fonti dei servizi non nascondono la possibilità che un “mega attentato sia soltanto questione di tempo”, un colpo simile a quello di Madrid, e sottolineano che anche obiettivi israeliani ed ebraici all’estero sono di nuovo nel mirino. Si considera addirittura la possibilità di vaccinare i cittadini contro il vaiolo e di distribuire maschere antigas.
    I tentativi di colpire Israele con un mega attentato non sono certo nuovi.
    Nel corso dell’ultima Intifada, sono stati minacciati diversi obiettivi strategici.
    Un camion bomba ha cercato di colpire le torri Azrieli, nelcentro di Tel Aviv.
    Uomini di Hamas hanno tentato di lanciare missili verso la centrale elettrica di Askelon, una cellula del Jihad islamico ha programmato l’abbattimento di un elicottero sulla Knesset, il Parlamento israeliano.
    A rischio anche l’aeroporto internazionale Ben Gurion, soprattutto in questi giorni, in cui il traffico di passeggeri è sempre più intenso a causa della Pasqua ebraica.

    saluti

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    Predefinito Il falco Kerry zittisce Dean....

    ....e i pacifisti nostrani


    New York. Il lettore europeo che volesse capire per quale motivo il beniamino della sinistra, Howard Dean, abbia preso la clamorosa batosta che ha preso alle primarie democratiche, nonostante i 40 milioni di dollari e l’appoggio dei mass media, dovrebbe leggersi la sua dichiarazione sulla strage di Madrid e poi confrontarla con quella di John Forbes Kerry, il democratico che, invece, le primarie le ha stravinte e che il 2 novembre sfiderà George W. Bush.
    Dean, martedì sera, nel corso di una manifestazione a favore di
    Kerry, con Kerry assente, ha detto che una delle "cause” della morte dei 201 spagnoli è la politica di George W. Bush, e la sua
    guerra al terrorismo.
    Il capo della campagna presidenziale di Bush-Cheney, Marc Racicot, non ha fatto a tempo a chiedere a Kerry di “ripudiare immediatamente i commenti” di Dean, che Kerry l’aveva già fatto in modo perentorio: “Non è la nostra posizione”.
    Kerry non è come Zapatero, nonostante il premier spagnolo si auguri la vittoria di Kerry. Per intenderci, l’altro ieri, Kerry ha detto: “Vorrei dire una cosa a tutti gli americani, ma anche ai nostri alleati e ai nostri nemici, quando c’è da difendere il paese e da combattere il terrorismo, l’America sarà sempre unita”.
    Kerry lo ha ripetuto anche ieri: “Gli eventi spagnoli non ci convinceranno a lasciare l’Iraq, ho telefonato a Zapatero invitandolo a riconsiderare la sua scelta perché i terroristi non possono vincere grazie ai loro atti di terrore”.
    A una televisione dell’Arizona, ha ribadito: “A mio giudizio Zapatero doveva dire che la strage avrebbe aumentato la nostra determinazione a portare a termine il lavoro”.

    A differenza di quei leader della sinistra europea che dopo le elezioni spagnole si sono affrettati a dire di aver sempre avuto la stessa posizione di Zapatero, Kerry se ne è guardato bene e per un paio di giorni ha addirittura evitato di fare cenni alla strage di Madrid. Un conto è criticare duramente la politica di Bush, un altro è tirarsi indietro di fronte a chi ti ha dichiarato guerra. Il senatore della Florida Bob Graham, uno dei possibili candidati vicepresidenti, al New York Times ha spiegato il motivo: “Credo che nessun politico americano possa candidarsi alla presidenza con una piattaforma che spera accadano eventi negativi: qualcuno in campagna elettorale potrebbe interpretare una valutazione della tragedia di Spagna come una dichiarazione che saremo i prossimi a essere attaccati”.

