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    Predefinito Re: Un repubblicano al mese...

    Rosario Romeo

    di Guido Pescosolido




    Rosario Romeo

    Rosario Romeo è stato uno dei maggiori esponenti della storiografia italiana del Novecento. Il suo prestigio è legato soprattutto ai suoi studi sul Risorgimento, sulla nascita della nazione italiana e sullo sviluppo capitalistico italiano postunitario, ma fu storico capace, come pochi, di affrontare, con risultati scientifici e critici di alto valore e originalità, problematiche dislocate su un arco di tempo plurisecolare. Storiograficamente e ideologicamente nacque e rimase sempre nell’ambito della storiografia liberale e crociana, ma ne realizzò già con la sua prima opera (Il Risorgimento in Sicilia, 1950) il più importante rinnovamento del secondo dopoguerra. Il suo mestiere di storico fu sempre strettamente collegato a un elevato impegno civile e politico proteso all’affermazione e alla difesa dei grandi valori della storia e della civiltà occidentale: Stato di diritto, libertà politica, progresso economico, che gli sembrarono condizioni imprescindibili per qualunque autentica crescita dei livelli di giustizia sociale.


    La vita



    Rosario Romeo nacque a Giarre (Catania) l’11 ottobre 1924. La sua passione per la storia esplose all’età di quattordici anni quando lesse Il Medioevo di Gioacchino Volpe, e si sviluppò poi prepotentemente, alimentata da un interesse incontenibile per lo studio dei grandi classici della storiografia europea otto e novecentesca. Nel 1947 si laureò in scienze politiche all’Università di Catania con una tesi sulle Origini del Risorgimento in Sicilia. Proseguì poi gli studi vincendo una borsa dell’Istituto italiano per gli studi storici fondato a Napoli da Benedetto Croce e diretto da Federico Chabod. Da borsista completò la ricerca avviata con la tesi di laurea e nel 1950 ne pubblicò i risultati nella sua prima monografia, il già ricordato Risorgimento in Sicilia, che si impose subito con grande clamore all’attenzione della storiografia nazionale e internazionale.

    Esaurita la borsa di studio, Chabod lo fece inserire nella redazione del Dizionario biografico degli Italiani e poi nel 1953 lo nominò segretario dell’Istituto italiano per gli studi storici. Rimase a Napoli fino al 1956, trascorrendovi anni decisivi per il completamento sia della sua formazione ideologica e politica sia di quella storiografica, anche se come storico Romeo era già più che maturo quando pubblicò Il Risorgimento in Sicilia. Volpe, Croce, François Guizot, Marie-Joseph-Louis-Adolphe Thiers, Werner Sombart, Wilhelm Oncken e la cultura storica tedesca facevano allora già parte del suo bagaglio culturale. Dal punto di vista ideologico, politico e dell’impegno civile gli anni trascorsi a Napoli videro la sua entrata nell’area liberaldemocratica e meridionalista degli Ugo La Malfa, Vittorio De Caprariis, Francesco Compagna, Giuseppe Galasso, Mario Pannunzio, Renato Giordano, un’entrata che segnò, pur nell’alveo del pensiero liberale, un’accentuazione della componente democratica e statalista rispetto alla precedente più spiccatamente liberale e liberista. È significativa al riguardo la sua presenza nel gruppo di coloro che seguirono Pannunzio quando questi, dopo la scissione del Partito liberale del 1956, fondò il primo Partito radicale del dopoguerra.
    Nel 1956, appena trentunenne, vinse il concorso a cattedra di storia del Risorgimento e, grazie alla stima e all’appoggio di Giorgio Spini, divenne titolare di storia medievale e moderna nella facoltà di Magistero dell’Università di Messina, della quale subito fu eletto anche preside. Nel 1962 passò alla facoltà di Magistero di Roma e l’anno successivo si trasferì nella facoltà di Lettere e filosofia della stessa università. Nel 1977-78 fu docente nell’Istituto universitario europeo di Firenze. Dal 1979 al 1984 fu rettore della Libera università degli studi sociali (Luiss) di Roma, che aveva creato assieme a Guido Carli. Fu direttore scientifico dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Nel 1974 riprese, dopo l’esperienza del «Mondo» di Pannunzio, l’impegno attivo nel giornalismo politico, poi esteso alla milizia nel Partito repubblicano italiano. Nel 1984 fu eletto deputato al Parlamento europeo per le liste del PRI-PLI. Morì a Roma il 16 marzo 1987.


