Rugova: «Indipendenza subito»

«Il distacco del Kosovo dalla Serbia calmerebbe l’intera regione balcanica»


DAL NOSTRO INVIATO
PRISTINA - Sembra imbarazzato. Ibrahim Rugova ha attorno al collo il solito foulard blu, in tinta con la giacca. Siede nell'ufficio di casa sua, ha convocato all'improvviso i giornalisti per un incontro che lui per primo sembra non volere. Il presidente del Kosovo ha attraversato questi giorni di tempesta con la sua solita prudenza. Una remissività che in altri tempi era solo apparente. Forse non è più così. Quello che è successo è l'esatto contrario dei desideri del «Ghandi dei Balcani»: oltre ai 31 morti, 286 case bruciate, 30 monasteri incendiati, altri 11 danneggiati, 600 civili e 100 poliziotti feriti, 163 arresti. Numeri che sono uno schiaffo alla sua strategia della non violenza.
Rugova si lascia fotografare in ufficio, sotto alle foto che lo ritraggono con Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta. Ma dà l'impressione di essere spaesato e stanco. Un quarto d'ora di conversazione, risposte impacciate. Sembra che per lui sia quasi un dovere, questo apparire. Per riprendere il centro di una scena dalla quale sembra ormai essere sempre più isolato. Un simbolo da portare all'occhiello, mentre le decisioni, in Kosovo, vengono prese da altri. E non è un buon segno, per nessuno, visto che il carisma pacato di Rugova e la sua moderazione hanno spesso fatto da coperchio ai furori riesplosi in questi giorni. Ma nella sua richiesta di una maggiore autonomia dall'ombrello dell'Onu, in molti vedono un cedimento alla parte più oltranzista del governo locale.
Questi giorni di tensione riportano a galla la questione irrisolta del Kosovo.
«Ormai è chiaro a tutti che l'indipendenza dalla Serbia è vitale per il Kosovo e i kosovari. Non solo per loro. Perché calmerebbe l'intera regione balcanica».
Non le sembra che la vostra richiesta di indipendenza sia stata danneggiata da quel che è avvenuto?
«I fatti di questi giorni hanno sicuramente gettato una cattiva luce sui kosovari. Su questo non c'è dubbio, ed è un danno che pesa davanti alla comunità internazionale. Conosciamo tutti i pregiudizi sugli albanesi, e queste vicende non aiutano».
Soltanto un danno di immagine?
«Non credo che le violenze di questi giorni mettano a rischio il processo che porta all’indipendenza».
Gli elementi politici radicali chiedono più potere. Sostengono che l'Unmik, la missione Onu che amministra la provincia, rende inutile il vostro Parlamento.
«Sicuramente devono essere riviste le relazioni tra i due organismi. E' un problema vitale. Anch'io ormai ritengo necessario un trasferimento delle competenze».
Qual è la sua riflessione sui fatti di questi giorni?
«E' la triste dimostrazione che molto non ha funzionato. Non c'è comunicazione tra le due etnie. E' brutto ammetterlo, a cinque anni dalla liberazione del Kosovo. Ma è così».
Cambierà qualcosa nei vostri progetti?
«No. Spero di no. Vogliamo un Kosovo multietnico a maggioranza albanese. Ma multietnico significa anche dialogante. Ed è su questo che dobbiamo fare gli sforzi maggiori».
Nel Parlamento di Pristina molti sognano una indipendenza raggiunta più in fretta cedendo la zona di Mitrovica alla Serbia. E lei?
«E' un sogno sbagliato. E non è possibile alcun compromesso sull'indipendenza. Le frontiere sono intoccabili, e questo è un principio fondamentale. Non se ne parla».
Domani sono cinque anni dall'inizio dei bombardamenti. Un bilancio.
«E' chiaro che ci sono dei problemi, sarebbe stupido negarlo. Ma è un bilancio comunque positivo. Siamo poveri, ma l'economia si sta muovendo. Il cinquanta per cento delle aziende è stato privatizzato, le altre seguiranno la stessa sorte. E poi, i più giovani definiscono quel 24 marzo 1999 come "il giorno della speranza". Mi sembra un concetto giusto. Ed eloquente».