Iraq: nove su dieci non vogliono gli Usa
di Siegmund Ginzberg
Ma che cosa ne pensano gli iracheni? Ne sappiamo pochissimo. Silvio Berlusconi non sembra interessarsi granché al problema. A qualcuno però è venuto in mente di chiederglielo. Ne viene fuori che le cose stanno in modo tutt’altro che semplice e roseo come ci si vorrebbe dare a bere.
A un sondaggio realizzato da un centro studi tanto attendibile che le domande gli erano state preparate dalla stessa Autorità Usa di occupazione, nove iracheni su dieci rispondono che ora considerano le truppe della coalizione come occupanti, non come liberatori o truppe di pace, non vedono l’ora che se ne vadano. Ancora sei mesi fa, solo due su dieci volevano che se ne andassero.
Il sondaggio, che sarà pubblicato la prossima settimana, e il cui risultato agghiacciante è stato anticipato ieri dal britannico Financial Times, è stato condotto dal Center for Research and Strategic Studies di Baghdad, che da un anno opera su commissione degli occupanti. Su un campione piccolo ma rappresentativo dell’intera società irachena, di 1600 persone, comprendente arabi sciiti, sunniti e curdi, nonché di altri strati, in tutte le principali regioni del Paese. Le domande erano state discusse e suggerite dalla Cpa. L’88 per cento degli intervistati risponde che considera le truppe Usa, e degli altri paesi impegnati ora in Iraq al loro fianco, come occupanti, di cui liberarsi al più presto. Non li definisce più né «liberatori», né truppe impegnate in «peacekeeping». Vuole solo che se ne vadano. Il 57 per cento vuole che se ne vadano «immediatamente» (sei mesi fa erano meno del 17 per cento). Anzi insiste esplicitamente di ritenere questa «la questione più urgente di tutte», molto più urgente di qualsiasi questione riguardante la «transizione», il passaggio dei poteri, o lo status formale del nuovo governo iracheno. Lo scorso ottobre, in un sondaggio simile, solo il 20 per cento li considerava «occupanti». Molti sono gli stessi che all’inizio tendevano ad accogliere le truppe straniere come «liberatori». Sono cambiati, anzi si sono rovesciati a valanga gli umori. Non sono affatto «nostalgici» di Saddam Hussein: quattro su cinque ritiene che questi si sia macchiato di crimini orribili, uccisioni di massa e torture. Ma per prima cosa vogliono ugualmente che chi li ha “liberati” se ne vada. Vi vedono la condizione principale perché si possa ripristinare la loro «sicurezza».
Un altro risultato inquietante è che il sondaggio rivela una crescente popolarità degli estremisti. Un anno fa il “ribelle” Moqtada Sadr non era nessuno, al massimo un capofazione a molti gradi di distanza da quello di ayatollah e di figura politicamente credibile. Viene fuori ora che un anno di occupazione ne ha fatto il personaggio più popolare in Iraq dopo l’ayatollah Ali Sistani, il capo spirituale della maggioranza sciita. Il 32 per cento risponde di sostenere «fortemente» Sadr, un ulteriore 36 per cento di sostenerlo «in qualche misura». Sei mesi fa non erano più del 2-3 per cento. «Gli iracheni mettono a confronto le promesse degli americani con le loro azioni e i risultati, e si è creato un gap di credibilità», commenta il direttore del Centro, Saadun Duleimi. «E in questo clima gli scontri hanno dato credibilità persino a Sadr, perché viene visto come l’unico che si sia opposto alle forze di occupazione», aggiunge. Un particolare che rende questo sondaggio ancora più significativo è che è stato condotto prima, non dopo che venisse fuori lo scandalo delle torture ad Abu Ghraib. Non è quindi una risposta emotiva a qualcosa che poteva turbare. É apparentemente la reazione a quello che vivono sulla propria pelle nella realtà di tutti i giorni. Anzi, c’è chi di fronte allo strano “silenzio” su come siano state accolte in Iraq quelle foto che hanno fatto inorridire l’America e il resto del mondo, ha ipotizza che sia peggio di un scoppio di indignazione, gli abbiano rivelato cose che sapevano benissimo. «L’assenza di sorpresa è un sintomo ulteriore del malcontento popolare», ha osservato il Los Angeles Times.
Il clima rivelato da questo sondaggio viene confermato da tutti i resoconti degli inviati dei giornali occidentali che si preoccupano di stare a sentire cosa dice la gente. «Se Saddam era un’influenza, l’occupazione americana è come il cancro», gli dice qualcuno. Stati d’animo di una “minoranza”? Bisognerebbe stare a sentire la “maggioranza” che non parla? Non bastano i sondaggi per indicare quella che è la volontà di un popolo? Certamente. La tragedia è che nessuno si è preoccupato di sapere cosa ne pensino i 25 milioni di iracheni. E il risultato è che in realtà non ne sappiamo molto. L’unico modo per sapere come la pensano davvero sarebbe farli votare. Era quello su cui insisteva il vecchio “moderato” Sistani. Ma gli hanno detto di no, perché li preoccupava la complicazione che dalle urne potesse uscire una maggioranza sciita. É passata da noi quasi inosservata la notizia che Sistani ha chiesto che le truppe americane lascino i luoghi santi. Si vuole costringerlo a dichiarare anche lui una guerra santa perché lascino subito tutto il Paese? «Non penso proprio che in Iraq ci sarà un governo religioso sciita che l’Iran possa dominare», ha ripetuto ancora ieri Bush. Mostrando che almeno lui è stato sfiorato dal problema, concludendo che le elezioni era comunque meglio farle alla fine, se mai si faranno. Qualcuno degli alleati aveva idee diverse? Tony Blair ieri ha fatto sapere che «non parlerà mai pubblicamente delle divergenze con Washington», perché «danneggerebbero il morale delle truppe», confermando così che ci sono. Si è guardato bene dal farlo Berlusconi, dicendo invece «siamo d’accordo su tutto».
Pensa davvero che tutto si possa risolvere con un'agenda stesa a tavolino, di cui a Baghdad nessuno, nemmeno i responsabili dell’occupazione hanno la minima idea di come possa realizzarsi, sperando che Adnan Pachachi, che pure è un leader rispettabile, accetti l’incarico che gli è stato proposto, per offrilo al capo della Dawa sciita Ibrahim Jaahari se quello dice di no? O liberandosi dell’uomo che era finora il favorito del Pentagono, Ahmad Chalabi, sia pure in modo un po’ meno sanguinario di come si erano liberati di un loro uomo a Saigon dopo l’altro? Eppure ci sono «addetti ai lavori» che avvertono che il duro è tutto da venire. «La mia previsione è che la situazione diverrà molto più violenta di quanto sia oggi, perché non è chiaro che cosa succederà col governo provvisorio e le elezioni» ha spiegato l’altro giorno al Senato Usa il responsabile delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan, il generale John Abizaid. Il Parlamento italiano non meritava altrettanto rispetto?