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    Dalla parte del torto!
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    Predefinito Michael Moore, eversore o cane da guardia?

    di Simone Santini

    Michael Moore è un filmaker e scrittore americano. Osservando il suo aspetto, ci aspetteremmo di vederlo ingozzarsi di hamburgers e patatine in qualche fast-food della provincia americana, col suo incedere corpulento, il perenne berrettino da baseball in testa, l’abbigliamento trasandato e grunge,lo sguardo dolce e vivace di un bambinone cresciuto a telefilm e alimenti iperproteici. Ci aspetteremmo che Moore guidasse un enorme camion attraverso le infinite high ways,oppure che facesse l’operaio in qualche acciaieria nei dintorni di Detroit o Denver. Invece Moore è oggi l’intellettuale e artista americano più conosciuto al mondo, il più scomodo, eversivo, corrosivo, brillante.
    Fino a pochissimi anni fa, Moore era praticamente sconosciuto, soprattutto all’estero. Poi, nel 2002 cura la regia di un documentario dal titolo Bowling a Columbine,un ritratto a tinte forti di un’America sull’orlo del disastro. Il successo è travolgente e sfocia nella vittoria di un Oscar cinematografico. Mentre i suoi libri vendono milioni di copie, Moore realizza un secondo documentario, Fahreneit 9/11, che riceve la Palma d’Oro al festival di Cannes e che sta riscuotendo un successo di pubblico senza precedenti per il genere documentaristico (è uscito da poco anche nelle sale italiane).
    Lo stile di Moore è in effetti originale ed efficace. Parte da episodi simbolici e altamente drammatici della nostra epoca, usandoli per indagare la realtà della società americana, cercare di capirne le strutture, i meccanismi, gli orrori. È uno sguardo sociologico, investigativo, ma a tratti anche poetico.
    In Bowling a Columbine,il punto di partenza è la strage operata in una scuola del Colorado, la Columbine High School, da due adolescenti disadattati, che in un giorno di ordinaria follia si sono recati nella loro scuola armati di tutto punto ed hanno cominciato a fare fuoco su studenti e professori. In Fahreneit 9/11 si parte dalla tragedia dell’11 settembre per mettere sotto la lente di ingrandimento gli uomini e le strutture dell’attuale potere, politico ed economico, americano. Dalla comparazione dei due lavori emergono differenze sostanziali di tono che ci hanno fatto riflettere e che vogliamo sottoporre all’attenzione dei nostri lettori.