    Tra Croce, Volpe e Marx



    Sin dal suo esordio del 1950 Romeo si presentò come storico di area liberale e crociana, ma con forte intento e capacità di innovarne metodi e contenuti, al punto che un intellettuale come Panfilo Gentile (1889-1971), da poco convertito al liberalismo dal socialismo massimalista, non esitò, erroneamente, a qualificare Il Risorgimento in Sicilia come opera marxista. Dieci anni dopo uno storico di ben altra cultura e consumata esperienza come Walter Maturi (1902-1961), nelle sue Interpretazioni del Risorgimento, intitolò significativamente Tra Croce e Marx: Rosario Romeo il capitolo dedicato a quello che egli definiva «lo storico più vivo e brillante dell’ultima leva storiografica» (Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, 1962, p. 666).
    Quello che Romeo volle attuare sin dal suo esordio fu un rinnovamento tenico e concettuale della storia politica, la quale a suo modo di vedere non poteva

    essere rettamente intesa se non si analizza a fondo la materia su cui si esercita, cioè quali sono le forze presenti nella società, nella realtà del tempo, che le forze politiche cercano di controllare, di dominare, di indirizzare (Cavour, il suo e il nostro tempo, intervista a cura di G. Pescosolido, «Mondoperaio», marzo 1985, p. 10, rist. con prefazione e a cura di G. Pescosolido, 2010, pp. 42-43).
    Solo così la storiografia politica poteva evitare di «essere emarginata dal mondo dell’alta cultura» e nel contempo
    conservare il senso dei grandi problemi e degli interrogativi universalmente umani che soli giustificano le energie e l’impegno intellettuale e morale che la cultura occidentale ha sempre dedicato allo studio del passato come strumento per la preparazione di un migliore avvenire (Vecchie polemiche e questioni attuali della storiografia italiana, «Rassegna storica del Risorgimento», 1986, 73, 4, p. 516).
    Il Risorgimento in Sicilia offrì un esempio magistrale di tale rinnovamento, ponendo però anche in evidenza le modalità, i limiti e le finalità precise che all’utilizzazione della storia economica e sociale e delle tecniche di analisi quantitativa Romeo intendeva dare, e che lo avrebbero portato qualche anno più tardi a esplicitare una chiusura senza appello rispetto alla storiografia delle «Annales» (cfr. G. Galasso, Romeo nella storiografia del Novecento, in Il rinnovamento della storiografia politica, 1995, pp. 16-19). Nel Risorgimento in Sicilia l’analisi delle strutture economico-sociali costituiva una grande innovazione sul piano metodologico e contenutistico, ma non proveniva dalla scuola di Croce e neppure dall’influenza di Chabod o di Nino Valeri, con il quale Romeo aveva studiato a Catania, bensì dalla lezione di Volpe profondamente recepita sin dall’adolescenza. In essa l’analisi economica e sociale non era fine a se stessa, ma appariva strettamente finalizzata al discorso politico. E la dimensione politica conservava crocianamente intatto il suo primato in un’opera che era nata, sempre crocianamente, da un impulso etico-politico del presente, dato dall’insorgere nell’isola all’indomani della Seconda guerra mondiale del movimento separatista, e che si concludeva altrettanto crocianamente con un giudizio sull’Unità, vista come evento altamente positivo nella storia della Sicilia e nella storia d’Italia, un evento che sarebbe stato deleterio, oltre che del tutto irrealistico, cancellare. Si può discutere a lungo su quale dei due poli teorico-metodologici fosse più importante nell’opera (Croce o Volpe). Sicuramente la forma volpiana era quella che Romeo sentiva più connaturata al suo modo di fare storia, ma certo egli non la intendeva nel senso di uno scardinamento della cornice teorica crociana, bensì come un rafforzamento di essa.
    Sulla base di questa impostazione Romeo ricostruì dunque il processo che portò la Sicilia a partecipare al Risorgimento, vedendolo non tanto come una reazione al centralismo borbonico, tesi sostenuta dalla lettura storiografica allora predominante, quanto come il progressivo esaurirsi e morire della nazione siciliana, incapace di trovare la forza di rinnovarsi spiritualmente e materialmente e di proporsi ancora come soggetto storico autonomo, vitale e progressivo. Le forze innovatrici dell’isola, di per sé non travolgenti, impacciate dall’arretratezza del contesto economico, avevano trovato nella nuova realtà nazionale italiana, liberale e dinamica, lo sviluppo spirituale e materiale che la vecchia Sicilia non aveva loro consentito. All’indomani del secondo conflitto mondiale, il separatismo siciliano non poteva far rinascere ciò che era morto cento anni prima.
    La storiografia successiva ha dato maggior risalto alle dinamiche progressive innescate nel tessuto economico della Sicilia dallo sviluppo delle colture agricole specializzate, o al ruolo delle forze democratiche, ma senza modificare in misura significativa il quadro d’insieme e la chiave interpretativa offerti da Romeo.


