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    Predefinito Bob Dylan di riccardo Muti

    Racconta l'uomo e la sua vita. Non importa stabilire se è arte.
    Quello che interessa è il modo in cui comunica
    Ecco perché quella musica
    ci ha dato dei capolavori
    di RICCARDO MUTI


    Bob Dylan

    Cinquant'anni di rock: è passato mezzo secolo da quello spartiacque che furono gli anni Cinquanta, gli anni del "dopo". Dopo il conflitto mondiale, la bomba atomica, Auschwitz. Una colonna sonora della volontà di andare avanti, dimenticare, chiudere un capitolo per guardare il futuro con ottimismo. "Sono solo canzonette", recita il verso di una canzone. Eppure aiutano a vivere, benché in modo diverso dalla "grande musica". Anche il rock racconta l'uomo e la sua vita, troppo spesso così difficile. Ed è riuscito a parlare a un numero di persone, giovani soprattutto, molto maggiore rispetto a quanto ha fatto certa musica "colta" degli ultimi decenni, arroccatasi su posizioni fin troppo élitarie.

    Non voglio entrare nel merito di questioni di "valore": stabilire, cioè, se queste musiche siano o meno "arte". Quel che m'interessa è il modo in cui sanno comunicare, modificare i comportamenti o anche incarnarli, esserne testimoni. E a questo proposito credo che il suono distorto della chitarra elettrica di Jimi Hendrix possa risultare tanto più contemporaneo di molta musica scritta dai compositori "classici" odierni.

    Vi sono state, certo, alcune "vette" nella storia del rock, che hanno rappresentato anche momenti di contatto col mondo della musica classica. Pierre Boulez, per esempio, ha diretto musica di Frank Zappa; dunque, anche dal mio punto di vista, inevitabilmente "viziato" dal mio tipo di studi, c'è un rock pieno di "sostanza" musicale. Penso anche ai Beatles, autori di piccoli capolavori di quella che viene definita la "piccola forma", il song (peccato che in italiano la parola "canzone" non renda l'idea), con raffinatezze armoniche e di strumentazione di tutto rispetto. E compositori come Berio, l'olandese Andriessen o il giapponese Takemizu hanno voluto riscriverle, farle proprie.
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    Anche Schubert attinse a piene mani, e consapevolmente, al patrimonio popolare, trasfigurandolo, certo, ma mantenendone intatta la freschezza: quella leggerezza che non ha niente a che vedere con la mediocrità o la superficialità. Lo stesso vale, seppure in forme diverse (dovute ai suoi particolari studi etnomusicologici), per un compositore come Bartók. Da tempo, però, è venuto meno quel flusso ininterrotto che ha caratterizzato lungo vari secoli il rapporto tra musica popolare e classica. E credo che vi sia stata più attenzione, da parte di alcuni musicisti rock, nei confronti della classica, che non viceversa. Un esempio, a questo proposito, è l'omaggio di un gruppo rock come gli "Who" a Terry Riley, uno dei padri del "minimalismo".

    Ma il rock è anche parola, testo, lingua. E pure su questo versante mi pare che riesca a comunicare, e a farsi interprete del proprio tempo, più di certa musica "classica" scritta nei nostri anni, chiusa in un suo mondo aulico, che guarda con estraneità alle miserie del mondo. Oggi che la parola "guerra" risuona purtroppo tanto spesso, canzoni come Blowin' in the wind o Master of war di Bob Dylan, o Imagine di John Lennon, possono raccontare a chi verrà qualcosa sul mondo odierno, nel bene e nel male, proprio come sapeva fare (e fa ancora) l'opera verdiana, o la musica di Beethoven, capace di incarnare tanto profondamente il suo tempo e di esserne impregnata.

    I piani, certo, non sono confrontabili. Ma penso che la più intensa colonna sonora degli ultimi decenni sia stata proprio il rock, assieme al jazz e al blues. Non a caso, visto che questa musica "altra" è spesso l'unica voce di chi non riesce a farsi sentire: il rock, si sa, nasce soprattutto dal blues, la musica dei neri americani, che è anche alla radice del jazz, musica che parla di sangue, sudore e lacrime. E al blues ha attinto anche un compositore come Gershwin, che ha saputo cimentarsi sia con la "grande" che con la "piccola" forma, oscillando senza soluzione di continuità tra ambito popolare e accademicoclassico. Insomma anche il rock, quando non è troppo asservito a logiche mercantili, può farsi portatore di "verità" e "bellezza".

    E abbiamo comunque bisogno sia della "grande musica" quella che Bach, Mozart, Beethoven, Stravinskij, Berg e altri grandi scrissero per noi sia di musiche come il rock, che accompagnano e rendono più tollerabile la nostra vita.

    Non m'interessa invece il fenomeno del cosiddetto crossover: le "contaminazioni", spesso artificiose e forzate, tra "classica" e rock. Però in passato le versioni rock di capolavori classici la rilettura di Emerson, Lake and Palmer dei Quadri di un'esposizione di Musorgskij, o il Bach e il Beethoven suonati al sintetizzatore da Walter Carlos (memorabile la colonna sonora di Arancia Meccanica di Kubrick) contribuirono a far conoscere a milioni di giovani i grandi compositori, e dunque a divulgarli, magari con scorciatoie kitsch. Del resto uno dei primi hit della storia del rock è stato Roll over Beethoven, di Jerry Lee Lewis: forse l'intento era dissacratorio, nel segno di quella corrente di odioamore che ha sempre contraddistinto la relazione tra "classica" e rock, metafora del rapporto padrifigli, con l'autorità (e la saggezza) da una parte, e la contestazione e la rivolta (ma anche la creatività) dall'altra. Ma nelle nostre discoteche a casa, oppure in quell'isola deserta in cui dovremmo portarci solo pochi libri e cd, c'è posto sia per Beethoven che Jerry Lee Lewis. Nell'ordine, certo...

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