Lo storico Roberto Chiarini analizza le origini della questione settentrionale in un saggio su «Nuova Storia Contemporanea»


L’inquietudine del Nord comincia nell’Ottocento

ANTIPOLITICA


L'immagine del Nord come «gallina dalle uova d'oro» per lo Stato centralista e parassita non l'ha inventata Umberto Bossi. E nemmeno il richiamo al giuramento di Pontida è un brevetto leghista. Fu il Movimento autonomista bergamasco, attivo in terra orobica tra gli anni Cinquanta e Sessanta, a coniare quegli slogan. E ancora prima, nel 1945, la bandiera federalista era stata innalzata dal settimanale Il Cisalpino , il quale, se non inveiva contro «Roma ladrona», comunque bollava la capitale come «mangiatoia d'Italia». Non a caso tra i collaboratori della rivista c'era un giovane destinato a una brillante carriera accademica e a una più effimera stagione da ideologo del Carroccio, Gianfranco Miglio. A indagare sugli antenati della Lega è lo storico Roberto Chiarini, docente dell'Università Statale di Milano, che alle radici e agli sviluppi della questione settentrionale ha dedicato due saggi: uno di taglio storiografico, che apparirà sul numero di Nuova Storia Contemporanea in uscita domani, e un altro più legato all'attualità, che sarà pubblicato in maggio dal bimestrale Ideazione .
In realtà, ci dice Chiarini, le origini del disagio del Nord risalgono molto addietro, al periodo immediatamente successivo all'unità d'Italia: «Già allora - osserva - i liberali e i cattolici lombardi, divisi nel giudizio sul Risorgimento, condividevano la medesima predilezione per l'impegno nel lavoro e nel sociale, dalle professioni al commercio, dalle cooperative alle banche. Gli uni erano più presenti nelle città, gli altri nelle campagne, ma erano animati da un’analoga cultura del fare, che prescindeva in larga misura dallo Stato, visto come un sovraccarico gravoso, se non addirittura come un impedimento».
C'era in questa mentalità un profondo pregiudizio antipolitico, che si è tramandato nel tempo. Il primato della società civile veniva infatti declinato in senso puramente negativo e difensivo, per cui non si è mai tradotto in una cultura nazionale egemone. Di qui il paradosso sottolineato da Chiarini: «Cuore pulsante dell'economia italiana, il Nord è apparso a lungo quasi afono sul piano della politica, attività cui la borghesia settentrionale attribuiva scarso prestigio. E’ significativo che a Milano non si trovino grandi dinastie di leader politici, mentre una città di ben minore importanza come Sassari ha avuto i Segni, i Berlinguer e i Cossiga».
Eppure in Lombardia c'era stato Carlo Cattaneo. Come mai la sua visione politica federalista non trovò eredi? «Perché i democratici laici temevano la disgregazione del Paese, tanto più che la società civile era presidiata dai cattolici ostili allo Stato liberale», risponde Chiarini. Però più tardi, nell'Italia repubblicana, fu la Dc a dominare la scena. «Divenuti classe dirigente, i cattolici si convinsero che le spinte dissociative, nell'Italia dei campanili, potevano diventare incontrollabili. All'epoca anche gli animatori democristiani del Cisalpino , malgrado i toni da leghismo ante litteram , proponevano il federalismo quale strumento per rinsaldare l'unità nazionale. Dopo il 1945, insieme al patto costituzionale, venne così raggiunto un compromesso tra le due grandi subculture popolari, quella cattolica e quella marxista, che agirono da reti integrative per contenere il pericolo di un localismo esasperato. Così il Nord, spartito in zone rosse e bianche, negli anni del boom fu traghettato dai grandi partiti verso l'industrializzazione diffusa».
Proprio la crescita economica però, prosegue Chiarini, ha finito per lacerare quel tessuto connettivo. «Con lo sviluppo dei consumi si è manifestato un individualismo di massa, non più contenibile negli argini delle subculture ideologiche, e il Nord ha riscoperto la sua antica vocazione antipolitica. Le zone rosse hanno tenuto meglio, perché erano sempre rimaste all’opposizione rispetto al governo centrale. Mentre la crisi della finanza pubblica ha acceso la miccia nelle zone bianche, dove la Dc fungeva da mediatrice degli interessi nello scambio centro-periferia. Quando il meccanismo si è inceppato, la rivolta fiscale contro il Welfare è esplosa nel contesto di un grande vuoto politico, in cui ha fatto irruzione la valanga leghista».