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    Predefinito Per L'autodifesa Etnica Totale

    Stefano Vaj
    PER L'AUTODIFESA ETNICA TOTALE
    Riflessioni su "La colonisation de l'Europe" di Guillaume Faye

    estratto dalla rivista L' UOMO LIBERO numero 51 del maggio 2001
    http://www.uomolibero.com


    Ho conosciuto Guillaume Faye a Parigi nel 1978, durante l'undicesimo congresso annuale del GRECE, il Groupement de Recherche et Etudes pour la Civilisation Européenne, a ben pensarci nel pieno di una mia personale "crisi di identità".


    Pur molto giovane, mi aggiravo ormai da quattro o cinque anni in un ambiente che credeva di fare politica prestando il proprio impegno militante a sostegno del MSI, un partito sostanzialmente teso ad amministrare i resti italiani della sconfitta militare europea. Peggio, la strategia di tale amministrazione consisteva nel barcamenarsi in attesa di essere finalmente ricielati, e nell'offrire i propri servizi alle frange più retrive della "classe dirigente" vaticano-capitalmassonica - all'epoca un po' preoccupata dall'attenuarsi della guerra fredda e della garanzia americana, e dalla concorrenza dei "compari di spartizione" di osservanza sovietica.


    Lo stesso ambiente viveva del resto in un'assoluta schizofrenia ideologica, essendo unito quasi solamente dall'ansia di differenziarsi e dal rifiuto rispetto alla linea benpensante, conservatrice ed avida di rispettabilità del partito; quello stesso partito di cui pur continuava a frequentare le sedi, sostenere le liste, attaccare i manifesti, eccetera. I vari personaggi che vi si incontravano non erano d'altronde alieni a mille piccoli compromessi, magari per cariche la cui denominazione altisonante corrispondeva ad un'assoluta mancanza di potere reale; costoro per di più appartenevano a connotazioni ideologiche tanto svariate quanto prive di rispondenza alle mie idee, o per meglio dire alla sensibilità che mi aveva avvicinato a tale ambiente. Cattolici integralisti, anticomunisti generici, personaggi convinti che la seconda guerra mondiale fosse stata combattuta per far partecipare qualche rappresentante sindacale alle riunioni dei consigli di amministrazione ("... come in Germania federale, come in Jugoslavia"), tradizionalisti ed esoteristi al limite della seduta spiritica, nichilisti, ammiratori indiscriminati del militarismo cileno, israeliano o franchista, pseudo-idealisti che non avevano mai letto una riga di Spirito o Gentile o Fichte, vestali e adoratori di una cronaca politica passata e fraintesa, non c'era che l'imbarazzo della scelta di cosa mi ripugnasse maggiormente. Per tanti aspetti una corte dei miracoli, insomma, i cui membri erano certamente "devianti" ma pure in gran parte "recuperati" al Sistema, e preda di suggestioni ideologiche la cui grande varietà era pari soltanto all'estraneità sostanziale della maggior parte di esse alla "tendenza storica" incarnata dalle grandi rivoluzioni nazionalpopolari della prima metà del secolo, da Nietzsche, Wagner e Stefan George, da Marinetti e D'Annunzio e Drieu La Rochelle.


    L'immagine pur caricaturale, demoniaca ed in fondo ridicola, che di tale ambiente veniva data dall'esterno era quasi più attraente, con il suo intrigante profumo di zolfo, della mediocre realtà che sperimentavo direttamente ogni giorno.


    Il contatto con l'ambiente francese allora principalmente rappresentato dal GRECE, o Groupement de Recherches et Etudes pour la Cívilisation Européenne, fu perciò molto più di una piacevole sorpresa. Non mi ero inventato un'appartenenza libresca ad una comunità mitica irrimediabilmente estinta; esistevano ancora persone che condividevano davvero i valori che mi avevano attirato verso il mondo italiano che avrebbe dovuto teoricamente esserne l'erede, e ne facevano argomento di azione storica e di "grande politica". Per di più, tale movimento, dopo un decennio di duro lavoro, era visibilmente alla vigilia di un grande successo, tanto da aggregare intorno a sé "compagni di strada" di notevole rinomanza; e soprattutto tanto da suscitare un seguito, piccolo ma entusiasta, in numerosi paesi europei, dal Belgio alla Grecia, alla Germania, all'Inghilterra, alla Svizzera, all'Italia stessa. Un seguito che chiedeva solo di dare il proprio contributo, creando comunità locali o partecipando al lavoro di diffusione di idee attraverso conferenze, pubblicazioni e infiltrazione dei canali di comunicazione e dell'università.