    Più di Rumsfeld
    Alla George Washington University, ieri Kerry ha annunciato i suoi “piani per rafforzare la forza militare americana”, con frasi
    di questo tipo: “L’America ha bisogno di un presidente che faccia tutto il necessario per creare la più moderna forza combattente
    della Terra”. Oppure: “Da presidente farò tutto quello che serve per assicurare che l’esercito americano del ventunesimo secolo
    sia il più forte del mondo”. Ancora: “Non esiterò a usare la forza se sarà necessario scatenare e vincere la guerra al terrore”. Di
    più: “Al cuore di questa forza ci deve essere un esercito
    perfettamente equipaggiato per essere pronto ad affrontare qualsiasi avversario, in qualsiasi posto”.
    Secondo il senatore del Massachusetts, “la missione in Iraq non è finita, le ostilità non sono cessate e i nostri uomini e le nostre
    donne in uniforme combattono quasi da soli con un bersaglio sulla schiena”.
    Ma la sua risposta non è quella di ritirarsi dal “pantano”, perché l’Iraq “diventerebbe un rifugio per i terroristi e una minaccia per il nostro futuro”, piuttosto è quella di rigettare l’unilateralismo di Bush, costruire una più ampia alleanza internazionale e dare più fiducia e più assistenza ai militari.
    Kerry si deve far perdonare, come insistono gli spot di Bush, di non aver votato gli 87 miliardi di dollari che finanziavano la missione e la ricostruzione dell’Iraq. Nei giorni scorsi si è difeso goffamente, dicendo che se il voto fosse stato decisivo probabilmente avrebbe votato in modo diverso.
    Ma Kerry ha davvero a cuore l’esercito del suo paese, così ieri ha proposto di aumentare di 40 mila unità il numero dei militari americani, 10 mila in più di quelli proposti da Donald Rumesfeld, e ha presentato il “Military Families Bill of Rights” che prevede benefici sanitari e previdenziali per i veterani di guerra.

    saluti

  8. #8
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    Predefinito Re: Non è una risposta

    In origine postato da mustang
    ...a bamboccetto Dario

    saluti
    Rispondi tu, bamboccetto; non copincollare...

  9. #9
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    Predefinito Il rappresentante Anp in Italia...

    ...dice che la "nostra polizia è stata distrutta"

    Milano. L’attacco in cui ha perso la vita lo sceicco Ahmed Yassin, guida spirituale di Hamas, è stato ordinato dal premier Ariel Sharon in persona. Il numero due di Hamas, Abdul Aziz Al Rantissi ha dichiarato, mentre si trovava in mezzo alla folla scesa nelle strade di Gaza, che “non ci sarà vendetta, gli israeliani sanno che ormai è guerra aperta”. Una prospettiva che fa naufragare ogni speranza di dialogo, anche minimo. “Le uccisioni mirate non hanno altro nome che terrorismo di Stato – dice al Foglio Nemer Hammad, rappresentante dell’Autorità nazionale palestinese in Italia –
    In ogni situazione è necessario valutare le conseguenze delle proprie azioni. Sharon ha dichiarato di aver personalmente perseguito questo attentato. Parla la lingua della forza”.
    Negli ultimi mesi Hamas ha acquistato maggior potere nei Territori,
    sfruttando una volta di più le lacune dell’Anp e il vuoto istituzionale che questa non riesce a colmare.
    Hamas infatti è profondamente radicata tra la gente, lo prova l’altissimo numero di persone che hanno sfilato in corteo ieri per le strade di Gaza. L’organizzazione infatti accanto alla sua attività
    terroristica ha sviluppato una funzione sociale che arriva là dove
    non arriva l’Anp: costruzione di scuole, ospedali e varie altre opere.
    “Quando non c’è un processo di pace non c’è speranza –dice Hammad, commentando l’aumento di potere di Hamas – crescono la disperazione e l’estremismo. Bisogna ricordare le parole quasi sacre di Yitzhak Rabin: ‘negoziare per la pace come se non ci fosse il terrorismo e combattere il terrorismo come se non ci fosse il negoziato di pace’. La politica di Sharon non mostra alcun desiderio di pace, aiuta l’estremismo”.
    “Nessun negoziato finché non cesseranno le violenze palestinesi”. Per più di due anni questa è stata la politica di Ariel Sharon.
    Più volte negli scorsi mesi il governo israeliano e la comunità internazionale hanno accusato l’Autorità nazionale palestinese
    di non fare abbastanza, di non fare nulla per frenare il terrorismo.
    “La soluzione non dipende da noi – continua Hammad. La nostra polizia infatti è stata distrutta. Quando il primo ministro Abu Ala è stato qui a Roma abbiamo chiesto anche al governo Berlusconi di aiutarci nella ricostruzione delle nostre forze armate. Il primo passo sarebbe l’invio di una forza internazionale nei Territori, la presenza di osservatori. Possono le due parti, oggi, con questo odio, fare tutto da sole? La risposta è no”.
    Israele si oppone alla presenza di una forza di interposizione nella regione, ma secondo il quotidiano liberal Ha’aretz i servizi di Gerusalemme hanno avuto contatti con gli egiziani per cedere loro il controllo della sicurezza nel cosiddetto corridoio di Filadelfia, a Sud della striscia di Gaza.
    “La cosa non riguarda l’Egitto, gli egiziani stessi hanno risposto che da soli non sono disposti a venire. C’è la necessità di una presenza internazionale. Le due parti da sole non possono risolvere questo conflitto. Ci vuole una conferenza di pace internazionale per applicare gli accordi. Dove sono finiti gli accordi tra israeliani e palestinesi? Ariel Sharon non riconosce né
    Oslo 1 né Oslo 2”.

