Chi non ricorda Hannibal Lecter? E' la stella della saga psichiatrico-antropofagica di Thomas Harris, con il ghigno professorale di Anthony Hopkins. Dopo Il silenzio degli innocenti, eccolo latitante a Firenze in Hannibal, sotto le spoglie del raffinato, erudito Fell, non si sa se il "degradato" o il "crudele": il termine inglese è bivalente (allo C.P.I.C.S.C.I.O.S. - semmai passasse da queste parti per sbugiardare - faccio rispettosamente presente quanto segue: trattasi di dotta affermazione dell’autore dell’articolo e non di imprudente riflessione silviesca, ergo... non contestabile in questa sede... ).
Azzardo delle ipotesi. Nella sua nera creatura, che parla con leggera cadenza d'Arno, l'autore ha reincarnato il Magnifico, Lorenzo de' Medici, l'ago della bilancia dell'ingarbugliata politica italiana del tramonto del '400. Seguiamo le tracce...
La moglie del Magnifico era la bella Clarice Orsini, notabile romana che smunicipalizzò la casata dei banchieri fiorentini, spianando le entrature vaticane. E Clarice è anche l'agente Starling, soggiogata dalle tenebrose grazie di Hannibal. Il suo cognome, in inglese, vale "storno": uno dei poemetti medicei s'intitola Uccellagione di starne, documento della passione di Lorenzo per l'esclusiva falconeria.
Veniamo a Lecter, un appellativo che sembra il giocoso incastro tra lecher, libertino, e lectern, il leggio da chiesa di medievale memoria: due segni forti della personalità del Magnifico, devoto ai riti dionisiaci, che celebrò nella popolare canzone di Bacco e di Arianna, ma anche umanista provetto, sodale di Poliziano, capostipite dei filologi moderni, e lui stesso scrittore e lettore instancabile.
Ora, l'indizio più convincente: "Là, da quella alta finestra, Francesco de' Pazzi, nudo e con un cappio al collo, era stato buttato giù a morire", leggiamo in Hannibal. La finestra è una di quelle che, dalla facciata di Palazzo Vecchio, si apre sulla piazza che fu per secoli il baricentro politico di Firenze, bilanciata all'estremità opposta di un'ellisse ideale dal prodigioso germoglio di Santa Maria del Fiore, cuore del potere sacro. A penzolare dalla blasonata forca non è il cadavere di un banchiere rinascimentale ma, nel romanzo, quello di un lontano discendente, un ispettore di polizia, vittima di Lecter.
La scena è un truce e allusivo specchio di quanto accadde nel tardo pomeriggio del 26 aprile 1478, quinta domenica dopo Pasqua. Durante la Messa solenne in Duomo, al momento dell'elevazione, si scatenò il dramma. Maldestri sicari, tra cui Francesco Pazzi, trafissero Giuliano, ma mancarono Lorenzo, il fratello maggiore, il vero bersaglio, che fiutò l'intrigo, si difese a colpi di spadino e manovrò una rappresaglia memorabile, che costò la vita a un'ottantina di persone, tra le quali i due Pazzi, rivali di borsa e di prestigio.
Harris, che deve aver letto i resoconti dell'epoca, e in particolare il Coniurationis Commentarium del Poliziano, sfalsa il dettaglio topografico dell'impiccagione: Francesco de' Pazzi, nudo e sanguinante, fu appeso alla terza finestra della Loggia de' Lanzi, al piano superiore. Ma anche le inferriate della Signoria ebbero i loro ornamenti di carne. Otto mercenari del Montesecco, la mente militare dell'attentato, accarezzarono nell'agonia il rude bugnato, prima di sfracellarsi sul selciato, dove plebe e soldataglia se ne disputarono i resti, strappandosi di mano membra e indumenti, tra cui le calzette alla moda, di lana, con lo stemma nobiliare dei Pazzi.
Questo catalogo degli orrori si dispiega nel saggio La congiura dei Pazzi. Intrighi politici, sangue e vendetta nella Firenze dei Medici di Lauro Martines, University of California, storico specialista dell'Umanesimo italiano. E' un libro densissimo di dati, che offre due idee interpretative piuttosto originali. La prima è che la congiura dei Pazzi non fu una faida locale tra consorterie finanziarie, i Medici e i Pazzi, che da poco li avevano soppiantati nella gestione dei capitali papali. Dietro le quinte, agivano tutti i potentati: da Sisto IV della Rovere, desideroso di ridimensionare l'influenza fiorentina sulla Romagna, a Ferdinando d'Aragona, re di Napoli, ai minori, come Siena, Lucca, Urbino (e rispunta Federico da Montefeltro… ).
La seconda è che se i Pazzi sparsero sangue, Lorenzo non era il puro agnello sacrificale. Usò denaro e fascino personale per acquisire un potere spurio. Privato cittadino, agiva al di sopra dei Priori e del Gonfaloniere, fuori dagli schemi statutari. Pescò dalle casse pubbliche duecentomila fiorini, quando colossi edilizi come Palazzo Pitti ne costavano trentacinquemila.
La sua vendetta fu barbara. L'arcivescovo Salviati, dal suo cappio all'inferriata, affondò i denti nel petto del compagno di patibolo, Francesco Pazzi. La pubblicistica umanistica, vassalla dei Medici, descrisse il complotto come un revival dell'azione di Catilina, contro Lorenzo scudiero dell'ordine e della legalità. Ma il Medici restava un despota. Alla fine si ha l'impressione che l'eccentrico buongustaio di carne umana, il cultore di dantesche efferatezze, il sopraffino Lecter, ne sia un epigono, non tanto difforme.
Ezio Savino su Il Giornale dell'otto aprile 2004
Giorgio Vasari – Lorenzo il Magnifico (Uffizi)