    Bando alle divagazioni. Il congresso in questione era intitolato L'inégalité de l'homme, e veniva a focalizzare uno di quelli che si erano già stabilizzati come leit-motiv della battaglia culturale del movimento, ovvero l'identificazione, quale scontro ed alternativa fondamentale della nostra epoca, dell'antitesi tra le ideologie di matrice giudeo-cristiana, democratica, marxista, etc., e la visione del mondo antiegualitaria, aristocratica e sovrumanista.


    Tra i partecipanti vi erano naturalmente Alain de Benoist l'intellettuale; Giorgio Locchi il filosofo - che diventerà poi il mio guru e maitre à penser personale, se mai ne ho avuto uno, e il cui intervento allo stesso congresso è stato pubblicato da l'Uomo libero n. 6 sotto il titolo "Mito e Comunità" -; e soprattutto Guillaume Faye il militante, il relatore che indubbiamente mi colpì di più.


    Oratore eccezionale, ipnotico persino nel leggere una relazione scritta nell'atmosfera ovattata di un convegno di studi in un palazzo dei congressi, Guillaume Faye assomigliava un po' fisicamente e nelle movenze al giovane Feddersen, interpretato da Gustav Froelich, protagonista di Metropolis di Fritz Lang; ed era già indiscutibilmente l'astro nascente del movimento.


    Specie su un diciottenne assetato di coerenza, passione, spregiudicatezza, anche da una breve conversazione Faye lasciava un'impressione di "lucido fanatismo" in cui si mescolavano reminescenze di Che Guevara, D'Annunzio, Ignazio di Loyola e Goebbels, alquanto lontane dal materiale umano settario e arrivista, conformista e reazionario, che dominava la mia esperienza politica italiana dell'epoca. Le notti passate a discutere delle questioni fondamentali della nostra epoca e del futuro dell'Europa nella campagna provenzale delle Université d'Eté del GRECE diventarono anzi ben presto una benvenuta boccata di ossigeno.


    Non sorprenderà perciò che Faye fosse semplicemente adorato da tutta la base del movimento, comprese le componenti internazionali, ovviamente meno attratte da altri esponenti condizionati da un residuo di "spirito parigino-salottiero", o da un'eccessiva preoccupazione per l'amministrazione delle vicende quotidiane e locali dell'associazione. E fu proprio con Faye, Pierre Vial, Jason Hadgidinas e vari altri camerati europei di questo ambiente che ci ritrovammo qualche anno dopo in Grecia, al santuario di Apollo a Delfi, all'alba, a giurare in dieci lingue in una cerimonia privata la nostra fedeltà all'Europa, ai suoi Dèi, ed al sole (ri-)nascente della sua cultura, dopo il solstizio d'inverno della nostra epoca.


    Tale speciale ruolo di Guillaume Faye viene poi ad enfatizzarsi quando di lì a poco il movimento, battezzato per l'occasione Nuova Destra dai media, prende il controllo della redazione del Figaro-Magazine, giunge sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, e si illude per un attimo di aver messo radici inestirpabili nell'ufficialità. Se si escludono pochi personaggi dedicati a mansioni meramente organizzativi, Faye è infatti praticamente l'unico a non giocare le sue carte nei media tradizionali, nei circoli intellettuali accreditati e nell'università, ed a restare impegnato unicamente nel movimento, per cui lavora a tempo pieno, e dove i suoi problemi di sopravvivenza sono di natura puramente... economica.


