Postero' alcuni documenti molto interessanti, quindi ne tentero' un analisi "prospettica"..
Mercenari, spie e uomini d'affari
di Francesco Ruggeri
C'è chi è venuto per combattere a pagamento. Altri per vendere armi o preparare business futuri. Fino ai tanti giornalisti e funzionari Onu.Un ritratto degli stranieri a Baghdad.
Gli stranieri e l'Iraq. Ovvero la cronaca di un'unione forzata, tra la variopinta fauna degli hotel e le strade sporche di sangue e sabbia del deser to. Per una volta parleremo indirettamente di noi occidentali. Di chi lascia il suo Paese per lanciarsi a occhi chiusi in un universo lontano anni luce. Le motivazioni sono le più diverse.
C'è chi è in cerca di soldi, chi insegue il successo, chi ha obbedito a un ordine, e chi è tentato dallo spirito d'avventura o dalla curiosità. Qualunque sia il punto di partenza, l'approdo è identico per tutti.
Per capirlo basta andare la sera nella hall di uno dei grandi alberghi occupati dagli occidentali, il Palestine o l'Ishtar-Sheraton. Quasi il set di un film, affollato di strane comparse. Con la babele delle lingue, la cui leggenda nacque in Iraq, divenuta realtà. Col mitra in mano I primi che noti sono quelli mitra alla mano. Ti abitui a guardarli di sottecchi per valutare l'angolo di tiro di un possibile colpo fortuito. Hanno il giubbetto antiproiettile blu, l'elmetto nero alla cintola, ma non sono soldati. Fanno parte di un'infinita schiera di mercenari a contratto con le maggiori compagnie di security del mondo. Ne annotiamo più di una decina: Control risks group, Genric, Global risks strategies, Group 4 Falck, Isi, Meteoric tactical solutions, Olive security, Optimal solutions services, Kellog Brown and Root, Ramops risks management, Wayde-Boyd and associates. Hanno assoldato uomini dai quattro angoli del mondo, Cile, Sud Africa, Lettonia. Di italiani non ne abbiamo incontrati, ma i colleghi non lo escludono. La paga è top secret, e fanno capire che vale ampiamente il rischio.
Nel salone del breakfast facciamo amicizia con un paio di nepalesi, i quali stupiscono nel sentire che conosciamo la loro capitale Katmandù. Spieghiamo che è per via di Messner e delle scalate. Ne ridono alla maniera dei bonzi. Poi prendono l'ascensore per il roof (tetto) sopra il 16° piano dello Sheraton, per far da guardia alle decine di giornalisti delle catene Usa, le quali han requisito per intero i tre piani più alti, ristorante compreso. Lì scrivono, mangiano, guardano la tivù o navigano su internet con la parabola aziendale. E si riservano stanze intere, a 100 dollari a notte, come rest-room dove ricrearsi o appendere foto e cartoline. Viene il dubbio che il loro Iraq inizi e finisca al 16° piano, fuori portata dai razzi della guerriglia.
Già, perché l'altezza allo Sheraton è spesso il riflesso della potenza economica dei vari media. Il giornalista occidentale in Iraq si divide in due specie, quello che non può spender troppo e quello che ha troppo da spendere. Il secondo lo riconosci così: scende da convogli di gipponi General motors dai vetri oscurati, dispone di guardie del corpo e scorte private. Si fa portare a domicilio pizza e patatine, mandando interpreti bilingue a cercarle pure in piena notte in tutta Baghdad: o insalata primavera dai due ristoranti cinesi interni al compound della Cpa. Poi, se ci scappa, si fa una partita a tennis nel club Al Ahlwya attiguo alla Green zone. Il "povero" invece dorme in stanzette d'angolo ai piani più esposti e perciò sposta il materasso per terra dietro l'unica colonna in cemento. Va a cercare storie a Samarra, Salman Pak e Falluja. Strade ad alto rischio rapimenti (una media di cinque a notte per la stampa locale) poichè inspiegabilmente incustodite dall'esercito della Coalizione.
Un singolo driver di fortuna per prudenza lo sigilla nell'anonima berlina, quando deve allontanarsi: non è che ami gli occidentali, ama il faccione di Benjamin Franklin sui tagli da 100, e cura il proprio investimento in zone dove il solo far orecchiare un accento un po' diverso crea contestazioni. In realtà il fatto di girare senza dar troppo nell'occhio, e magari con un vestito non dissimile dagli umili iracheni, non guasta. E invece, tanto i mercenari che i giornalisti sembrano pavoneggiarsi nella rispettiva divisa e nell'inutile giubbetto, esibiti in ogni occasione da quando si alzano, sempre supermattinieri.
Cacciatori di taglie Come anche la miriade di dipendenti di Usaid (l'agenzia per lo sviluppo estero statunitense), o dei grandi contractors della ricostruzione europei e americani, e i businessmen giunti da ogni parte del globo, con vigilantes al seguito, persino dal terzo mondo. Anche questi li riconosci subito. Portano occhiali da sole pu- re al buio, e stanno sempre attaccati al telefono satellitare. Quando provi a chiedergli chi rappresentano ricambiano con malcelato sospetto. Vestono in borghese, ma se anche ti mostrano una tessera non capisci se sono veri o falsi.
Tra loro si nascondono facilmente spie, uomini dei servizi, addirittura cacciatori di taglie sbarcati dagli Usa in cerca di "carte del mazzo", si vocifera. Oppure mercanti d'armi senza regolare licenza, visto che i negozi del settore sono stati chiusi dagli americani, ma al mercato nero si trova di tutto di più. C'è un tizio pelato in particolare, dalla sahariana annerita, forse un australia- no o un canadese, che passa senza motivo lunghi periodi appoggiato al balcone interno del sesto piano, da dove con noncuranza sembra tener d'occhio i movimenti sottostanti. Era lì anche l'altra sera, quando la nostra guida ci ha consigliato di nascondere i rollini fotografici: dopo la visita nell'ufficio del capo della polizia di Tikrit e Samarra qualcuno gli aveva fatto una telefonata minatoria sul cellulare Thraya . In Iraq non sai mai a chi pesti i piedi o chi ti prende di mira. E quando lo scopri può esser tardi. Specie se non hai neppure l'indirizzo della tua ambasciata dove rifugiarti nella capitale: al ministero degli esteri prima di partire ci hanno dato solo il satellitare dell'ambasciatore De Martino, costantemente scollegato. E come abbiamo scoperto più volte a nostre spese tra stranieri in Iraq difficilmente ci si aiuta.
Francesco Ruggeri