    Bowling a Columbine è un lavoro pressoché perfetto. Corposo, composto, preciso nell’indagare cause, effetti, contorni di una vicenda drammatica. Dal punto di vista narrativo è esemplare nel miscelare commozione e ironia, immagini e voci reali (riprese di telecamere di sorveglianza e registrazioni di telefonate ai numeri di emergenza) con interviste delle fonti o prese dalla strada. Eccellente, poi, l’uso e il montaggio di spezzoni di telegiornali, immagini di repertorio, vecchi telefilm, sigle di programmi popolari o canzoni, mentre vengono snocciolati, senza mai annoiare, cifre e statistiche.
    Il risultato è una testimonianza agghiacciante. Gli Stati Uniti appaiono come il paese più cruento al mondo, in cui la violenza tra i cittadini, a volte ingiustificata come quella alla Columbine, può scoppiare in qualunque momento in maniera selvaggia ed incontrollata. Come è possibile tutto questo? L’America ha una tradizione di violenza insita nella propria storia, violenza che si è espressa al suo interno ma anche e soprattutto verso l’esterno. Moore non ha difficoltà ad indicare in entrambi i casi una sequela di orrori. Ma tutto questo non basta a spiegare. Anche la Germania o la Francia hanno conosciuto l’uso dello sterminio di massa (facile l’aggancio al nazismo o alla politica coloniale francese), eppure le odierne società europee contano le proprie morti violente in poche centinaia l’anno, mentre negli Usa sono oltre diecimila.
    A questo punto Moore sposta la sua attenzione sulla propensione americana a detenere armi, il cui uso e libera circolazione è tra l’altro consentito dalla legge in maniera piuttosto permissiva. Ma anche in questo caso l’autore smonta l’ipotesi in maniera lampante e perfino gustosa, paragonando e mostrando la propensione alla violenza statunitense con l’accogliente e pacifica attitudine dei canadesi, popolo americano con la stessa inclinazione verso le armi, ma con un tasso di criminalità e morti violente infinitamente inferiore ai vicini. La conclusione che se ne trae è che la violenza è un elemento sistemico della società statunitense, delle sue strutture sociali basate sull’esclusione e la paura dell’altro, specialmente se diverso. In effetti, il terrore permea tutta la società: vi è stato instillato nel corso della storia, specialmente nel rapporto tra la popolazione bianca e quella afroamericana, e oggi anche ispanica; è determinato dalla precarietà della sicurezza sociale, in campo sanitario ad esempio; e poi la paura è presente nella comunicazione, ad ogni livello, in maniera massiccia e ossessiva.
    Queste conclusioni vengono indicate in maniera lampante con una tecnica registica brillante, alternando continuamente tra il singolo caso della strage nella scuola, ad elementi riferibili al modello generale americano. Si è detto che i ragazzi autori del massacro fossero stati ispirati dal loro cantante preferito, il “satanico” Marilyn Manson. Ma, chiosa Moore, quel giorno Clinton annunciava alla nazione il più pesante bombardamento contro la Serbia nell’ambito della guerra per la “liberazione” del Kosovo (si era nella primavera del ’99). Perché un atto di così estrema violenza non avrebbe potuto ispirarli allo stesso modo? E poi, quel giorno i ragazzi giocarono a bowling: una partita in quello che è il gioco di massa proprio del costume americano, poi si armano, vanno a scuola e sparano a decine di persone. In modo caustico e paradossale Moore fa notare: non potrebbe esistere una relazione tra i due fatti? La verità è che la ricerca delle cause ultime non porterà mai a nessuna certezza. Quello che rimane è lo scenario di fondo, uno scenario cupo e terrorizzato, in cui due ragazzi con problemi esistenziali hanno trovato la normalità nella follia della morte, in un contesto in cui è facile trovare armi, in cui è facile sentirsi “fuori”, in cui è facilissimo avere paura degli altri e volersi vendicare di loro.
    È il terrore che guida le scelte degli americani: quando consumano, quando si divertono, quando pianificano il futuro, quando si rapportano col vicino di casa. Del resto il terrore è una formidabile arma di controllo sociale attraverso cui plasmare una società che si vorrebbe libera e democratica nella forma, ma che è estremamente compressa e controllata nella sostanza. La conseguenza di un simile modello, lo scotto da pagare, è la fobia, la nevrosi, la follia che a volte può portare ad una strage come quella alla Columbine.