    In tale particolare posizione, apre alcuni temi e fronti di lotta fondamentali echeggiati poi in tutta Europa. Il sistema per uccidere i popoli, da me tradotto in italiano per le Edizioni dell'Uomo libero e recentemente riedito dalla Società Editrice Barbarossa, costituisce il primo manifesto contro la globalizzazione pubblicato nel nostro continente, ancora nell'epoca dei blocchi e delle ultime tappe della decolonizzazione. La versione in cui il libro fu pubblicato costituisce il frutto di una lotta epica, tipica di Faye, contro gli editors di Copernic, allora la principale casa editrice del movimento. Come noto, questi nel mondo francese ed ancor più anglosassone non sono la casa editrice (o publisher), ma sono dei signori che senza aver mai pubblicato un rigo di proprio pretendono, su mandato della casa editrice, di insegnare agli scrittori cosa e come scrivere. In questo caso, tali figure non venivano solo a discutere problemi di virgole, lunghezza dei capitoli, o "attacco" sufficientemente accattivante per attirare l'attenzione di recensori che raramente vanno oltre le prime pagine e i risvolti di copertina, ma esercitavano un tentativo di attenuazione e sostanziale censura politica del messaggio considerato di volta in volta troppo "paradossale", "Visionario", "poco realista", "poco serio". Il fatto che il libro sia oggi una descrizione fedele di quanto positivamente è accaduto, e sta accadendo sotto gli occhi di tutti, è il frutto e la testimonianza dell'incredibile entusiasmo ed energia spesi a convincere, illustrare, riscrivere la riscrittura di personaggi più o meno ignoti, ed alla fin fine... prenderli per stanchezza.


    Ugualmente, è forse Guillaume Faye il primo in assoluto ad aver identificato nei Diritti dell'Uomo la dottrina sincretica e finale della tendenza storica umanista, che il marxismo non ha saputo essere e che rappresenta il punto di convergenza finale, postideologico, di tutte le correnti laiche e religiose in cui tale tendenza si è suddivisa dopo la sua affermazione in Europa con l'editto di Teodosio e la sconfitta dei Sassoni. Lo "speciale" al riguardo pubblicato su un numero di Elements ha costituito così lo spunto per la mia tesi di laurea, che ha poi costituito il nucleo del mio libro uscito sotto il titolo Indagine sui Diritti dell'Uomo (L.Ed.E., Roma 1985), con una prefazione del compianto Julien Freund, e che ho dedicato proprio a Faye.


    Altra pietra miliare nel percorso di Faye è rappresentata dalla pubblicazione del Nouveau Discours à la Nation Européenne, incitazione fichtiana alla rivendicazione della propria identità, alla riscoperta della forza dell'Europa ed alla rivolta contro la dominazione straniera e mondialista del nostro spazio vitale, che l'autore riesce a veder pubblicata da una casa editrice "ufficiale" (Albatros) con tanto di introduzione di Michel Jobert, ex ministro di De Gaulle!


    Ancora, per quanto la cosa possa oggi apparire banale, dobbiamo a Faye la definitiva liquidazione, in L'Occident comme déclin (Le Labyrinthe), di una confusione che vedeva ancora alla fine degli anni settanta cantautori nazionalrivoluzionari inneggiare alla "civiltà occidentale", mentre alcuni epigoni francesi di coloro che avevano combattuto in Normandia contro gli americani chiamavano addirittura... Occident uno dei loro pochi movimenti politici di un certo successo. Ugualmente, è sempre lo stesso autore a riproporre, in opposizione sia al progressismo ingenuo sia al rifiuto tradizionalista e neoluddista, la visione faustiana della tecnica, riallacciandosi alla sensibilità postmoderna che lotta per emergere nella cultura contemporanea (Hermes, le retour du sacré, Le Labyrinthe).


    Sempre a Faye dobbiamo altresì la chiaroveggente analisi sociologica sulla Nuova Società dei Consumi (pubblicata in italiano da l'Uomo libero n. 20) o il rilancio di modelli economici alternativi basati su grandi spazi continentali autocentrati e semi-autarchici (vedi l'articolo Per l'indipendenza economica, pubblicato in italiano da l'Uomo libero n. 13). E potremmo continuare a lungo, a partire da quanto altro tradotto su questa rivista, che è facile rintracciare nel sommario dei numeri arretrati riportato anche in fondo a questo fascicolo.


    Del resto, a fronte della mia esperienza diretta di realtà italiane che si distinguevano nell'associare paradossalmente "frazionismo" e conformismo, l'azione di Faye nell'àmbito della Nuova Destra coniuga sino all'estremo disciplina e libertà di spirito, così che lo stesso è uno dei pochi a raccogliere davvero, con altrettanti "sassi nello stagno", l'invito ad intensificare il "dibattito interno" - concetto che ha preoccupato per un certo periodo gli esponenti del movimento, ossessionati dall'idea di diventare, o essere percepiti come, una "setta".

