Abbiamo percorso una strada lunga, buia e sconosciuta dagli attacchi dell'11 settembre. Tutti abbiamo sofferto, abbiamo sperimentato la paura, la rabbia, a volte l'odio. Molti di noi hanno provato - probabilmente più di quanto vogliamo ammettere - in un momento o nell'altro, un desiderio di vendetta per quanto è stata profonda la ferita che ci è stata inferta quello spaventoso, indimenticabile martedì mattina del settembre 2001. Ma abbiamo appena passato un fine settimana talmente terribile, tremendo, talmente doloroso da fare a pezzi l'intero edificio delle nostre convinzioni su cosa sia buono e nobile - la struttura morale profonda degli Stati Uniti d'America.

Siamo inondati dalle fotografie di iracheni - non terroristi, persone, semplici persone - ammassati su gelidi pavimenti con guinzagli al collo. Siamo inondati da fotografie di uomini incatenati così crudelmente che le loro schiene sono piegate per la sofferenza, di uomini costretti a masturbarsi e a fingere di avere rapporti sessuali tra loro davanti alle macchine fotografiche, costretti a subire aggressioni di cani, fotografie di uomini con elettrodi applicati al corpo mentre stanno incappucciati, temendo per la propria vita.
E il peggio, oltre a tutto, deve ancora arrivare. Una nuova selva di fotografie e filmati, non ancora pubblicati, attende oltre l'orizzonte della nostra oltraggiata capacità di comprendere. Queste immagini, questi filmati, ancora provenienti dalla prigione di Abu Ghraib, sono stati già descritti: mostrano soldati degli Stati Uniti d'America mentre violentano una donna irachena, soldati degli Stati Uniti d'America che picchiano un iracheno sino a lasciarlo in fin di vita, soldati americani che posano con sorrisi ammiccanti davanti a cadaveri di iracheni in decomposizione e soldati iracheni sotto il comando americano che violentano ragazzi.

George W. Bush vorrebbe che credessimo che questi orrori siano limitati a pochi elementi sadici e che siano accaduti solamente ad Abu Ghraib. Ma già i rapporti fanno emergere orrori simili in un altro centro di detenzione statunitense in Iraq, chiamato Camp Bucca. Secondo questi rapporti, i prigionieri iracheni di Camp Bucca venivano picchiati, umiliati, legati bocconi, e venivano gettati scorpioni sui loro corpi denudati.

Agli occhi del mondo, gli Stati Uniti oggi sono questo. Questo, che non si può liquidare come una anomalia, perché è accaduto più e più volte ad Abu Ghraib e perché adesso veniamo a sapere anche di Camp Bucca. Secondo la stampa inglese, ci sono indagini su altri 30 casi di tortura. L'amministrazione Bush è venuta meno ai suoi doveri per coprire questa ignominia, ponendo il segreto sul rapporto dell'Esercito sulle atrocità. Questo è intenzionalmente contrario alle regole e alla legge. Non si può dichiarare qualcosa segreto solo perché imbarazzante e sgradevole. Era segreto, ma è venuto fuori, e ora il mondo intero ha visto il ventre molle, nero, scabroso della nostra definizione di libertà.

La ricaduta politica tocca la Casa Bianca settimana scorsa. John Murtha, delegato della Pennsylvania alla Camera dei Rappresentanti, il 'falco' più schietto tra i Democratici, si è unito alla leader della minoranza, Nancy Pelosi, nel dichiarare che il conflitto "non si può vincere". Murtha, veterano del Vietnam, ha scosso anche il raduno democratico martedì, affermando che gli Stati Uniti non possono vincere in Iraq.

"Non si può vincere". Bene, ci sono voluti solo quattordici mesi.

Sempre settimana scorsa, le richieste di dimissioni di del Ministro della Difesa Don Rumsfeld hanno preso forza. Nancy Pelosi ha accusato Rumsfield di essere "reticente sull'Iraq", che i soldati americani "lamentano vittime e feriti mentre i contribuenti pagano un prezzo enorme" perché Rumsfeld "ha fatto un pessimo lavoro come Ministro della Difesa". Charlie Rangel, deputato da sempre critico verso l'invasione, ha prospettato l'impeachment di Rumsfeld.

Insomma, il clima è questo. Ma consideriamo il quadro descritto attraverso questa espressione, "Non si può vincere".

Perché, prima di tutto, abbiamo cominciato? Ci sono state fornite diverse ragioni lungo i sedici mesi che ci hanno portato all'invasione.

L'inizio vero e proprio è nel gennaio 2003, quando, nel suo discorso sullo Stato dell'Unione, Bush ha detto che l'Iraq era in possesso di 26.000 litri di antrace, 38.000 litri di botulina tossica, 500 tonnellate tra sarin, iprite e gas nervino, 30.000 proiettili adatti a utilizzare queste soostanze e che stava cercando di ottenere uranio dal Niger per costruire bombe nucleari.

Questa ragione va espunta dalla lista perché, come ormai è dolorosamente chiaro, in Iraq non c'era traccia di armi di questo tipo. L'allarme sul Niger, in particolare, è stato causa di notevole imbarazzo per gli Stati Uniti, perché totalmente farsesco, ed ha condotto ad una indagine federale sulla stessa Casa Bianca a causa di due funzionari dell'amministrazione che, quando l'ambasciatore Joseph Wilson smascherò la menzogna, si sono rivalsi su sua moglie rivelandone l'identità di funzionario CIA sotto copertura .

