È la nuova serie televisiva che narra di una famiglia di Los Angeles che gestisce un’impresa di pompe funebri. Un cult che vorrebbe portarci all’accettazione di una società globalizzata e multiculturale
n film, una canzone, un libro; una qualsiasi manifestazione che abbia a che fare con l’arte o lo spettacolo, e che si guadagni in qualche maniera un certo seguito, assurge al pomposo identificativo: “di culto”. Ma ci siamo mai chiesti cosa vuol dire? Nel toglierci il dubbio ci assiste il dizionario. Alla voce culto, spiega: “Adorazione della divinità che si manifesta anche con pratiche rituali”. E, ampliando la definizione: “Sentimento quasi religioso con cui si venera una persona o un ideale, ammirazione illimitata di personaggi accompagnata da servile condiscendenza per ciò che essi fanno o dicono”.
Sembra un paradosso, ma anche i telefilm, possono essere di “culto”. L’ultimo ad aver conquistato l’appellativo, è una serie tv americana intitolata Six feet under. Letteralmente vuole dire: Sei piedi sotto. La storia narra le vicende di una famiglia di Los Angeles, che orbitano intorno all’impresa di casa: un’agenzia di pompe funebri. L’obiettivo della pellicola, prodotta e diretta da Allan Ball, già premio Oscar per la sceneggiatura di American Beauty, sarebbe quello di analizzare i mille aspetti della vita attraverso la sua negazione, la morte. Ogni puntata infatti si apre con un decesso. I trapassati, in attesa della loro “preparazione” per l’ultimo viaggio, dialogano in maniera surreale e onirica con i Fischer (così si chiama la famiglia dei protagonisti), assumendo il ruolo di consiglieri, di guide, per affrontare i molti problemi che li assillano.
Basta aver visto poche puntate, per riconoscere nella narrazione degli eventi, i più classici stereotipi americani e soprattutto i messaggi (più o meno subliminali) sociali che certi personaggi lanciano attraverso le loro storie. Tutti imput tesi all’accettazione di un modello di società diametralmente opposta a quella tradizionale, ma terribilmente simile a quella proposta dagli alfieri della globalizzazione, del multiculturalismo e del buonismo a 360 gradi.
Nathaniel, il patriarca della famiglia, è il classico uomo dedito al lavoro, tanto da trascurare gli affetti. Muore in maniera rocambolesca, travolto da un autobus che si schianta contro il suo carro funebre perché lui si è distratto a raccogliere una sigaretta. Primo stereotipo: l’ossessione americana della crociata contro il fumo. Sigaretta=pericolo=morte. Ruth, la moglie, non si da pace per la scomparsa del consorte. L’umanissimo dolore però, è aumentato soprattutto dal fatto che l’improvviso lutto non le ha dato il tempo di confessare al marito la sua relazione fedifraga. Secondo stereotipo: la famiglia borghese, perfetta all’apparenza, ma attraversata da incomprensioni e conseguenti tradimenti.
La coppia ha tre figli. Il maggiore, David, ha sempre aiutato i genitori a mandare avanti l’azienda. Serio, professionale e segretamente innamorato di un poliziotto di colore. Qui abbiamo altri due tipici “tormentoni” Usa: l’omosessualità e il melting pot. Aspetti “scomodi”, che però devono essere metabolizzati dalla società come normali e naturali. Il primo viene rappresentato attraverso lo sforzo che il giovane David, obbligato a nascondersi, dovrà compiere per far capire a tutti che non c’è niente di male e che si tratta di “amore” esattamente come quello eterosessuale. Mentre il secondo, viene appena accennato. Del resto negli States, i dissidi e gli scontri razziali, sono all’ordine del giorno, ma non se ne può parlare perché il principio del multiculturalismo è un dogma, favorito e spinto da una legislazione che impone, ad esempio, quote riservate alle minoranze anche nei telefilm.
Il secondo pargolo, Nate, è il ribelle di casa. Si allontana dalla famiglia in cerca della sua libertà, ma vi fa ritorno alla morte del padre per aiutare i parenti nel menage della ditta. Apparentemente il più equilibrato, stabilisce però un morboso rapporto con la complicata Brenda, piacente fanciulla con qualche scheletro nell’armadio. A unirli una prorompente affinità sessuale, ribadita in ogni occasione. Anche il sesso del resto, è un tasto sul quale gli americani non disdegnano di battere in ogni occasione. Infine, la terzogenita Claire. Adolescente tormentata, dedita al consumo di spinelli e alcool, da sola o in compagnie maschili con le quali intrattiene rapporti non propriamente platonici. A completare il quadro, personaggi minori: Federico Diaz, il “preparatore” di cadaveri di origini ispaniche e Billy, il fratello di Brenda, depresso e infantile perdigiorno.
Ad analizzare tutte le pieghe della serie, ci sarebbe materiale per far lavorare l’intera facoltà di Psicologia di Padova e quella di Sociologia della Statale di Milano.
La nostra analisi non vuole essere bacchettona, né razzista o sessista. Il telefilm, ha incassato molti riconoscimenti e altrettanti premi prestigiosi, fra i quali sette Emmy Awards e due Golden Globe. Possiamo anche sottolineare che si tratta di un buon prodotto, ben recitato e sicuramente non banale. Saper miscelare macabro e sarcastico però, anche se lo si fa intelligentemente, non è sufficiente per “liquidare” certi argomenti come acqua fresca. E ancor meno lo è per spacciare come “normali”, come fatti di tutti i giorni, quelli che animano la quotidianità dei Fischer. Quelli che sono stati definiti gli “Adams del 2000”, sono molto più lontani da noi di quanto non potessero essere Morticia e Gomez. E soprattutto, ci fanno rimpiangere Happy Days. Anche quella serie aveva come protagonista una famiglia. E anche i Cunningham vivevano delusioni, amori, problemi, litigi e riappacificazioni. Arrivati sui nostri teleschermi, nessuno si sognò di definirli “di culto”, lo sono diventati solo in tempi recenti, quando è stata coniata questa espressione. Non scevri da stereotipi, ma sicuramente senza intellettualismi palesi o nascosti, ci hanno accompagnato per anni. Anche loro erano americani. Ma evidentemente di un’altra America, quella che riesce a confezionare buoni programmi e fare ascolti, anche senza dover ricorrere a sesso, psicoanalisi e crociate buoniste.
Karl Tür