    Ma altrettanto "forti" erano già all'epoca gli interventi critici sulla questione religiosa e sull'atteggiamento in materia del GRECE.

    E infatti esperienza comune che quando nel neo-paganesimo la particella "neo" viene gradualmente dimenticata, subentra facilmente l'ossessione per la "positività" e la "legittimazione".


    Dopotutto, mentre è perfettamente possibile essere l'unico, o l'ultimo, cristiano, musulmano o ebreo al mondo, la "religione" dal punto di vista pagano è ciò che "lega insieme" un popolo, e che lega questo alle sue origini. Ora, dal momento che il paganesimo innegabilmente non è più una religione positiva, o si ha il coraggio tragico e zarathustriano di tentare consapevolmente la creazione di forme originarie e di nuove "tavole dei valori", certo ispirate dal passato che ci si sceglie, ma da esso distinte, oppure diventa assolutamente centrale la ricerca di una "legittimazione" di qualche tipo. Questa per i tradizionalisti evoliani o guenoniani finisce regolarmente per essere esoterica ("i Saggi nascosti, il Re nella Montagna, la Tradizione Occulta", etc.), salvo poi finire per confluire in molti casi nell'Islam, in qualche variante minoritaria del cristianesimo cattolico o ortodosso, o peggio in sincretismi vagamente massonici o New Age.


    Per il GRECE invece, come prima ancora per il movimento vólkisch degli anni trenta tedeschi, tale ricerca di legittimazione è stata ed è, anziché metafisica, essenzialmente "sociologica", e portata a valorizzare come "politicamente" importante qualsiasi fossile di credenza o abitudine popolare di cui si possa ipotizzare un'origine autoctona, precristiana o semplicemente a-cristiana, dalla "festa del coniglio" alle "statuette della felicità", e via folkloreggiando.


    Rispetto a tutto ciò, è di nuovo Faye a rivendicare con un famoso articolo su Elements le ragioni di un paganesimo laico, solare e postmoderno, apertamente nietzscheano, distinguendosi nettamente dalla ossessione della "ninfa dietro ogni cespuglio" e dalle manie da "cattolicesimo invertito" di cospicue componenti della Nuova Destra, così condizionata dalla rivalità con le confessioni cristiane da finire talora per scimmiottarle.


    Articolo profetico rispetto alle più tarde "evoluzioni" di un de Benoist il quale, partito dall'interesse per l'empiriocriticismo e l'epistemologia russelliana o popperiana, finisce paradossalmente, dopo il libro Come si può essere pagani?, e una parentesi heideggeriana, a discutere con cristiani ed ebrei di metafisica o di valori comuni, di matrice sostanzialmente neoplatonica o neostoica, sulla cui base poter attribuire la palma della superiorità morale a Seneca o a Paolo di Tarso e meglio opporsi alla secolarizzazione (vedi ad esempio l'opera L'éclipse du sacré ).


    Se qualcuno vuole i dettagli della fine di un sogno, non ha che da leggere le pagine della nuova, lunga introduzione di Robert Steuckers a Il sistema per uccidere i popoli, che si è aggiunta alla mia nell'ultima edizione già citata del libro di Faye.


    Verso la fine del 1986 la crisi annunciata da Giorgio Locchi ("tutto ciò che è di moda passa di moda ... ") viene a maturazione. Gli originari animatori del GRECE, quando non sono stati semplicemente recuperati dal Sistema, si sono da un lato rinchiusi in una dimensione di pura testimonianza, dall'altro si sono sempre più marginalizzati dalla vita quotidiana dell'associazione, affidata a burocrati impegnati a raccogliere fondi per pagare personale dedicato a raccogliere fondi per pagare personale dedicato a raccogliere fondi, e così via, in una degenerazione stile Scientology. Altri hanno deciso di giocare la carta del Front National di Le Pen, a suo tempo duramente snobbato, ed ora in posizione di snobbare a sua volta la Nuova Destra, che non viene più percepita come un soggetto dotato di un qualsiasi progetto storico o politico, ed appare ridotta ad un produttore di conferenze e pubblicazioni dalle ambizioni limitate.