    “Nessuno sa niente” del ritiro annunciato
    Domenica scorsa Ariel Sharon, ha presentato il suo piano di disimpegno unilaterale dalla Striscia di Gaza a 13 ministri del suo governo, appartenenti al Likud. Il progetto è visto come un’alternativa alla road map, che prevede la nascita di uno Stato indipendente palestinese entro il 2005, nel caso in cui questa dovesse definitivamente affondare. “Sharon prima ha annunciato che si sarebbe ritirato da Gaza entro tre mesi dalla presentazione del suo piano, poi entro un anno. Prima ha parlato di un ritiro totale dagli insediamenti, poi di un ritiro parziale. Nessuno sa niente. Decide da solo il gioco. Questo conflitto ha bisogno di regole. Abu Ala? Che cosa può fare il suo governo, senza commercio interno, estero, senza un’economia. Abu Ala deve affrontare gli stessi problemi di Abu Mazen. Si è mosso, è venuto a Roma, è andato a Parigi, a Berlino e ha posto sempre il solito problema: è necessario garantire che Sharon accetti di trattare sulla base di qualcosa di concreto: la road map, Oslo, la risoluzione dell’Onu. Mi auguro che oggi l’Unione europea, dopo i fatti di Madrid, dopo che tante volte si è detto che per sconfiggere il terrorismo internazionale è necessario risolvere il conflitto israelo-palestinese, faccia qualcosa. L’Europa deve prendere iniziative concrete contro Israele. Se non sarà seguito dai fatti, il comunicato di condanna dell’assassinio di Yassin non è sufficiente”.

    saluti

  10. #10
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    Predefinito Le regole di....

    ....guerra

    Una guerra è una guerra. Lo sceicco Ahmed Yassin era un capo terrorista. La sua organizzazione vuole buttare a mare gli ebrei e il loro Stato, e per raggiungere lo scopo uccide indiscriminatamente centinaia di civili israeliani da anni.
    Sul piano della moralità politica, che Dio ci perdoni per il fatto di pensare questo pensiero, ma lo pensiamo, la sua uccisione ha una logica stringente. In termini di autodifesa esistenziale per un popolo e uno Stato che si sono uniti in un lembo di terra mediorientale nel segno di una promessa nazionale, anche. Quando l’attacco è a una persona, le certezze tremano.
    La guerra è sempre sporca, fetida, ma si salva in parte nell’astrazione di quell’anonimato tragico che è il Nemico. L’omicidio individuale è controterrorismo, la variante fradicia e tragica della guerra nel suo naturale porcaio.
    L’assassinio mirato fa schifo, ma i sepolcri imbiancati che giudicano e mandano non sono da meno.
    Gli europei finanziatori di Hamas non hanno l’autorità necessaria per dare lezioni a un paese al quale la gioia spirituale del martirio organizzato e promosso da uomini come Yassin è costato un numero di vittime civili che, in proporzione aritmetica con la popolazione di un paese come l’Italia, arriva ai diecimila morti in tre anni.
    La questione da guardare in faccia, mentre ribolle il dubbio naturale dell’intelligenza e la scelta individuale nel giudizio fa il suo corso, è storica e politica. Yassin non era solo un capo terrorista. Era la coincidenza di una guida spirituale e di una guida terrorista, era la rappresentazione di questa unità e identità che non fa più dormire il sonno del giusto all’Occidente sempre più stanco.
    Lo stesso vale per la sua organizzazione, fatta di terrorismo e patriottismo, vocazione all’assassinio più spietato e alla solidarietà sociale in una terra occupata e infelice.
    Il governo israeliano, da questo punto di vista, è politicamente in balia degli eventi. Non riesce a esprimere, nonostante abbia scelto sotto le bombe la strada forse feconda del ritiro unilaterale e guerresco da parte dei territori, e comunque da Gaza, una linea in cui la via militare e quella politica, guerra e diplomazia, tendano alla convergenza. La tragedia è tutta lì: Israele fa tutto da solo, occupa e si ritira, combatte e si difende, distrugge per non essere distrutto. E la famosa comunità internazionale, quella parte che copre Arafat e ha coperto fino all’ultimo Saddam Hussein, non è capace di unirsi e intervenire.
    E offre le sue lezioni di pace, che sono più sporche ancora della guerra.

    Giuliano Ferrara su il Foglio di martedì 23 marzo

    saluti

 

 

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