    Parentesi modernistica e medievistica



    Nel 1953 Romeo diede ulteriore prova dell’ampiezza dei suoi orizzonti culturali, cambiando tema e periodo storico con uno studio in cui la vicinanza a Chabod era assai più forte che nel primo libro. In esso, sulla base di una documentazione attinta alla letteratura politica, alla storiografia, al pensiero morale e religioso, Romeo giunse alla conclusione che, in Italia, nella percezione delle civiltà americane non si ebbe il passaggio dalla cinquecentesca rinascita dell’idea classica dell’età dell’oro al mito del buon selvaggio, come invece avvenne in Francia con Montaigne. E pressoché nullo parve a Romeo anche l’influsso esercitato dai modelli americani sui più complessi disegni elaborati dalla letteratura utopistica, inclusa la Città del Sole di Tommaso Campanella, la cui ispirazione gli sembrava da ricondurre in modo pressoché esclusivo all’interiore svolgimento del pensiero del filosofo e non a suggestioni esterne. La lettura di Romeo ha dimostrato poi di reggere validamente all’usura del tempo e anche alla pubblicazione, avvenuta tra il 1954 e il 1973, dei materiali gesuitici contenuti nei Monumenta missionum (Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, 1954, 19893).

    Non meno significativa e incisiva fu un’altra escursione di Romeo al di fuori dei territori risorgimentistici. Sulla base di un esteso scavo archivistico di fonti inedite, utilizzate con grande rigore filologico e acume critico, Romeo ricostruì le vicende di Origgio, piccolo comune della Bassa lombarda, portando un contributo non trascurabile al grande dibattito sul trapasso dal regime comunale a quello signorile originato dalla revisione delle tesi di Gaetano Salvemini e di Robert Davidsohn a opera di Nicola Ottokar (La signoria dell’abate di Sant’Ambrogio sul comune rurale di Origgio nel secolo XIII, «Rivista storica italiana», 1957, 3, pp. 340-77, 4, pp. 473-507, poi Il comune rurale di Origgio nel secolo XIII, 1970, 19922). Al riguardo Chabod si era posto in linea con la visione di Ottokar, che tendeva a scomporre le nette contrapposizioni di classe salveminiane in un più complesso e sfumato panorama di famiglie e gruppi disomogenei in lotta tra loro. Il caso di Origgio portò invece Romeo ad avvalorare più la tesi di Salvemini e Davidsohn che non quella di Ottokar e Chabod, con acquisizioni specifiche e spunti interpretativi la maggior parte dei quali continua a reggere ancora oggi (C. Violante, presentazione di Il comune rurale di Origgio nel secolo XIII, 19922). Ma nel 1956 Romeo era ormai tornato agli studi risorgimentistici a lui più congeniali, ritrovandosi peraltro al centro di polemiche molto accese originate dalla pubblicazione nel 1956, nella rivista «Nord e Sud» diretta da Compagna, di un saggio sulla storiografia marxista italiana del secondo dopoguerra che conteneva una critica radicale delle tesi sul Risorgimento espresse nel Capitalismo nelle campagne (1947) di Emilio Sereni e nel Risorgimento (1949) di Antonio Gramsci.


    Il dibattito con la storiografia marxista



    Gramsci e Sereni avevano riaperto quel processo al Risorgimento che era stato dominato nel primo dopoguerra dall’interpretazione gobettiana e da quella nazionalista e che ora essi sviluppavano anche sul piano economico-sociale con una profondità e un’incisività senza precedenti. La tesi di Gramsci è nota: il Risorgimento aveva rappresentato una grande occasione storica per la borghesia italiana, che avrebbe potuto allora realizzare la sua rivoluzione attuando in Italia una strategia politica ispirata al modello giacobino francese, coinvolgendo i contadini nella costruzione unitaria mediante una redistribuzione delle terre e la formazione di una piccola proprietà su base familiare. La forza politica che avrebbe dovuto promuovere tale operazione era il Partito d’azione mazziniano, che avrebbe potuto fare dell’Italia una democrazia politica con un’economia capitalistica più avanzata e dinamica di quella storicamente avutasi con la soluzione cavouriana. Assai più dettagliatamente, rispetto a Piero Gobetti, Gramsci indicava la strategia politica (la rivoluzione agraria) e le forze sociali coinvolgibili nel disegno rivoluzionario (borghesia e intellettuali alleati con i contadini).