    I temi delle pubblicazioni d'area (in sostanza Elements, Nouvelle Ecole e il suo doppione dall'infelice titolo di Krisis) si fanno sempre più rarefatti e letterari. E' lo stesso de Benoist, in una sorta di regressione romantica, a confessare a Faye a metà degli anni Ottanta di essere progressivamente sempre più interessato alle "immagini" che alle "idee", al punto che quest'ultimo in una conversazione privata con me nello stesso periodo descrive la contrapposizione allora presente nell'ambiente come quella dei "germanomani non sovrumanisti" a quella dei "sovrumanisti non germanomani".


    Tra le conseguenze di tale deriva, va annoverata l'estremizzazione dell'operazione consistente nel richiamo e valorizzazione dei più strampalati componenti e settori della Rivoluzione Conservatrice per tanto che gli stessi possano vantare una qualche dissidenza rispetto ai regimi fascisti degli anni Trenta. Ed ancora, la progressiva concentrazione su temi di carattere sostanzialmente storico, letterario e mitico a scapito dei grandi argomenti di natura sociologica, tecnoscientifica, politica, economica su cui negli anni precedenti il movimento non aveva esitato a prendere posizioni fortemente originali ed innovatrici.


    A fronte della crescente pressione della censura e del "pensiero unico" il movimento risponde del resto con una crescente compromissione sui temi decisivi, paradossalmente accompagnata da un irrigidimento su questioni secondarie e da "fughe in avanti" difficilmente comprensibili per il proprio pubblico, come le strizzate d'occhio ad un filosovietismo alla Jean Cau, del tutto onirico e subito liquidato dall'evoluzione storica. Anche la capacità di non farsi mai rinchiudere nelle antitesi del dibattito politico contemporaneo (nazionalismo-cosmopolitismo, liberalismo-socialismo, aborto sì o no, ecologismo-antiecologismo, femminismo-antifemminismo, imperialismo-anticolonialismo, comunismo-anticomunismo, etc.), per opporvi le proprie, si stempera e si trasforma in un'incapacità di prendere posizione sui problemi centrali del nostro tempo, o nel gusto della battuta brillante e dello slogan fini a se stessi.


    Vengono poi al pettine i nodi degli errori politici e propagandistici commessi. Primo tra tutti l'ossessione di essere presi per una qualche sorta di "Internazionale nera", e la mancata comprensione del potenziale di una dimensione veramente internazionale, pure facilmente accessibile; ad esempio in termini di capacità di superare crisi locali contingenti, di diminuita vulnerabilità alla repressione ed al black-out mediatico, di mobilitazione mitica dei militanti. Secondariamente, pesa negativamente il progressivo svuotamento della funzione centrale del GRECE (del resto progressivamente preda del micro-leninismo dei funzionari sopra descritti, e sempre più asfissiante nel suo tentativo di sopravvivere a se stesso nella sua improduttività metapolitica) a favore di una supposta "corrente" e "comunità", i cui confini ed identità quanto mai indefiniti si ipotizzava fossero meglio atti a creare e mantenere la ricchezza, varietà ed organicità tipica dei grandi movimenti culturali e di costume; e soprattutto ad evitare i colpi della reazione, penetrare i gangli del potere culturale ed evitare la paventata "trasformazione in setta". Infine, finisce per diventare insostenibile per molti l'ambiguità rispetto ai temi della politica politicante, i cui contenuti vengono giustamente respinti come inessenziali, ma che pure finisce per condizionare negativamente. per una sorta di "angelismo", di "neutralità" di maniera, tutte le prese di posizioni pubbliche di Alain de Benoist, che pure non aveva esitato negli anni settanta, sponsor Maurizio Cabona, ad assumere la titolarità di una rubrica su Candido di Giorgio Pisanò, gazzetta non esattamente arcadica.


