IRAQ
«Impediremo la deriva libanese»
Parla lo sceicco Jawad al Khalisi, esponente dell'opposizione
agli occupanti
STEFANO CHIARINI
INVIATO A KHADIMIYA (IRAQ)
«Gli Usa e i loro alleati sostengono di voler portare la
democrazia in Iraq ma quel che stanno facendo, promuovendo il
confessionalismo religioso e le divisioni etniche, impedendo
al popolo iracheno di governarsi e rispondendo con la forza
bruta alla resistenza di tanta parte dei nostri cittadini, è
esattamente il contrario. Dicono di voler prevenire il caos e
la guerra civile quando sono loro con la loro politica che
stanno generando questi mostri». Lo sheik sciita Jawad al
Khalisi esponente della Conferenza Nazionale Irachena
Indipendente, un organismo composto dai più importanti
esponenti sciiti, sunniti, laici e nazionalisti iracheni che
si propone di coordinare l'opposizione politica
all'occupazione e di proporre (con la discreta benedizione
dell'ayatollah al Sistani, massima autorità religiosa del
paese) un governo unitario di transizione, ci esprime con
queste parole la sua indignazione per i drammatici fatti di
queste settimane che hanno provocato oltre 1000 morti.

Ci riceve nalle sua madrasa in un vicolo oscuro a pochi passi
dalla stupenda moschea di Khadimiya con la famosa cupola d'oro
circondata da quattro minareti, costruita nella sua forma
attuale nel 1500 dal sultano Suleiman il magnifico. Si tratta
di uno dei più importanti monumenti dell'Iraq e dell'Islam al
quale accorrono milioni di pellegrini sciiti da ogni parte del
mondo che si accampano con tutte le loro famiglie, tra thermos
e bambini urlanti, nel grandissimo cortile esterno o pregano
nella grandi sale interne con le pareti ricoperte da milioni
di mattonelle a specchio. Fuori si vende di tutto e il profumo
delle spezie copre, non sempre, la puzza della fogna a cielo
aperto che scorre al centro delle stradine.

Ma proprio in quanto luogo di ritrovo, di preghiera e di
studio, Khadimiya ha avuto sempre una grande importanza anche
dal punto di vista politico. Una storia che scorre sui muri
della madrasa dove ci troviamo e dove, tra migliaia di libri
che ricoprono le pareti troviamo, accando al ritratto del
grande aytollah al Sistani, la «fonte di ispirazione» per
tutti gli sciiti, il ritratto del nonno dello sheik Jawad,
sheik Mahdi al Khalisi, il primo «marja» protagonista della
rivoluzione «nazionalista» del 1920 contro il mandato
britannico e sostenitore di «uno stato iracheno arabo da Mosul
al Golfo». Un'eredità che lo sheik Jawad non sembra
preoccupato di assumersi e che lo ha portato a promuovere, con
gli altri membri della Conferenza nazionale, un'assemblea che
si terrà tra una decina di giorni a Baghdad per dar vita ad
una leadership unitaria della resistenza politica e per
proporre un articolato progetto di transizione alla sovranità
irachena.

«Il problema è l'occupazione -risponde Sheik Jawad dopo averci
offerto il suo ottimo the - e quindi la sua soluzione è la
fine dell'occupazione: Uscita immediata delle forze di
occupazione dalle città irachene. Affidare alle Nazioni unite
la gestione della transizione ma come protagoniste del
processo, non come semplice copertura dell'occupazione.
Formazione di un governo rappresentativo secondo criteri
politici «nazionali» e non confessionali o etnici, incaricato
di preparare le elezioni del gennaio 2005. Entro il 30 giugno
le forze occupanti dovrebbero cominciare il loro ritiro da
completarsi nel giro di due, tre mesi. Il nuovo governo potrà
richiedere la presenza di forze esterne sotto comando Onu
formate da paesi che non hanno fatto la guerra e non hanno
occupato il nostro paese». Durissima la posizione dello sheik
Jawad sulla missione Brahimi: «Nella sua visita, come lui
stesso ha confessato ai suoi collaboratori, è stato
praticamente prigioniero degli Usa che non gli hanno fatto
incontrare nessuno degli esponenti che si oppongono
all'occupazione dell'Iraq, e questo si vedrà anche dalle sue
proposte». Secondo quanto sostiene il responsabile della
Conferenza nazionale irachena, sulla base di indiscrezioni al
palazzo di vetro, Bremer e Brahimi avrebbero intenzione di
designare il prossimo governo di transizione su basi
etnico-religiose con un presidente sunnita, un vice kurdo e un
presidente del parlamento sciita, una ricetta che in Libano ha
portato alla guerra civile e al blocco di qualsiasi autonomia
decisionale: «La struttura istituzionale libanese -ricorda lo
sheik Jawad - non solo ha provocato la guerra civile ma ha
reso il governo, sempre diviso, dipendente dalle decisioni di
Damasco. Qui gli americani vogliono creare la stessa
situazione in modo da costringerci a non poter decidere da
soli e a chiedere il loro aiuto». Dopo essere uscito un attimo
a sbrigare un affare urgente con uno dei notabili che
affollano il cortile della scuola sotto lo sguardo discreto di
numerose guardie armate, sheik Jawad si lancia in una
requisitoria contro l'introduzione del confessionalismo
promossa dagli americani in Iraq: «Sia nello stato democratico
occidentale nato con la rivoluzione francese, sia nella
concezione di uno stato islamico democratico, la base dei
diritti sta nell'essere cittadini di questo stato non
nell'appartenere a questa o a quella comunità religiosa,
sunniti, sciiti, cristiani, ebrei, sabei , Yazidi o etnica,
arabi, curdi, turcomanni assiri etc. Questo non è un modo per
democratizzare l'Iraq ma per polverizzarlo». Ma gli iracheni
potranno esprimere una leadership unitaria e bloccare il
proliferare delle milizie armate? «In primo luogo - risponde
sheik Jawad sorridendo, quasi si aspettasse la domanda - le
milizie armate che scorazzano nel paese sono un frutto
dell'occupazione dal momento che i loro leader sono tutti nel
Consiglio di governo designato da Bremer, ed è singolare che
l'unico gruppo armato che vogliono sciogliere sia quello di
Moqtada al Sadr. Il problema non è quindi che si tratta di una
milizia ma che questa si oppone all'occupazione. In ogni caso
ridate il governo agli iracheni e gli iracheni se ne
occuperanno. In secondo luogo nelle consultazioni in corso da
un anno abbiamo unitariamente indicato decine di possibili
primi ministri per un governo di garanzia incaricato di
convocare nuove elezioni, rappresentanti dell'unità nazionale,
come ad esempio Naji Taleb, già ministro ai tempi di Abdel
Salam Aref a metà degli anni sessanta, sciita del sud, o Abdel
Qarim Hani sunnita, già ministro nei primi anni sessanta.
Personaggi, al pari di tanti altri, di garanzia e di provata
onestà». «Saranno queste le proposte della prossima assemblea
nazionale?» chiediamo a sheik Jawad prima di salutarlo.
«Innanzitutto esprimeremo -ci dice - una leadership nazionale
unitaria irachena che si opponga con chiarezza all'occupazione
e costruisca un nuovo futuro democratico per il nostro paese.
Il resto verrà dopo. Ma verrà. L'Iraq è un grande paese, non
una accozzaglia di tribù o di fanatici come tanti vorrebbero
che fosse».