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    Predefinito "Era divertente maltrattare i prigionieri iracheni"

    Parla Lynndie England, la soldatessa americana fotografata
    nel carcere di Abu Ghraib. "Non ho fatto nulla di estremo"
    "Era divertente maltrattare
    i prigionieri iracheni"


    Lynndie England

    WASHINGTON - Era "divertente" umiliare i prigionieri e scattare le foto mentre venivano torturati. Lynndie England, la soldatessa americana fotografata mentre seviziava i prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, spiega così quelle foto che hanno fatto il giro del mondo e provocato una bufera politica per l'amministrazione Bush.

    In una serie di dichiarazioni (fatte il 5 maggio scorso e pubblicate oggi dal New York Times), la England, deferita alla Corte marziale e che adesso si trova in stato di libertà vigilata a Fort Bragg, spiega che quei maltrattamenti facevano parte della prassi e che talvolta era divertente metterli in atto. "Ho camminato su alcuni detenuti, ma non ho fatto nulla di estremo" avrebbe detto al soldatessa La England che deve rispondere di quattro capi di imputazione, tra cui aggressioni e maltrattamenti reiterati contro detenuti iracheni.

    La donna, 21 anni, che aspetta un bambino concepito durante un rapporto con un suo commilitone, ha ammesso di aver stretto una cinghia al collo di un detenuto e di averlo costretto a strisciare, o correre con altri, per "circa 4-6 ore". Ha aggiunto che un altro soldato, per far paura ai prigionieri incappucciati, gli lanciava sulla testa un pallone da football, mentre un altro gli dava dei calci fino a provocargli delle ferite sanguinanti.

    Nello stesso tempo il Washington Post rivela il piano di un ufficiale dei servizi per far parlare un siriano sospettato di conoscere un traffico denaro, di armi e guerriglieri stranieri. Il piano del colonnello Thomas Pappas, proposto nel novembre scorso al generale Sanchez, per far parlare un siriano di 31 anni affiliato alla Jihad, detenuto nel carcere di Abu Ghraib, non era molto diverso dalle altre ormai note sevizie. Prima bisognava gettare, davanti a lui, sedie e tavolini nella sua cella, "per invadere il suo spazio personale", poi bisognava trasferirlo, incappucciato, in una cella isolata attraverso l'incessante abbaiare di cani da guardia, quindi spogliarlo e perquisirlo e infine impedirgli di dormire per tre giorni mediante interrogatori, latrati e musica a tutto volume. Il Washington Post scrive di ignorare se il gen.
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    Sanchez abbia approvato il piano di Pappas.


    (16 maggio 2004)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Predefinito

    La testimonianza dei due cronisti di Al Jazeera
    imprigionati per due mesi nel carcere degli orrori
    "Noi, nelle gabbie di Abu Ghraib"
    i primi a denunciare gli abusi
    dal nostro inviato RICCARDO STAGLIANÒ


    DOHA (Qatar) - Adesso non li chiamano più i ragazzi che gridarono "al lupo". Ma è una magra soddisfazione, che non cancella quello che hanno passato nel carcere di Abu Ghraib. E che nessuno, sino a pochi mesi fa, avrebbe osato credere. Salah Hassan e Suhaib Badr al Baz sono il cameraman e il cronista di Al Jazeera che per primi hanno denunciato in tv gli orrori della prigione di Bagdad. Non come frutto di un'inchiesta giornalistica, però, ma di un'agghiacciante esperienza diretta.

    Hassan, trentacinquenne padre di due bambini, fu preso per primo. Era il 3 novembre quando fu mandato sul luogo di un attentato contro un convoglio americano a Dialah, vicino a Baquba. Stava intervistando dei testimoni quando i soldati statunitensi lo arrestarono accusandolo di aver saputo in anticipo dell'assalto: "Sei arrivato troppo presto, stavi da queste parti aspettando l'esplosione" gli ripetevano. Da lì lo portarono alla base militare nei pressi dell'aeroporto della capitale e, dopo due giorni segregato in un bagno, lo trasferirono a Tikrit e quindi ad Abu Ghraib.

    "Happy birthday!" fu l'ironico coretto che agenti della polizia militare gli urlarono nelle orecchie, dal cappuccio di plastica che poi sarebbe diventato un triste marchio di fabbrica del luogo. "Mi spogliarono - racconta al telefono da Bagdad, grazie alla traduzione dall'arabo di Jihad Ballout, il portavoce del canale satellitare - e si rivolgevano a me chiamandomi "Al Jazeera" o "puttana". Mi costrinsero a stare in quelle condizioni, legato, per undici ore di seguito, sino a quando caddi esausto. Per rimettermi in piedi, i soldati mi presero a calci".
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    L'indomani gli fecero indossare una tuta rossa, impregnata dell'odore di un vomito recente, e cominciarono a interrogarlo, insistendo sulla convinzione che fosse in combutta con i terroristi. Fu messo in isolamento, e tutti i giorni la trafila veniva ripetuta: "Confessa!" gli intimavano, e lui niente. Tra i ricordi più strazianti che continuano ad affollare i suoi incubi c'è una vecchia che piangeva in continuazione e una ragazzina che urlava da mattina a sera, sin quando le guardie la facevano uscire dalla cella per sfogarsi un po'. Grazie all'avvocato di Al Jazeera fu processato e scagionato per mancanza di prove. Il 18 dicembre, un mese e mezzo dopo la sua cattura, fu scaricato in una strada alla periferia di Bagdad. Aveva ancora addosso la stessa tuta rossa.

    Il collega Badr al Baz fu fermato dopo. Il 18 novembre a Samarra, dove si trovava per lavoro. "Gli americani non volevano credere che fossi lì per servizio", spiega oggi: "Mi dicevano "sei complice dei terroristi: raccontaci quello che sai", e giù botte perché il messaggio fosse più chiaro". Per lui il tragitto nell'ex galera di Saddam Hussein fu diretto. Analoga accoglienza: niente abiti, niente sonno, posture innaturali per fiaccare ogni resistenza, calci e cazzotti in quantità. Dal quartiere generale della tv a Doha denunciavano i fatti, facevano pressioni diplomatiche: "Abbiamo dato la notizia più volte - assicura il direttore Ahmed Sheikh - ma non avevamo le immagini".

    Che sarebbero arrivate dopo, facendo scoppiare lo scandalo. "Senza immagini non avrebbero mai creduto a un'accusa del genere - constata il direttore - tantomeno avrebbero creduto a noi, indicati come quelli che vogliono mettere in cattiva luce l'America, quando non fiancheggiatori di Al Qaeda". La guerra con il Pentagono, d'altronde, non era solo di parole.

    Dalla "fine" delle operazioni militari ben 21 reporter del canale qatariota sono stati fermati e rilasciati. Le sue sedi di Bagdad e Kabul sono state colpite da missili statunitensi, costando la vita a un dipendente: "Per errore" hanno assicurato i militari. Ma il ministro della Difesa Donald Rumsfeld è stato assolutamente intenzionale ogni volta che ha detto che "quello di Al Jazeera non è giornalismo ma incitamento alla violenza". Un'accusa pesante, ancora da provare. A differenza di quella, pur tardivamente acclarata, delle torture di Abu Ghraib.



    (16 maggio 2004)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 

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