    A questa involuzione non può rimediare da solo Guillaume Faye, con un'incessante animazione di iniziative sempre più personali e "parallele" - dalla trasmissione radiofonica postmoderna Avant-Guerre alla creazione di sigle ed attività come l'Institut des Arts et des Lettres o il Collectif de Réflexion sur le Monde Contemporain -, portate avanti senza un soldo, un appoggio o una sponsorizzazione, e guardate con indifferenza, sufficienza e poi crescente ostilità dai vertici del movimento, apparentemente già più interessati, quando pure non si occupavano di contabilità, ai misfatti dell'arte moderna, alla poetica sugli elfi nella Sassonia del quindicesimo secolo o ai "decisivi" dibattiti con Thomas Molnar sulla questione se il divino si esprima "nel" mondo o "attraverso" il mondo.


    Il finale abbandono di Faye diventa così - insieme con la morte di Locchi, del resto uscito dal giro molti anni prima, all'apparente apogeo della parabola della Nuova Destra - il simbolo della conclusione di un cielo, e l'inizio di un periodo di relativa smobilitazione in tutta Europa, che vede alcuni rinchiudersi nella politica tradizionale, altri nel proprio privato, molti in confortevoli "cappelle" locali con contatti sempre più ridotti con l'esterno. Senza animare scissioni, senza tentare di portarsi via né un franco né un indirizzo, senza tanto meno "convertirsi" alla Marco Tarchi, Guillaume Faye si ritira per una decina d'anni nell'ombra, mentre il GRECE, naturalmente senza pagare diritti d'autore, continua ad utilizzarne gli scritti, non senza che vengano tollerate voci secondo cui Faye è impazzito, ha il cervello bruciato dalla droga o è stato reclutato dalla CIA.


    In questo scenario, la sua riemersione, alla fine dei "maledetti" anni Novanta che hanno visto lo sfaldamento di tante speranze e il trionfo del Sistema mondialista inutilmente denunciato e combattuto con incredibile lungimiranza, non può che rappresentare per me un presagio di buon augurio, e uno stimolo ad una ri-mobilitazione di ciascuno, con il consueto "pessimismo della ragione, ottimismo della volontà" che non è altro che la logica di chi non può fare altrimenti, non può trovare una dimensione esistenzialmente appagante solo nella propria vita quotidiana, professionale e familiare.


    Che i dieci anni trascorsi non siano passati invano è ben illustrato dalla apparizione del saggio L'archeofuturisme, (Paris 1998, L'Aencre, 12 rue de la Sourdière, tel. 0033 142860692, fax 0033 142 860698, ora tradotto in italiano sotto il titolo Archeofuturismo dalla Società Editrice Barbarossa), che in trecento pagine disegna un bilancio complessivo di trent'anni di dibattito politico e culturale europeo, spaziando dalla sociologia della concertazione, alla politica ed al significato culturale dello sport, al cinema, alla genetica, alla musica, all'omosessualità, all'immigrazione, alla globalizzazione, ai modelli economici, alla religione, all'ecologia, per concludere con una "novella" archeofuturista che costituisce un suggestivo pendant del Prologo del Sistema per uccidere i popoli: allora, la raffigurazione, all'epoca considerata "paradossale", di come il mondo stava in effetti per divenire con la vittoria del mondialismo; ora, la sconvolgente descrizione del mondo come potrebbe invece trasformarsi, in uno scenario "archeofuturista" altrettanto visionario, in cui trova un piccolo posto anche un... diretto discendente del sottoscritto, nella Milano del 2073.


    Come sempre, lo sguardo penetrante di Faye disegna nuove piste mai battute prima, unisce l'impensabile, spezza gli idoli ed i luoghi comuni del pensiero egemone, persino quelli del conformismo... del pensiero non-conformista, aiutando ciascuno di noi a pensare sino in fondo quello che già pensa. La rottura con la Nuova Destra, della cui esperienza disegna un bilancio equilibrato e scevro da ogni logica di ressentiment personale che pure avrebbe mille giustificazioni, rende ancora più libera ed impietosa l'analisi tanto delle tendenze dominanti (rispetto a cui ci vengono del tutto risparmiate le cautele di political correctness presenti in tanti scritti del movimento), sia delle carenze del mondo che ha cercato di difendersi ed affermarsi in opposizione ad esse, dalla riscoperta delle identità regionali alla difesa dei cinema nazionali alla opposizione politica militante.