    La storiografia liberale aveva liquidato sbrigativamente, con Croce, Carlo Antoni, Chabod, l’ipotesi gramsciana come un’operazione metastorica in base alla quale si giudicava il Risorgimento italiano alla luce di un astratto ideale politico e istituzionale. A Romeo e all’intero gruppo dei meridionalisti liberaldemocratici non sfuggiva invece l’importanza culturale e ideologico-politica delle tesi gramsciane e del pericolo che esse fornissero una giustificazione storica di lungo periodo alla strategia politica nazionale del Partito comunista e alla sua politica meridionalistica. Il nodo storiografico aveva ora implicazioni ideologico-politiche assai più forti e stringenti di quelle che avevano originato Il Risorgimento in Sicilia. Romeo decise pertanto di affrontare le tesi gramsciane e sereniane con la considerazione ideologico-politica che esse meritavano e con la strumentazione metodologica idonea a controbatterle. E non fu per caso che egli pubblicò il suo saggio nella rivista «Nord e Sud» di Compagna.
    Romeo criticò dapprima la fattibilità politica di una rivoluzione agraria nel contesto del Risorgimento, poi la sua ipotetica superiorità economica rispetto alla soluzione cavouriana. Per quel che riguarda il primo punto, Romeo richiamò l’attenzione sulle gravissime difficoltà internazionali che la creazione di uno Stato unitario in Italia aveva incontrato. Il passo nel quale Gramsci affrontava il problema del rapporto con la Francia non portava in realtà nessuna argomentazione capace di risolvere in modo convincente il problema delle conseguenze dell’assenza dell’apporto militare francese alla Seconda guerra di indipendenza. Una rivoluzione sociale non avrebbe avuto migliori prospettive dell’esperienza democratica del 1848-49. Ma la parte più originale e l’apporto più fecondo al dibattito sulla rivoluzione agraria, che divenne poi uno dei contributi fondamentali alla storia delle origini del capitalismo industriale italiano, Romeo lo portò analizzando le tesi di Gramsci e Sereni sugli effetti economici che avrebbe avuto l’avvento da essi auspicato della piccola proprietà su scala familiare. Romeo fece ricorso, al riguardo, a quanto sostenuto dallo stesso Marx nel libro III di Das Kapital e a quanto riscontrato da Georges Lefebvre e Albert Soboul nei loro studi sulle regioni francesi dove era stata realizzata la riforma agraria giacobina. Marx aveva sottolineato che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo si era basato, nella sua forma classica, sulla liquidazione della proprietà feudale, con tutti i vincoli e gli oneri extraeconomici che questa imponeva, e sull’affermazione della libera proprietà privata della terra, utilizzata nell’ambito di aziende capitalistiche medio-grandi, nelle quali i lavoratori senza terra vendevano la loro forza lavoro come merce e acquistavano prodotti sul mercato come consumatori. Questa forma di organizzazione produttiva e la connessa struttura della proprietà fondiaria libera da vincoli avevano favorito lo sviluppo di investimenti di capitale, flessibilità tecnica, incrementi di produttività e di produzione decisivi per l’accumulazione del capitale e la rivoluzione industriale. La proprietà coltivatrice su scala familiare, per lo più sprovvista di capitali sufficienti per consistenti investimenti fondiari e tecnici, tesa a produrre anzitutto quanto necessario al fabbisogno familiare e solo in via subordinata a vendere sul mercato le eccedenze prodotte, si poneva di fatto come un ostacolo alla specializzazione produttiva e allo sviluppo del mercato. Marx aveva scritto al riguardo che
    la piccola proprietà terriera crea una classe di barbari che sta mezzo fuori della società, che riunisce tutta la rozzezza delle forme sociali primitive con tutti i dolori e tutta la miseria dei paesi civili (citato in R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, 1959, 19986, pp. 37-38).
    D’altro canto, gli studi effettuati da Lefebvre e da Soboul dimostravano che in Francia proprio le aree geografiche dove era stata applicata la politica economica e sociale giacobina avevano fatto registrare nel 19° sec. tassi di sviluppo economico nettamente più bassi di quelli delle aree in cui prevaleva la proprietà medio-grande (pp. 29-30).
    Una rivoluzione agraria di tipo gramsciano-sereniano avrebbe travolto non solo il latifondo, ma anche il capitalismo agrario centro-settentrionale, che invece, sino agli anni Ottanta dell’Ottocento, aveva promosso secondo Romeo una straordinaria crescita di produzione agraria e surplus di capitale. L’agricoltura italiana, senza rivoluzione agraria, attraverso il prelievo fiscale, l’indebitamento pubblico, la vendita di beni demaniali ed ecclesiastici, da un lato, e la politica di investimenti in opere pubbliche e infrastrutture, dall’altro, consentì sia alla Destra sia alla Sinistra storica di imprimere, tra il 1861 e il 1887, un’energica accelerazione al processo di accumulazione e creare i prerequisiti per la successiva industrializzazione.
    La critica di Romeo all’ipotesi gramsciana provocò reazioni molto energiche, specie da parte di Sereni. Tuttavia essa oggi è unanimemente accettata dalla storiografia più accreditata anche di sinistra. Nel 1986, nella stessa Storia dell’Italia moderna che aveva iniziato a scrivere circa un trentennio prima ispirandosi all’interpretazione di Gramsci, Giorgio Candeloro riconobbe che la rivoluzione contadina ipotizzata da Gramsci «sarebbe stata, se non proprio impossibile, certamente tale da dare risultati molto scarsi e nel complesso deludenti per i contadini stessi» (11° vol., 1986, p. 299). Non altrettanto può dirsi del modello interpretativo dello sviluppo capitalistico italiano proposto da Romeo, che è stato molto discusso dalla storiografia nazionale e internazionale per quanto attiene agli effetti della politica economica dello Stato liberale sull’avvio dell’industrializzazione. Il dibattito al riguardo non può ancora dirsi del tutto esaurito, tuttavia nessuno dei modelli interpretativi formulati in alternativa a quello di Romeo mostra a tutt’oggi un grado di persuasività pari, e tanto meno superiore (Pescosolido 20044). In tale contesto interpretativo non gli sfuggì, in tutta la sua portata, il ‘sacrificio del Mezzogiorno’, e gli sembrò che l’arretratezza meridionale, inevitabile e anche funzionale all’inizio dello sviluppo capitalistico del Paese, fosse ormai divenuta, nel secondo dopoguerra, un fattore di rallentamento per lo sviluppo economico e civile dell’intero Paese. Ma non per questo riteneva che vi sarebbe stato un futuro migliore per il Mezzogiorno se esso fosse restato nel 1860 al di fuori dello Stato unitario.
    Romeo vide dunque nello Stato unitario, pur con innegabili limiti e contraddizioni che sin dalle origini ne avevano affaticato la vita economica e sociale, oltre che politica, non solo il principale artefice del progresso politico e civile della nuova Italia, ma anche lo strumento fondamentale del suo accesso alla modernità: una conquista etico-politica di valore assoluto, della quale non si sarebbe mai dovuto smarrire il ruolo storico e alla quale non si sarebbe mai dovuto rinunciare, se non per costruire una comunità politica e civile più ampia nella quale lo Stato nazionale potesse trasmettere tutte le sue conquiste e tutti i suoi valori.


