Enrico Ruggeri: un disco per raccontare il mio punk
«Mi ha convinto mio figlio a rievocare quella stagione che ho vissuto con la rabbia di un’intera generazione»
MILANO - A soli 6 mesi da «Gli occhi del musicista» Enrico Ruggeri torna con «Punk prima di te», 14 canzoni di cui sette del suo periodo giovanile punk-arrabbiato e sette che sono cover di brani simbolo della rivoluzione musicale degli anni Settanta-Ottanta, dal repertorio dei Clash («The Guns of Brixton»), dei Sex Pistols («God Save the Queen»), dei Ramones («I Wanna be Sedated») e altri. In copertina un ragazzo che ricorda molto Enrico: suo figlio Pico, 14 anni. «E’ uno dei due colpevoli dell'operazione ripescaggio spiega Ruggeri - PierEnrico, che si è ribattezzato Pico, dopo aver ascoltato il primo album dei Decibel, (all'epoca credo vendette 150 copie), mi consigliò di ricantare quel repertorio. Non è la prima volta che seguo un suo suggerimento. Era stato lui a dirmi di andare il 1° maggio dello scorso anno al concerto di San Giovanni a cantare un pezzo dei Sex Pistols anziché quello in promozione. L'altro colpevole è il mio storico produttore Valerio Crippa». Testi molto duri, intransigenti, l’ingenuità dei 18 anni, come per esempio in «Mano armata»?
«Sì, anticipatrice dei tempi che sarebbero arrivati. E' la storia di un bambino di sei anni che fa una rapina per impadronirsi di alcuni cioccolatini. Lascia intravedere il fenomeno delle baby gang. D’altra parte la tv gli ha insegnato che conta più di tutto possedere qualcosa...».
Come si saldano queste canzoni col così detto «movimento»?
«Proclamano il rifiuto della civiltà dei consumi: i giovani punk si vestono con sacchetti di plastica e materiali trovati in pattumiera. Si sentono una generazione di sconfitti e allora urlano agli adulti: "Ci avete messo nella condizione di perdere, quindi almeno ci divertiamo a costringervi a scandalizzarvi al nostro passaggio"».
Ma qual era la ragione del conflitto ragazzi-adulti?
«In quel momento i genitori trentacinquenni erano già vecchi, vinti, attenti al lavoro fisso e alle rate del mutuo da pagare. Incanalati su una via che a noi appariva piatta e mediocre. Il primo verso di "Figli di.." recita: "Siamo solo la generazione della frustrazione, della alienazione: non dobbiamo niente a voi, i bastardi siete voi...».
E il punk racchiudeva tutto questo?
«Questo e non solo. In quegli anni c'era una grande differenza fra la musica che si ascoltava in Italia e a Londra. Da noi i Collage, il Giardino dei Semplici: insomma, melodici figli dei Pooh. Canzoni di facile ascolto e di bell'aspetto. A Londra c’era Malcom McLaren, c’erano i Sex Pistols. Io sposai quella causa».
Ma quella nuova musica inglese come e perché nasce?
«C'erano dei primi della classe come Emerson Lake & Palmer, Genesis, Yes, che erano bravissimi e venivano dal conservatorio. L'aspirante rock star diceva fra sé: io non sarò mai al loro livello. Ma ecco l'idea dei punk: con rabbia energie e idee si poteva salire sul palco anche senza essere bravi o dei grandi musicisti (e io non lo ero). Certo alla fine ci fu una selezione naturale. Gli Sting o i Joe Jackson vissero certamente più dei Sex Pistols».
Perché il disco chiude con «No more Heroes»?
«Allora il mio gruppo preferito erano gli Stranglers. Punk, ma laureati e intellettuali che concepirono questa canzone in risposta alla "Heroes" di Bowie e sbattevano in faccia tutto il loro nichilismo».