Eppur si muove - www.rossebandiere.tk
La manifestazione di Roma sulla pace è stata grandiosa: ce lo mostrano i numeri dei partecipanti, le immagini, l'impegno di centinaia di associazioni di svariati orientamenti culturali e politici. La grandezza di questa altra "superpotenza" è verificata sui bisogni di giustzia sociale, di libertà e pace, di eguaglianza tra gli individui e di derubricamento dall'agenda della storia della parola "guerra". Nelle strade della Capitale, in molte altre città e megalopoli del mondo, si sono svolti analoghi cortei: un coro unanime, una voce rispettosa di qualunque differenza dell'altro da sè, e al contempo conscia di dover mantenere
uno stretto legame per poter proseguire con decisione la lotta sociale per affermare i valori del dialogo e non delle bombe... se mai le bombe hanno costituito un valore in sè e per sè.
Questo grande senso civico, senso comune e politico, in molti anche religioso, di accostarsi al pacifismo non è una semplice "forma mentis" che giace nel nuovo paniere della protesta globale. E' una presa d'atto, una critica cosciente
verso un capitalismo antropofago, che divora gli individui con gli spregiudicati mezzi del potere, del bellicismo a tutti i costi, sia quel che sia: è stato così con l'Afghanistan, così con l'Iraq. Alla Repubblica stellata americana servivano dei morti: prima con il crollo delle Torri Gemelle per crearsi un potente alibi su cui far decollare le fortezze volanti della morte da Kandahar a Kabul, poi durante la guerra medesima con la sconfitta di coloro che avevano contribuito a creare (gli studenti coranici "talebani") e poi
con l'affannosa ricerca della armi di distruzione di massa forse che sì, forse che nò possedute da Saddam Hussein. Un massacro dopo l'altro, una conquista dopo l'altra. E la nostra Repubblica
ha deciso di schierarsi accanto al potente impero americano con una supinità tanto palese, evidente e costante nel tempo da risultare, se non si parlasse di vite umane in ballo, ridicola. Nella manifestazione di Roma c'erano, abbiamo detto, le più diverse sensibilità. E ci siamo riferiti a sensibilità politiche, religiose, sociali, etiche, ecc. C'era per questo ben visibile chi proclamava slogan su cartelli con sopra scritto: "Via l'Italia dall'Iraq!" e c'era chi ha scritto su un lungo telone: "Con la resistenza irachena!".
Subdolamente ed altrettanto intelligentemente, il serpentone Giuliano Ferrara ha sentenziato alla televisione che la manifestazione era contro il terrorismo, di tutti i tipi, anche quello iracheno.
Certo. La manifestazione era contro la guerra, per la pace, contro il terrorismo, per la vita. Ma quello che troppo spesso viene dichiarato terrorismo in Iraq, terminate le operazioni belliche in grande stile, è una determinata resistenza agli occupanti inglesi, americani, italiani, polacchi, ecc. Il popolo iracheno è stato spinto dagli USA nelle braccia del fondamentalismo islamico quando ha abbattuto il governo autarchico di Saddam Hussein. Un
regime dittatoriale, certo, ma pur sempre un regime privo delle connotazioni teocratiche che per esempio vigono negli stati amici degli USA, come Arabia Saudita, Bharein, Emirati Arabi Uniti o, anche, del nemico iraniano. In tutto questo complesso sistema di relazioni internazionali, l'unità del popolo della pace è stata preziosa risorsa per dimostrare che non è finita: che siamo ancora in guerra e che le bombe di Madrid stanno lì a dimostrarlo.