    Cavour e il suo tempo



    La difesa dello Stato unitario e del regime liberale che con esso era stato introdotto nella penisola, iniziata con Il Risorgimento in Sicilia e proseguita in modo eclatante con Risorgimento e capitalismo, la ritroviamo poi, implicita o esplicita, in tutte le successive opere di Romeo, e in particolare la si trova nella sua forma più complessa e definitiva nella monumentale biografia di Cavour.
    In Cavour e il suo tempo (3 voll., 1969-1984) le carenze di documentazione e i problemi interpretativi dell’ultracentenaria tradizione biografica cavouriana trovano tutti una risposta puntuale e adeguata. Per la prima volta la personalità del conte è indagata in tutte le sue molteplici e variegate sfaccettature da un biografo che possiede tutti gli strumenti dell’analisi economica, sociale, culturale, politica necessari allo scopo. Romeo riesce a ricomporre in un’immagine unitaria l’adolescenza e l’ambiente familiare, il giovane militare e lo studioso, l’imprenditore, il politico, il diplomatico e l’uomo di Stato. Inoltre, a differenza degli altri storici politici, incluso Adolfo Omodeo, al quale pure riconosceva meriti decisivi nella corretta interpretazione dell’azione politica del conte di Cavour, Romeo riesce a inserire perfettamente la vicenda personale del conte nella storia non solo politica, ma anche sociale ed economica del Regno di Sardegna preunitario e a contestualizzarle entrambe nell’Europa della prima metà dell’Ottocento: l’Europa della rivoluzione industriale e dell’avanzata del liberalismo, della democrazia, del socialismo e delle nazionalità.