    La cifra artistica di Moore è limpidamente mantenuta in Fahreneit 9/11.
    In alcuni passaggi la sua narrazione è ancora più corrosiva, con una ironia ancora più aggressiva, ma allo stesso tempo è altissima la sensibilità e la commossa attenzione verso le vittime delle varie tragedie mostrate. Alcuni passaggi sono addirittura strazianti: lo schianto sulle Torri gemelle non viene mostrato, ma su uno schermo nero udiamo il sonoro delle sequenze. Poi il volto sconvolto delle persone comuni sotto le due torri ci parla più eloquentemente di mille inutili parole. In un mondo dove l’immagine e la retorica è diventata così invadente ed anestetizzante, quel vuoto e quel silenzio sono l’unico modo per ridarci il senso della tragedia. Quindi l’immagine di due donne colpisce profondamente il cuore, donne così diverse eppure così simili nel dolore: una irachena, la cui famiglia è stata sterminata in un bombardamento, che invoca tra urla lancinanti la vendetta e la giustizia divina, ultima risorsa per una esistenza che ha perso tutto; dall’altra parte una donna americana che ha avuto il figlio ucciso nei combattimenti, una donna orgogliosamente patriottica ma che di fronte alla Casa Bianca viene sopraffatta dal dramma e scoppia in un pianto irrefrenabile che ci mostra con chiarezza l’inutilità del suo sacrificio.
    Anche in questo lavoro Moore bilancia perfettamente elementi emotivi ed indagine politica. Il fuoco è centrato sui componenti dell’amministrazione presidenziale americana e sulle strutture di quel potere. La maggiore attenzione è ovviamente dedicata al presidente George W. Bush.
    Viene raccontata la vicenda “rapinosa” della sua elezione nel 2000, la sua inettitudine, la vanagloria, la scarsissima capacità di interloquire ogni qualvolta non si trovi davanti un discorso già bello confezionato. Ma nessun membro in vista dell’amministrazione viene risparmiato: il vice presidente Cheney, affarista cinico e oscuro, il ministro della giustizia Ashcroft,battuto in una elezione per la carica di governatore da un candidato morto un mese prima, il segretario di Stato Colin Powell,bugiardo di fronte al mondo per il suo discorso all’Onu sulle armi di distruzione di massa irachene.
    Il quadro che ne esce fuori (e tutte le critiche mosse sono documentate puntualmente) è quella di un una nazione guidata da un gruppo di pescecani, senza scrupoli, bugiardi, che nuotano tra conflitti di interesse e frequentazioni a dir poco sospette. Sopra tutte, quella decennale tra la famiglia Bush e quella Bin Laden,in un impasto di politica, affari, petrolio, armi, operazioni segrete, sfociata in una specie di fuga dagli Stati Uniti dei componenti della famiglia saudita all’indomani dell’11 settembre, senza che gli investigatori avessero potuto interrogarli o minimamente disturbarli.
    Manca però un’analisi precisa dei fatti relativi agli attacchi alle due torri ed al Pentagono. Nessun riferimento all’inquietante dinamica dei fatti, nessun riferimento al tracollo delle procedure di difesa aerea, nessuna analisi degli errori delle agenzie di intelligence. Si parla in maniera diffusa dei legami, soprattutto affaristici, tra gli uomini del potere americani e quelli dell’aristocrazia saudita, ma non si accenna agli oscuri legami tra intelligence statunitense e servizi segreti pakistani, alla cui ombra sono maturati gli attacchi terroristici del 2001 (su tutte queste vicende si veda la sintesi del volume Attacco alla Libertà di N. M. Ahmed pubblicato sul sito http://www.clarissa.it/ nella sezione “saggi della montagna”).
    Questo non era probabilmente l’intento di Moore, la sua urgenza non era tanto raccontare l’11 settembre in sé, quanto piuttosto fare un ritratto dell’America ai tempi dell’11 settembre: del potere, della comunicazione, dei sentimenti di una nazione in guerra. Ma anche in questo senso, non ci è piaciuta la rimozione di alcuni fatti, come tutta la vicenda degli attentati all’antrace, vicenda, a dire il vero, che conteneva tutti gli elementi per un racconto graffiante alla Moore.
    Piuttosto si è voluto indulgere in elementi, sì grotteschi, ma scenografici, come il continuare la lettura di fiabe in una scuola della Florida da parte del presidente mentre il paese veniva attaccato, oppure gli innumerevoli fuori onda televisivi che trasformano personaggi con in mano il destino del pianeta in figure miserabili, vanesie e sciocche.
    A nostro avviso, il grande limite di Fahreneit 9/11 quello di aver voluto confezionare una rappresentazione caustica ma consolatoria. Consolatoria perché a differenza di Bowling a Columbine lo spettatore (specialmente quello americano) non viene costretto ad interrogarsi sulla propria nazione, sulla sua storia, sui suoi modelli di sviluppo culturali e politici, sulle strutture basilari su cui poggia per intero il sistema,ma viene in questo caso solo invogliato a schierarsi.
    Se è un oppositore si sentirà molto indignato ma legittimato a pensare che per cambiare le cose basterà votare per il candidato avversario alle successive elezioni. Se è un sostenitore di Bush, si indignerà al contrario per gli innumerevoli sbeffeggi, ma continuerà a pensare che il presidente è un uomo modesto ma rigoroso e soprattutto un comandante in capo, che l’America è stata trascinata in guerra dai terroristi, che alla minaccia al proprio modello di vita si debba rispondere, volenti o nolenti, con la guerra infinita. Quanti spettatori, dopo aver visto questo film, si interrogheranno invece sul fatto che è il modello egemonico americano nel suo insieme a dover essere messo sotto accusa, e che tale modello non è stato intaccato (anzi) quando alla sua guida c’erano presidenti molto più intelligenti e progressisti dell’attuale? La risposta, temiamo, è pochissimi di più di quanti non lo facessero anche prima. A nostro avviso, dunque,Fahreneit 9/11 è un lavoro buono ma incompiuto, una sorta di occasione mancata da parte di un intellettuale con enormi potenzialità ma che non ha avuto la forza, il coraggio, o la volontà, di scuotere dalle fondamenta il sistema.