    A L'archeofuturisme fa seguito, per la stessa casa editrice, una riedizione, "riveduta ed aumentata", del già citato Nouveau discours à la Nation Européenne, ed infine La colonisation de l'Europe - Discours vrai sur la Colonisation et l' Islam, che rappresenta uno dei più interessanti studi mai apparsi in materia di politica demografica, immigrazione e colonizzazione del nostro continente.


    Diciamo "studio", per sottolineare il grado di approfondimento, quanto mai insolito in saggi sull'argomento, della trattazione; ma non sarà certo una sorpresa, per i lettori che conoscono l'autore, apprendere che le intenzioni del libro non sono affatto "innocenti".

    "Molti hanno cercato di dissuadermi dallo scrivere questo libro. Mi avrebbe attirato delle noie. Non bisogna dire le cose come sono. E' pericoloso, non capisci? Avrei potuto scrivere un saggio illeggibile e pseudofilosofico, o vagamente sociologico, sulle virtù comparate dell'assimilazione, dell'integrazione e del comunitarismo. Ma l'intellettualismo borghese non mi interessa.[... ] La scommessa della dissidenza è oggi la più feconda. E' quella del pensiero radicale... Si tratta di ritornare - lungi da ogni estremismo - alla radice delle cose, ad attaccare le questioni fondamentali dell'epoca. Non si dibatte del sesso degli angeli quando i barbari assediano Costantinopoli. Ora, la questione principale dell'epoca, è quella di gran lunga più visibile, più eclatante, quella di cui tutti hanno paura di parlare, evidentemente, che non viene abbordata se non a mezze parole ed a bassa voce, cioè la colonizzazione demografica che subisce l'Europa da parte dei popoli magrebini, africani ed asiatici e che si accoppia con un'impresa di conquista del suolo europeo da parte dell'Islam. Non è una curiosità politica, è un avvenimento storico clamoroso, senza alcun precedente nella storia europea per tanto che possa risalire la memoria. Si tratta innanzitutto di prenderne atto, di risvegliare le coscienze a questo fatto capitale. Non per ammetterlo e "conviverci". Ma per rifiutarlo ed intavolare il dibattito sulla maniera di combatterlo e invertire la marcia.


    [... ] E' urgente. La casa è in fiamme. Non si tratta di fare folklore, né di insultare, né di sprofondare in deliri odiosi o nel razzismo da portineria, si tratta di affermare. Di affermarsi con rigore e determinazione, e di difendere il diritto imprescrittibile degli Europei a restare se stessi, diritto che viene a loro negato, mentre lo si riconosce a tutti i popoli del mondo. ... Il tempo delle prudenze metapolitiche è finito". E l'autore conclude: "In questo libro preconizzo la guerra civile etnica e chiamo alla riconquista".




    Potremmo continuare. Il libro contiene una quantità di dati, aneddoti, analisi, confutazioni, spunti che smascherano la censura e la disinformazione del Sistema sull'argomento, denunciano la gravità dirompente delle conseguenze socio-politiche ed economiche che si annunciano, mettono alla berlina le illusioni di controllare il fenomeno e le "soluzioni" preconfezionate su cui dibatte la politica politicante.


    Contiene anche numerose provocazioni, feconde e dissacranti anche rispetto a idee o temi ormai dati per scontati tra gli oppositori del mondialismo. Leggiamo ad esempio, riguardo ai popoli del Terzo Mondo: "Non siamo noi ad aver "distrutto le loro culture", come pretendono i difensori - in fondo rousseaiani ed adepti del mito del buon selvaggio - dell'etnopluralismo, che siano di destra o di sinistra. Dopo il passaggio degli Europei, le culture arabe, indiane, cinesi, africane, etc. sono state cancellate? Per niente. Restano in realtà molto più vivaci e molto meno occidentalizzate ed americanizzate delle povere culture europee". O ancora: "In generale, il pauperismo di molti paesi del sud del mondo non è la conseguenza del colonialismo o del neo-colonialismo, ma dell'incapacità di farsi carico di se stessi, persino quando possedevano enormi risorse naturali. Pensavo anch'io che il colonialismo europeo si fosse reso cinicamente responsabile, per gusto del profitto, del pauperismo del Terzo Mondo. E' una visione intellettualistica che ho abbandonato".