    Scompare qualunque residuo agiografico della personalità di Cavour come grande tessitore o demiurgo, padrone assoluto del Risorgimento. Romeo però dimostra anche del tutto infondata la tesi in base alla quale il conte sarebbe stato «investito» dagli eventi, senza riuscire minimamente a condizionarli. Cavour è visto nell’opera di Romeo come l’intelligenza politica che più di tutte nella penisola aveva colto il nesso sempre più stretto tra progresso economico e progresso etico-politico, e come il più fine diplomatico, il massimo artefice del Risorgimento, il più grande uomo di Stato dell’intera storia nazionale italiana. Il suo successo finale fu però conseguito grazie a una partita ad altissimo rischio, vinta, ma incerta sino alla fine, e giocata contro gli antichi sovrani della penisola, contro i mazziniani, in un certo senso contro lo stesso re, e contro un concerto delle potenze europee, a nessuna delle quali conveniva veramente l’unità d’Italia, neppure alla Francia e ancor meno all’Inghilterra. Una battaglia che peraltro il conte poté vincere solo perché egli ebbe, come aveva già sostenuto Omodeo, la spinta rivoluzionaria del movimento nazionale da potere strumentalizzare di fronte all’Europa. Senza di essa tutta l’abilità diplomatica del conte non avrebbe avuto un solido terreno d’appoggio.
    La più completa e convincente biografia di Cavour che mai sia stata scritta dimostra, quindi, ben più efficacemente della stessa storiografia filomazziniana, quanto l’opera di Giuseppe Mazzini sia stata importante non solo per la formazione dell’ideologia nazionale italiana, ma anche per il successo politico-diplomatico di Cavour e dell’intero Risorgimento, i cui quattro protagonisti continuarono a combattersi sino alla fine, senza esclusione di colpi. Romeo seppellisce infatti definitivamente anche qualunque visione irenica del Risorgimento. L’Italia nacque nell’odio politico, mai veramente dismesso e peraltro regolarmente ricambiato, di Mazzini per gli altri tre protagonisti, nell’odio politico e personale di Giuseppe Garibaldi per Cavour, nell’odio personale di Vittorio Emanuele II per Cavour, nella divergenza, che nel momento cruciale del 1860 divenne contrasto, tra Garibaldi e Mazzini.
    Cavour e il suo tempo è dunque assai più che una semplice biografia: è una storia del Risorgimento italiano nell’Europa dell’Ottocento vista dall’angolo privilegiato del conte. Essa si conclude con un capitolo finale di circa 100 pagine dedicato espressamente al nuovo Stato. In esso Romeo fa i conti con tutta la storiografia che aveva discusso sin dal 1950 le sue opere relative al Risorgimento e alla storia dell’Italia unita, da lui rivista per l’ultima volta nei suoi punti di debolezza e nei suoi punti di forza con un equilibrio e un’efficacia di giudizio che sarà difficile in futuro superare. Romeo non sottovaluta i limiti dello Stato unitario, la sua ristretta base di legittimazione politica, gli squilibri sociali e le strozzature economiche risolte per milioni di italiani solo grazie all’emigrazione, la mancata soluzione della questione meridionale. Tuttavia ribadisce che non esistevano reali alternative storiche al regime liberale nato dal Risorgimento.


