A un anno dal saggio «Dopo l'impero», Emmanuel Todd torna ad analizzare la decomposizione del sistema americano con «L'illusione economica». Un incontro con il sociologo e demografo francese che spiega la sua «profezia» del crollo a breve termine dell'egemonia americana
«Tra dieci o vent'anni nessuno parlerà più di impero americano». Emmanuel Todd, sociologo e demografo francese formatosi all'università di Cambridge, ha il tono fermo e sicuro. Già assurto agli onori delle cronache alla fine degli anni Settanta per aver previsto con grande anticipo e in splendida solitudine il dissolvimento dell'Unione sovietica, ritenta il colpaccio e predice la fine a breve termine della superpotenza unica. La sua tesi, espressa in un libro uscito l'anno scorso (Dopo l'impero, Marco Tropea, 13 euro), riceve oggi una nuova sistematizzazione con la pubblicazione dell'edizione riveduta e corretta di un saggio che lo studioso aveva scritto nel 1998 (L'illusione economica, Marco Tropea, 13 euro), in cui tracciava le linee teoriche del declino dell'egemonia degli Stati uniti. Secondo il suo schema, quella statunitense è una superpotenza dai piedi argilla, drogata da un deficit commerciale senza precedenti e da un drammatico divario tra un consumo ipertrofico e una produzione a dir poco stitica. Insostenibile dal punto di vista economico, questo sistema può essere tenuto in piedi solo dalla conservazione di una supremazia politica che passa per una sorta di «strategia della tensione planetaria»: Washington cerca cioè di persuadere i suoi principali alleati - l'Europa e il Giappone - della necessità del suo primato militare per arginare le mire distruttive di pericolosi e infidi stati canaglia. Si tratta di una linea d'azione che lo studioso definisce «micro-militarismo teatrale», in base alla quale gli Stati uniti mirano a mantenere l'egemonia schiacciando avversari insignificanti. È proprio da questo aspetto che partiamo per una lunga conversazione con Todd nel salotto del suo appartamento parigino.

L'occupazione dell'Iraq sta costando cara agli americani, sia in termini di vite umane che finanziari. Più che di un intervento di facciata sembra il caso di parlare di un'operazione bellica in grande stile. Come si concilia questo scenario con la sua teoria? La guerra in Iraq sarebbe quindi una mossa irrazionale da parte di una superpotenza in crisi? Nella decisione di intervenire non avranno pesato di più ragioni di carattere geopolitico o strategico?

In generale respingo quelle visioni che sopravvalutano la potenza americana individuando un disegno coerente e occulto in tutte le sue mosse. Interpretazioni di questo tipo ci impediscono di penetrare il mistero della politica estera statunitense, la cui soluzione va ricercata dal lato della debolezza, non da quello della potenza. Credo che la vicenda irachena segni una svolta semplicemente perché si è passati da una strategia della tensione diplomatica a una pratica reale della guerra. Si tratta di una fase avanzata, che mostra il sempre maggiore spaesamento di una potenza in affanno. E che, a mio avviso, non farà che accelerare il crollo finale. Questo è il grande paradosso: Bush e i neo-conservatori, che sono coloro che più sfacciatamente hanno portato avanti una strategia imperialista, passeranno alla storia come i becchini dell'impero americano.

Ritiene davvero il crollo finale così vicino?

Mi sento di dire che la tendenza è già iniziata. Basta guardare le continue sconfitte diplomatiche americane: la formazione dell'asse franco-tedesco, il no turco, il ritiro degli spagnoli. Tutti questi fallimenti sono stati possibili perché Washington non ha i mezzi finanziari per punire i recalcitranti. Il che ci mostra una grande verità, raramente messa in luce: non sono gli altri a dipendere dagli Stati uniti, ma piuttosto il contrario. Venuta meno la supremazia politica, la grande bolla americana si sgonfierà rapidamente.

Quali sono gli elementi in base ai quali giudica ineluttabile la fine dell'egemonia americana?

L'analisi del declino dell'impero va condotta su due piani diversi, strettamente interconnessi. Da una parte, dal punto di vista economico, gli Stati uniti non hanno futuro: Washington ha un disavanzo commerciale di diversi miliardi di dollari con quasi tutti i paesi importanti del mondo. Se rapportiamo tale deficit alla produzione industriale, vediamo che gli Usa dipendono per il 10 per cento del loro consumo industriale da beni la cui importazione non è coperta dall'esportazione di prodotti nazionali. Si tratta di un processo rapidissimo, se si pensa che dieci anni fa questo deficit era ancora del 5 per cento e che, soprattutto, alla vigilia della depressione del 1929 negli Stati uniti era concentrata quasi la metà della produzione manifatturiera mondiale. A questo calo produttivo corrisponde poi un degrado culturale: il livello di istruzione della popolazione americana è oggi in caduta libera. Qualche giorno fa sul New York Times c'era un articolo che riportava con inquietudine la notizia che gli americani erano stati superati dagli europei in termini di pubblicazioni scientifiche. Quando si parla di pubblicazioni, si fa riferimento a ricercatori affermati. È solo la punta visibile di un iceberg, il segno evidente di un processo cominciato diversi anni prima.