La successiva ragione nell'elenco è l'11 settembre e l'accusa, spesso ripetuta, che Saddam Hussein doveva essere almeno in parte responsabile. Anche questa ragione è crollata su se stessa - Bush stesso ha dovuto ammettere che Saddam non aveva niente a che fare con le Torri Gemelle.

Con queste due ragioni escluse, la terza diventava per forza "la libertà del popolo iracheno". Ma, ancora una volta, i fatti 'interferiscono'. Gli Stati Uniti non vogliono un Iraq democratico, perché un Iraq democratico diventerebbe rapidamente un Iraq sciita e fondamentalista alleato con l'Iran sciita e fondamentalista - una situazione strategica che nessuno con un briciolo di cervello vorrebbe si verificasse. Paul Bremer, l'amministratore americano dell'Iraq, ha chiarito che a qualunque cosa finisca col somigliare il governo iracheno, non avrà comunque potere di legiferare su nulla, non avrà il controllo della sicurezza dello stato e non avrà potere sulle truppe straniere che occupano il suo territorio. Questa forse è una nuova e bizzarra definizione di democrazia non ancora inserita nei dizionari, ma non è democrazia secondo nessuna definizione di democrazia che si sia mai sentita finora.

Quindi: la ragione per cui la guerra andava fatta a causa delle armi di distruzione di massa è crollata. La ragione per cui la guerra andava fatta a causa delle connessioni con l'11 settembre è crollata. La ragione per cui la guerra andava fatta per portare libertà e democrazia in Iraq è crollata.

Cosa è rimasto? L'ultima ragione rimasta è stata infallibilmente sventolata dai difensori di questa amministrazione e dai sostenitori della guerra: Saddam Hussein era un uomo cattivo, molto cattivo. Ha ucciso il suo stesso popolo. Ha torturato il suo stesso popolo. Gli iracheni stanno meglio senza di lui, ed ecco la giustificazione della guerra.

Adesso è crollata anche l'ultima scusa. Abbiamo ucciso più di 10.000 civili iracheni innocenti durante questa invasione, e ne abbiamo mutilati infiniti altri. Le foto di Abu Ghraib mostrano come noi, proprio come Saddam Hussein, torturiamo e umiliamo il popolo iracheno. In più, lo facciamo nello stesso luogo in cui lo faceva anche Saddam. Le 'stanze dello stupro', spesso reclamizzate da Bush come giustificazione dell'invasione, sono tornate. Siamo noi gli assassini, adesso. Siamo noi i torturatori. Abbiamo raggiunto l'equivalenza morale con il Macellaio di Baghdad.

Questa guerra è perduta. Non intendo solo la guerra dell'Iraq, ma tutta quanta la ridicola "Guerra al Terrore" di George W. Bush.

Dico 'ridicola' perchè questa "Guerra al Terrore" non è mai stata qualcosa che potevamo vincere. Quello che è cominciato l'11 settembre, con il mondo che ci stringeva in un abbraccio affettuoso, è precipitato in una vera e propria orgia di vergogna e ignominia. E questo è accaduto, semplicemente, a causa del totale fallimento della leadership etica al più alto livello.

Abbiamo potuto vedere un esempio perfetto di questo fallimento durante la farsa di venerdì, l'audizione del Senato sul disastro di Abu Ghraib con Don Rumsfeld. Dal suo pulpito di boria ha parlato il senatore Joe Lieberman, che replica come un pappagallo la peggiore propaganda sulla guerra di Bush con infallibile, monotona regolarità. Rispondendo alla domanda se Bush e Rumsfeld dovessero chiedere scusa per Abu Ghraib, Lieberman ha asserito che nessun terrorista ha chiesto scusa per l'11 settembre.

In quelle parole c'era questa idea, spesso spinta dall'amministrazione, che l'11 settembre abbia reso qualunque barbarie, qualunque estremismo, qualunque orrore causato dagli Stati Uniti accettabile, se non desiderabile. C'era l'istituzionalizzazione della vendetta come base fondamentale di una politica. Certo, Abu Ghraib è stato un male, ha ammesso Lieberman. Ma siccome c'è stato l'11 settembre, non c'è più niente da discutere.

É questo il fallimento della "War on Terror". L'11 settembre non esigeva che ci abbassassimo al minimo comun denominatore, né che diventassimo come coloro che disprezziamo e condanniamo. L'11 settembre esigeva che noi fossimo migliori, più nobili, più giusti di coloro che ci hanno portato la morte. L'11 settembre esigeva che fossimo migliori e che mostrassimo al mondo che coloro che ci hanno colpito erano diversi, diversissimi da noi. Questa sarebbe stata la vittoria, senza che si sparasse un colpo.

I nostri governanti ci hanno portato, invece, nella direzione diametralmente opposta.

Nessuna delle ragioni di andare in Iraq è riuscita a mantenere neppure una parvenza di credibilità. Tutta la propaganda che Osama bin Laden ha diffuso nel mondo islamico, sulle ragioni per cui gli Stati Uniti dovrebbero essere colpiti e distrutti, ha guadagnato credibilità da quello che è accaduto in Iraq. La vittoria della "Guerra al Terrore", una guerra di propaganda sin dal suo principio, è stata offerta ai responsabili dell'11 settembre dalle mani di George W. Bush e da quelle di coloro che hanno avallato la sua inconcepibile stupidità.

William Rivers Pitt*
Fonte:www.socialpress.it
10.05.04

*William Rivers Pitt scrive per il New York Times ed è autore di libri tradotti in diversi paesi (in Italia, "Guerra all'Iraq", Fazi , 2003). É redattore e editorialista per truthout.org, da cui è tratto questo articolo. La traduzione è a cura di socialpress.