    Il rinnovato impegno politico: Mezzogiorno, Italia, Europa



    La redazione del Cavour e il suo tempo durò quasi trent’anni, si concluse nel 1984 e si intrecciò in modo inscindibile con l’impegno civile e politico che Romeo dispiegò in quegli stessi anni, al punto che alcuni passaggi dell’opera relativi soprattutto al rapporto tra democrazia, libertà e rivoluzione risentono, sia pure in modo mediato, delle congiunture politiche dell’Italia degli anni Settanta del Novecento. Dopo l’esperienza nel gruppo radicale di Pannunzio vi furono comunque anni in cui l’impegno politico si ridusse drasticamente rispetto all’attività dello studioso, e questa finì per rimanere l’unica forma di espressione politica da lui praticata. A dare un impulso decisivo al ritorno diretto di Romeo nel dibattito politico furono le vicende della seconda metà degli anni Sessanta, in particolare la crisi dell’università, il Sessantotto, l’autunno caldo, la crisi della politica meridionalistica, l’avanzata del Partito comunista italiano (PCI), l’esplosione del terrorismo. Tutte cose che ai suoi occhi rischiavano non solo di compromettere i grandiosi risultati raggiunti negli anni del miracolo economico, ma addirittura di provocare una rottura dello stesso vincolo di appartenenza dell’Italia alla civiltà politica occidentale. Il rientro nel giornalismo politico, dopo l’esperienza del «Mondo», avvenne nel 1974 con l’avvio della collaborazione al «Giornale nuovo» di Indro Montanelli.

    Le linee ideali e culturali del suo rinnovato impegno nel giornalismo politico restarono saldamente ferme nella difesa di ciò che restava ancora vivo della tradizione storica e morale del Risorgimento e dei grandi valori della storia e della civiltà occidentale: l’Unità nazionale, lo Stato di diritto, la libertà di impresa e di mercato di un sistema capitalistico auspicato non nella versione ultraliberista, ma in quella keynesiana, in cui lo Stato si faceva parte attiva e regolatrice dello sviluppo, sia in termini di governo razionale delle oscillazioni dei cicli economici, sia in termini di controllo, o quanto meno di tentato controllo, degli squilibri territoriali e sociali.
    La difesa in campo giornalistico di questi valori si concretizzò in una serie di prese di posizione molto dure sulla crisi dei valori nazionali, sulla perdita di autorità dello Stato, sul disfacimento della scuola e dell’università sotto i colpi della demagogia, sulla mancata soluzione della questione meridionale, sul sindacalismo irresponsabile degli anni Settanta, sulla mancanza di una seria programmazione e di una collegata politica dei redditi, e, almeno fino ai primi anni Ottanta, soprattutto sul pericolo dell’avvento al potere di un PCI ancora in stretto rapporto con l’Unione Sovietica. I rischi, anche fisici, da lui corsi all’interno dell’università furono elevati. L’area ideologica di appartenenza restava più che mai la liberaldemocrazia abbracciata a Napoli negli anni Cinquanta. Ai punti di riferimento di quegli anni ora si aggiungeva il rapporto con Montanelli, Giovanni Spadolini, Enzo Bettiza, Egidio Sterpa, Alberto Ronchey, Renzo De Felice, Cesare Zappulli, Antonio Martino. Da molti di questi, tuttavia, lo separava, e in alcuni casi lo allontanava, un meridionalismo che egli continuò a sentire fortemente, che ebbe una espressione scientifica di grande valenza con la condirezione assieme a Galasso (n. 1929) e Giuseppe Giarrizzo (n. 1927) di due grandi opere sulla storia del Mezzogiorno e della Sicilia, e al quale nel suo ultimo libro attribuì un ruolo fondamentale in tutta la sua vita (Italia democrazia industriale, 1986). E resta significativo che, giunto alla milizia diretta nelle file del Partito repubblicano, l’apporto decisivo alla sua elezione al Parlamento europeo nelle liste del PRI-PLI lo diede Galasso.
    Dopo la scomparsa di Romeo il panorama politico nazionale e quello mondiale sono stati investiti da cambiamenti radicali e sconvolgenti, ma non sembra affatto che il suo lascito etico, ideologico e politico possa dirsi oggi superato, e ancor meno superata appare, per riconoscimento pressoché unanime, la sua grandiosa opera storica.




    Romeo, Rosario in ?Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Politica? ? Treccani
    Ultima modifica di Frescobaldi; 02-04-15 alle 23:40
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #32
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    Predefinito Re: Un repubblicano al mese...