    Un'altra tendenza di un certo successo in Italia di cui il libro fa sommariamente giustizia è quella, che Faye aveva liquidato proprio insieme alla Nuova Destra fin dall'inizio degli anni Ottanta, ma che ora torna a riemergere proprio in quello che resta di quest'ultima a seguito della sua involuzione neotradizionalista. Parliamo della tendenza volta ad affermare l'esistenza di una Tradizione fondamentalmente unitaria, metaculturale e metarazziale quanto metafisica, di cui l'Europa avrebbe in passato partecipato, "paritariamente" (secondo l'Evola del dopoguerra), o addirittura "parassitandola" dall'Oriente (come in Guénon), e le cui vestigia sopravviverebbero eventualmente altrove. E' ovvio che l' "antimodernismo" di tali correnti non è affatto sufficiente a fondare teoricamente una prassi politica e metapolitica di opposizione alla globalizzazione. Esse non rappresentano altro infatti che una variante "a segno invertito" del progressismo linearista, universalista, omologatore del Sistema, nella comune indifferenza alla sorte delle tradizioni concrete e plurali, e alla conservazione e sviluppo delle identità irriducibili di cui si compone la specie umana, indifferenza fondata su una supposta "unità trascendentale di tutte le religioni", così come di tutte le razze e culture (che rappresenterebbero al più gradini diversi in una gerarchia di valori comuni, o di decadenza irresistibile).


    Ancora, Faye è molto chiaro nel rivendicare i limiti della tolleranza "politeista" all'Altro-da-sé, limiti del resto ben presenti anche alla reazione della romanità più consapevole e meno decadente, da Nerone a Celso a Simmaco a Giuliano, contro l'intolleranza ed il settarismo di importazione medio-orientale venuti a pervertire l'identità etno-culturale dell'impero.


    Sul piano più politico, un altro tema soggiacente a tutta la trattazione contenuta in La colonisation de l'Europe è la implicita scelta identitaria che rende fondamentalmente differenti le nature dei movimenti migratori interni, intraeuropei, e la colonizzazione da parte di popolazioni estranee. Questo aspetto merita di essere tanto più sottolineato nel nostro paese, dove i vescovi predicano l'immigrazione di domestici e lavoranti filippini, bravi e "cattolici", e dove ogni transessuale mulatto brasiliano trova rapidamente lavoro sulle strade dopo essere sbarcato con un visto turistico in qualsiasi aeroporto, mentre le rare "esibizioni di muscoli" del regime vengono riservate a Croati, Albanesi, Bulgari, Jugoslavi; unici ad essere di quando in quando ributtati a mare con donne e bambini, concentrati alla Pinochet negli stadi da ministri dell'intemo "di sinistra" che si vantano "gli ho dato la mia parola d'onore, li ho fregati", mentre il loro governo di appartenenza discute dell'ammissione all'Unione Europea di Israele e Turchia!


    Gli stessi processi linguistici in corso non sono innocenti. L'imposizione da parte dei media e del linguaggio burocratico del termine "extracomunitario" (termine che a svizzeri od americani viene applicato solo nelle barzellette, e che significa oggi in sostanza "di colore") è assolutamente eloquente del tentativo di accreditare una pretesa comune appartenenza economico-comunitaria e promuovere una implicita "solidarietà", poniamo, con un giamaicano di cittadinanza inglese, o con un connazionale di religione ebraica, in contrapposizione alla pretesa "estraneità" nazionale di un ungherese o di un croato. Anche questo serve infatti a negare e dividere l'identità europea, facilitandone la fagocitazione.

    D'altronde, il libro di Faye è soprattutto un invito alla riflessione, alle prese di posizione ed al dibattito. "Le tesi che sostengo non sono dogmi. Portare il dibattito sulle cose essenziali, elettrizzare le coscienze, questo è il mio solo obbiettivo. Io sono un provocatore. Informatevi sull'etimologia latina di questo termine".


    Raccolgo perciò l'invito dell'autore e continuando un dialogo personale ed a distanza che dura da almeno vent'anni, prendo posizione su alcune delle questioni sollevate.

    fine prima parte
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
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    Per L'autodifesa Etnica Totale


    Approfitto per segnalare questo bellissimo sito http://www.geocities.com/stromerhannes/index.html



 

 

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