A quando si può far risalire l'inizio del riflusso? Dalle sue parole, sembra di capire che il crollo è cominciato in concomitanza con la fine della guerra fredda. È come se la dissoluzione dell'Unione sovietica dovesse necessariamente determinare quella dell'altro grande impero...

In effetti i due sistemi si sono supportati e indeboliti a vicenda. L'esistenza di un'ideologia universalista come quella comunista ha spinto i dirigenti occidentali a portare avanti un modello di capitalismo controllato, in cui le disuguaglianze venivano limitate. Una tendenza che, con il venir meno dell'Unione sovietica, è stata bloccata. Inoltre, la vittoria della guerra fredda ha generato un'euforia incredibile tra gli americani e interrotto ogni riflessione critica sulle debolezze del loro sistema. In un certo senso potremmo dire che il crollo dell'Urss ha dato il colpo di grazia agli Stati uniti: i dirigenti americani hanno vissuto dieci anni nell'illusione della superpotenza e non hanno minimamente pensato a ristrutturare il proprio apparato economico ed educativo. In questo contesto, non ci si può sorprendere che i responsabili politici comincino a comportarsi in modo irrazionale; si rifugiano nella religione e fanno errori di valutazione giganteschi.

L'attuale fase di smarrimento è frutto di scelte sbagliate di dirigenti incompetenti o il segno di una deriva generalizzata della società statunitense?

Non credo ci siano dubbi che Bush e i suoi consiglieri neo-conservatori abbiano un problema di carattere intellettuale e psicologico. Ma ciò che colpisce di più è la passività della popolazione americana; la facilità con cui essa si fa manipolare dai suoi politici: con pochissime eccezioni, i giornalisti e gli accademici hanno tutti appoggiato la guerra in Iraq, sposando la tesi inconsistente delle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein. Questa facilità di manipolazione, che è legata al degrado culturale cui accennavo prima, ha fornito un senso di onnipotenza all'amministrazione, che ha creduto di poter influenzare allo stesso modo l'opinione pubblica e le élite dei paesi alleati. A questo proposito, mi pare importante sottolineare che tutti i fallimenti diplomatici americani sono legati a progressi democratici: in Germania il cancelliere Schröder è stato riletto per la sua opposizione alla guerra in Iraq, in Turchia è stato il parlamento a esprimersi contro il passaggio delle truppe Usa sul territorio, in Spagna è di nuovo un voto popolare a far cadere il governo filo-americano del Partido Popular. Siamo di fronte a una situazione paradossale: da una parte ci sono gli americani che pretendono di portare la democrazia in tutto il mondo a suon di bombe; dall'altra popoli interi che per via democratica mettono in scacco questa politica.

L'ultimo grande smacco è venuto dalla Spagna. La decisione del nuovo premier José Luis Rodriguez Zapatero di ritirare le truppe dall'Iraq potrebbe avere un effetto domino devastante per gli americani...

Credo che l'importanza delle elezioni spagnole non sia stata giustamente sottolineata. La reazione agli attentati dell'11 marzo a Madrid è stata straordinaria: invece di piombare nel razzismo anti-arabo, gli spagnoli hanno deciso di punire le menzogne del loro governo. Con questo voto, gli elettori iberici hanno rotto il ciclo della violenza. Hanno avuto una reazione opposta a quella degli americani all'indomani dell'11 settembre 2001.

Se davvero la superpotenza unica è destinata a declinare, quale fisionomia assumerà in futuro il paesaggio geopolitico mondiale?

Oggi gli Stati uniti rappresentano un elemento di profonda instabilità per il mondo intero. Sono nella situazione di un equilibrista che non sa come mantenere il proprio equilibrio. Ma se guardiamo al resto del pianeta, osserviamo un movimento di stabilizzazione generale: l'Europa, la Cina, il Giappone sono perfettamente stabili, la Russia sta ritrovando un suo ruolo. L'unica incognita per il futuro è proprio l'America: bisogna vedere se Washington accetterà pacificamente la fine della sua egemonia o continuerà ad alimentare l'incertezza e i conflitti.

Non ritiene possibile un raddrizzamento di rotta da parte degli Usa? Una presa di coscienza della propria dipendenza economica e un rilancio controllato della produzione per evitare la catastrofe?

A livello intellettuale questo dibattito ha già avuto luogo. Negli anni Ottanta, prima dell'euforia post-guerra fredda, si parlava della riorganizzazione dell'apparato industriale. In termini tecnici, la cosa è fattibile. Ma in termini pratici non è facile: una tale inversione di rotta comporta una gigantesca ridistribuzione interna delle ricchezze. Tanto per fare un esempio, i salari degli ingegneri aumenterebbero sensibilmente, mentre quelli degli avvocati internazionali subirebbero una profonda inflessione. Il problema è che le classi più elevate della società americana beneficiano in modo così massiccio del sistema economico internazionalizzato, globalizzato e liberale che difficilmente accetteranno un tale cambiamento.

Stefano Liberti
Fonte.Il manifesto 19.05.04