    Francesco Compagna, la coscienza del meridionalismo


    Ugo La Malfa e Francesco Compagna



    “La Voce Repubblicana”, 23-24 luglio 1985


    Egli vedeva nel partito repubblicano il punto di equilibrio, il partito della democrazia senza aggettivi, il partito delle istituzioni: fra le forze cattoliche che avevano inserito la grande protesta cattolica nell’alveo dello stato liberale e le forze di ispirazione marxista. Questo equilibrio passava, per Compagna, attraverso la dicotomia – nella quale egli credeva – fra comunismo e socialismo. E sempre è stato il fautore, come La Malfa, come tutto il partito repubblicano, dell’autonomia del PSI, fin dall’inserzione dei socialisti nell’alveo delle istituzioni e nell’area della maggioranza, cosa però che si tende a dimenticare troppo spesso, riproponendo quesiti che 30 anni di storia hanno superato. Il problema dell’autonomia socialista è un problema che non esiste più; di cui è perfettamente inutile parlare dopo che il partito socialista, quali che siano le nostre critiche su altri punti, ha avallato per l’Italia gli accordi atomici nel campo della difesa nucleare occidentale.
    Punto d’incontro, in secondo luogo, fra cultura e politica. Egli apparteneva a quegli uomini che il grande amico Bobbio, come me, chiamerebbe “i protagonisti dell’Italia civile”, e sono sicuro che se un giorno avremo una nuova edizione dell’ormai introvabile L’Italia civile, pubblicata molti anni fa da uno sconosciuto – o quasi – editore pugliese, Compagna vi troverà posto.
    Egli non separò mai la politica dal giornalismo – anche in Consiglio dei ministri scriveva articoli – e non concepì mai una qualunque contrapposizione fra la politica e la cattedra universitaria.
    Apparteneva a quegli uomini del Risorgimento, o meglio della tradizione risorgimentale. Era, in questo senso, un contemporaneo della Repubblica Partenopea del ’99 – e difatti ricordava sempre come il Croce fosse una delle sue letture preferite. Apparteneva, dunque, a quel fondo di “giacobinismo” democratico, pur essendo approdato a posizioni sostanzialmente moderate come tutti i giacobini del Risorgimento italiano. Del suo giacobinismo originario, che lo aveva portato alla lotta contro Lauro e il “laurismo”, conservava un fremito di sdegno morale che non si era cambiato in niente e che da certi suoi lontani articoli del “Mondo” si era poi ripetuto in tutta la sua azione di collaboratore di grandi giornali e di animatore civile fino a quella lettera aperta-articolo, che mi mandò ai tempi della direzione del “Corriere”, contro la “sinistra urlante” della contestazione parolaia, allorché assunse quella linea severa, che poi i fatti avrebbero suffragato, rispetto alle mode aberranti, in quel momento avallate.
    E fu appunto in virtù di quelle doti intellettuali così alte e così aristocratiche – nel senso morale del termine – che ne facevano una esempio straordinario di discrezione e di misura, con trentacinque anni di amicizia come un vincolo personale che si estendeva a molte battaglie combattute insieme nella vita culturale e civile del paese, che egli occupò il posto che era stato di Giorgio Amendola con Parri, di Sergio Fenoaltea col primo governo Bonomi, quello della liberazione di Roma. Un posto che era stato di Andreotti con De Gasperi e per il quale aveva inutilmente lottato, nel 1951, con De Gasperi alla presidenza, presidente Fanfani, come egli stessi ci raccontò quando, suoi ospiti, Compagna ed io, apprendemmo come avesse tentato di diventare sottosegretario alla presidenza e come Andreotti non si fosse certo spostato.
    In una delle tante crisi striscianti che hanno attraversato la vita dei due governi da me presieduti, mi aveva sottoposto lo schema di un intervento parlamentare sulla questione della scala mobile nelle aziende pubbliche.
    Aderendo all’impostazione che intendevo dare alla questione mi disse: “è il caso di far intendere a tutti, con la sincerità di cui siamo capaci, che noi non ci possiamo suicidare né come filone culturale e politico”, sono sue parole testuali virgolettate, “né come uomini che hanno dato sempre conto di sé nella vita pubblica”.
    In questi principi voi vedrete anche la stella polare che mi accompagnò nel novembre dell’82, quando presi certe decisioni dolorose ma necessarie: perché non ci potevano suicidare come filone politico e dovevamo continuare a rendere conto di noi nella vita pubblica.
    Io, che ho percorso fino in fondo la via politica della mediazione, che dicevo essere la base stessa della democrazia rappresentativa e pluripartitica, io che non rinnego nessuno degli accordi che ho cercato di raggiungere, compreso quello indispensabile e necessario coi sindacati operai per il costo del lavoro, io che continuo a guardare la linea del lungo patto sociale sognato da La Malfa, ritengo che, proprio per assecondare quei compromessi di cui è fatta l’azione politica, ci siano dei momenti in cui occorrerà assolutamente puntare i piedi.
    Compagna, che credeva come e alle coalizioni democratiche e alla loro fecondità, sapeva che c’erano motivi di coscienza per cui Parigi valeva sempre infinitamente meno di una messa.

    Giovanni Spadolini
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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