    Quello espresso è un giudizio soggettivo, come tale ha un valore limitato. Ma vogliamo provare, partendo da queste considerazioni, a tracciare un quadro generale di riferimento.
    Durante la campagna delle primarie americane per la scelta del candidato presidenziale democratico da opporre a Bush, Michael Moore si è schierato apertamente a favore dell’allora rappresentante Wesley Clark.
    Una scelta che dall’autore di Bowling a Columbine non ci saremmo mai aspettati. Clark è infatti l’ex generale comandante in capo delle forze armate Nato ai tempi della guerra in Kosovo. Come Moore ricordava nel suo film, il giorno della strage nella scuola, Clinton annunciava pesanti bombardamenti sulla Serbia, e quei bombardamenti erano diretti dal generale Clark. Insomma, una persona che è stata ai massimi vertici di quell’apparato militare/politico/industriale che Moore metteva sotto accusa. Ed ora lo sosteneva. O avevamo capito poco del film, o lui aveva la memoria corta.
    Spostandoci dal piano reale ad uno ipotetico, proviamo a pensare a quali possono essere i meccanismi per la conservazione del potere. Uno di questi è senza dubbio il controllo della comunicazione dei pensieri critici. Uno dei mezzi per ottenerlo è la censura, ma non è il più efficace. Immaginiamo invece di vivere in una società democratica, dove tutte le voci hanno spazio e il diritto di critica è ritenuto indispensabile: in questo caso il controllo deve essere molto più sottile. Sarebbe utile, in un contesto come questo, la presenza di esponenti di tale pensiero critico (intellettuali, artisti, pensatori) che da un lato venissero indicati come estremamente eversivi rispetto al sistema che si vuole preservare, e che dall’altro sappiano diventare punto di riferimento e convogliare quelle istanze delle società che possono diventare davvero pericolose. Se al momento opportuno tali esponenti si mostrassero invece conformi (o sufficientemente conformi) al sistema, ecco che il cerchio si chiuderebbe: apparentemente il diritto di critica sarebbe salvo, e contestualmente il sistema sarebbe preservato nelle sue strutture. Anzi, ancora meglio, quelli che dovrebbero canalizzare la sovversione si trasformano in cani da guardia del sistema stesso.
    Non diciamo che Michael Moore si possa essere prestato consapevolmente ad un tale meccanismo, né che un tale meccanismo sia effettivamente operativo nel nostro caso. Diciamo solo che ci è sorto un dubbio.
    Sinistra Nazionale!

  2. #2
    Democrazia Diretta!
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    Predefinito

    le immagini del film parlano da sole
    lui non ha fatto niente , ha solo messo insieme i pezzi
    e, nel caso in cui l'informazione sia scarsa, la gente casca dalle nuvole è piu che normale..

 

 

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