Tuttavia è improvato il rapporto inverso quello del terrorismo che causerebbe la guerra. Fino ad ora è stato l'imperialismo a scatenare i conflitti armati, ad intromettersi economicamente nelle strutture pecuniarie di altre nazioni e a far fibrillare i loro mercati fino al collasso. Il Venezuela di Chavez ne sa certamente qualcosa in merito al gran valzer del dominio sulle risorse petrolifere che sta portando gli USA ad una grande sconfitta, con un'America Latina vicina all'accordo per l'esportazione di petrolio e l'Alca che traballa di giorno in giorno sempre più. Anche per questo milioni di cittadini del continente americano sono scesi nelle piazze degli Stati Uniti, del Brasile, dell'Argentina, del Canada, del Messico e del Cile, e di altri stati. Per dire NO alle politiche liberiste che affamano i popoli e ingrassano quel 5% al mondo che detiene un quarto delle risorse del pianeta. Contro tutto questo, lo ribadiamo, l'unità è un bene prezioso, va coltivata con sapienza e con calma. E' una via di lunga lena quella della ricerca di congiunzioni politiche e sociali, ma porta molto spesso ottimi frutti: primo fra tutti, qui in Italia, la necessità di alloggiare a casa propria erlusconi e compagnia, scomodandolo da Palazzo Chigi e riportando lo stato democratico all'altezza del suo nome.
Vi sono molte problematiche nella coalizione di centrosinistra e nei rapporti con Rifondazione Comunista: ma questo non deve sorprendere. E' evidente che le politiche del PRC sono profondamente differenti da quelle proposte dall'Ulivo, ma non per ciò si deve creare un dogma antisociale di stampo
esclusivamente politicista per cui i comunisti debbano sempre e comunque essere all'opposizione. Altrettanto non va reso assoluto e scevro da critiche il governismo, un brutto tteggiamento che lasciamo ad altri partiti della sinistra, quella moderata. L'autonomia dei comunisti e l'unità con le altre forze della sinistra è utile, necessaria e doverosa verso tutti coloro che oggi patiscono i "frutti" del lavoro a tappe forzate di feroce smantellamento dello stato sociale operato dalle destre. Sul tema della guerra l'ambiguità del centrosinistra, in particolare della lista Uniti nell'Ulivo (DS, Margherita, SDI e Repubblicani Europei), è un elemento che ancora oggi non riusciamo a comprendere: il "non voto" in Parlamento sul tema del rifinanziamento della missione italiana in Iraq è un atto pilatesco?
Se anche lo fosse, sarebbe grave comunque. Ma più che a Pilato, qui occorre fare riferimento, in metafora, a quei socialisti tedeschi che votarono i crediti di guerra, con Rosa Luxemburg e Karl Liebcknet intenti a dire NO e a fondare il Partito Comunista tedesco.
Un comportamento parlamentare che mostra a chiare lettere il fallimento dell'ipotesi riformista sulla guerra. Neppure l'ipotesi del ritiro zapaterista nel prossimo giugno ci convince. Bene ha detto ieri il compagno Bertinotti: "C'è posto per tutti" alla manifestazione, riferendosi alla presenza di Piero Fassino e Francesco Rutelli. Ed è per questo che la contestazione, a tratti violenta, dei c.d. "Disobbedienti" che hanno insultato e gettato
oggetti contro il segretario dei DS, è per noi una manifestazione che fuoriesce dai valori di quell'immenso popolo pacifista che stava marciando nelle vie di Roma.
Al solito i Disobbedienti erano guidati da Luca Casarini, Francesco Caruso e da quel tale Guido Lutrario che alcuni mesi fa chiedeva a pieni polmoni lo scioglimento del Partito della Rifondazione Comunista e dei Giovani Comunisti nel "Movimento".
Insomma... il lupo perde il pelo, ma non il vizio. I Disobbedienti non possiedono una idea politica di partito come luogo di sviluppo delle azioni sociali e non. Il loro agire è dettato dalla contrarietà alla "globalizzazione capitalistica": erano una "moda politica" quando si chiamavano "Tute bianche" e lo sono ora, quando rovesciano chili di letame davanti alla casa-sede partito romana
di Berlusconi e quando, nel contesto di un corteo pacifista e pacifico, sono e si dimostrano l'unico elemento distonante e dispersivo dei valori della pace.
Non solo per i gesti che hanno rasentato la violenza, quanto per lo spirito preventivo con cui quella contestazione a Fassino è stata fatta. Per questo sarebbe serio e confacente che i Giovani Comunisti facessero una approfondita riflessione sul rapporto con la disobbedienza dei "Disobbedienti".
Magari continuando a sentirsi disobbedienti, ma lasciando dietro di sè un modo d'agire e di pensare che fa venire in mente non tanto Gramsci, Togliatti, Berlinguer, Pajetta e Longo, quanto Giannini e Pannella.
Marco Sferini