Geoffrey Miller, il signore della tortura
Modello Guantanamo esportato in Iraq dal generale favorito dal Pentagono: nominato nuovo direttore del carcere di Abu Ghraib, dopo scandalo delle torture, di cui è stato uno degli artefici
GIULIANA SGRENA
Quello che potrà fare il generale Geoffrey Miller, nuovo capo del carcere di Abu Ghraib e già comandante in capo della Task force di Guantanamo, sarà di evitare che le torture vengano fotografate, scriveva un giornale britannico. Non a caso. Quello che ha fatto la differenza tra Guantanamo e Abu Ghraib è stato solo l'esibizionismo (casuale?) dei torturatori. Per il resto le terrificanti immagini delle torture realizzate nelle prigioni irachene sono solo una versione del modello Guantanamo teorizzato dal comandante del campo di detenzione Usa a Cuba. Su Guantanamo, «il paradiso della tortura», sotto il rigido controllo, per 18 mesi, del generale Miller i riflettori sono rimasti rigorosamente spenti e la censura impenetrabile. Nessuna ispezione delle organizzazioni umanitarie, nessuna visita sanitaria di medici esterni, nessun contatto con le famiglie e, soprattutto, nessuna assistenza di avvocati. Del resto nessuna accusa precisa è stata formulata nei confronti dei detenuti - circa 600 - se non il generico sospetto di atti di «terrorismo» o contatti con «terroristi». Le uniche informazioni sul trattamento disumano sono arrivate attraverso le testimonianze dei detenuti rilasciati perché ritenuti non più pericolosi e/o spremuti abbastanza dall'intelligence. Le torture riferite sono le stesse esportate - in versione digitalizzata - in Iraq: detenuti incappucciati, assalti, umiliazioni sessuali, finte esecuzioni. Ad applicarle i «tiger team» - evidentemente Miller ha voluto sfidare la sorte resuscitando il passato vietnamita - formati da agenti dell'intelligence e traduttori. Per Miller le 219 «tigri» da lui addestrate sono «magical people» (gente magica) di cui è «molto orgoglioso». L'unico obbligo del team è quello di indicare quale delle 50 tecniche di interrogatorio previste intende utilizzare. Si tratta del fantomatico Army field manual 34-52, «tecniche coercitive» che possono essere usate contro «nemici detenuti», una sorta di codice segreto, approvato caso per caso direttamente dal segretario alla difesa, Donald Rumsfeld. Il grande merito del generale texano pluridecorato, Geoffrey Miller che in oltre trent'anni di carriera è passato dalla Corea del sud a Guantanamo e poi in Iraq, è proprio quello di saper interpretare i voleri, anche inconfessabili, di Pentagono e Casa bianca. E di difenderli, senza scrupoli a Guantanamo e senza pudore a Baghdad, dove nei giorni scorsi ha presentato le scuse per gli orrendi maltrattamenti inflitti agli iracheni di cui è l'artefice.

Il generale Miller è tanto stimato dal Pentagono che aveva pensato a lui quando in Iraq, lo scorso anno, la resistenza cominciava a mostrarsi più abile e dura del previsto, Saddam continuava a latitare e l'intelligence non riusciva a strappare informazioni ai detenuti. Il modello Gitmo (in gergo, Guantanamo) era quello che ci voleva, occorreva «Gitmo-izzare» Abu Ghraib. «Eravamo enormemente fieri di quanto avevamo fatto a Guantanamo», ripete ancora oggi il generale. Così, la scorsa estate, Geoffrey Miller veniva inviato con un suo team (trenta uomini) a Baghdad. Obiettivo? Come scriveva il Washington Post, dare «suggerimenti per rendere gli interrogatori più efficienti ed effettivi». E soprattutto, raccomandava Miller, i centri di detenzione in Iraq devono servire come «luogo adatto per interrogatori» e le guardie carcerarie devono «creare la condizioni per un valido sfruttamento dei detenuti». Evidentemente le torture facevano parte di questo sistema di sfruttamento. Sta di fatto che i casi più raccapriccianti di tortura si sono registrati proprio dopo la «Gitmo-izzazione» di Abu Ghraib. Su «suggerimento» del generale Miller il controllo del carcere passò direttamente nelle mani dei servizi segreti militari ai quali veniva subordinata anche la polizia militare, con un'ordinanza del generale Ricardo Sanchez, capo delle forze della coalizione in Iraq, del 19 novembre 2003. Il generale Janis Karpinski, direttrice del carcere di Abu Ghraib al tempo delle torture, nella sua deposizione agli inquirenti dell'esercito sostiene - forse per non passare per aguzzina - di aver tentato inutilmente di opporre resistenza quando le fu chiesto, nel settembre del 2003, di passare la gestione della prigione all'intelligence militare e di autorizzare l'uso della forza fino alla morte del detenuto.

La continuità con Guantanamo si riscontra anche negli uomini. Uno di questi è Torin Nelson, agente dell'intelligence militare a Guantanamo, prima di trasferirsi a Abu Ghraib come «contractor» privato per la Caci international, una società della Virginia. Nelson, in una intervista al quotidiano britannico The Guardian, non risparmia critiche sul trattamento dei prigionieri né a Guantanamo né a Abu Ghraib. Il «mercenario» di turno, innanzitutto, attribuisce gli abusi nel carcere di Abu Ghraib ad una mancanza di controllo da parte dell'intelligence militare Usa e all'eccessiva arbitrarietà lasciata alle società private che, ansiose di far fronte alla domanda, spediscono «cuochi e autisti di camion» a fare gli interrogatori. Sottolinea anche il fatto che «molti dei detenuti nel carcere non hanno commesso nessuna azione contro la coalizione». C'è chi parla del 70-90% dei casi. Nelson, che a Guantanamo si occupava della revisione dei casi dei detenuti da liberare, sostiene che sono gli stessi problemi della base cubana, dove, stima che il «30-40%» dei detenuti non hanno avuto nulla a che vedere con il terrorismo. A sorprendere tuttavia non è tanto l'abuso della tortura, tecnica purtroppo usata in tutte le guerre, già prevista nel manuale della Cia del 1983, a sua volta tratto dal «manuale Kubark» del 1963, altra reminiscenza del Vietnam. Sorprende invece la scelta paradossale della Casa bianca di inviare a risanare il carcere di Abu Ghraib, dopo lo scandalo suscitato dalle immagini raccapriccianti delle torture, proprio il suo principale artefice, quel generale Geoffrey Miller, esportatore del modello di Guantanamo, dove bastava un suo sospetto per mandare qualcuno in galera come era successo con il cappellano musulmano James Yee, mai piaciuto al comandante della base.

E gli iracheni si chiedono: «quelli che sono venuti per liberarci di Saddam, non sono peggio di Saddam?»