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GULAG. Il sistema dei lager in URSS.
Brani tratti da: "L'Occidente e il GULag" di Marcello Flores. Giugno 2000.

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Il contesto internazionale degli anni Trenta sembrava indurre a pregiudizi di opposta natura ma ugualmente rigidi e radicati. Rammentando quegli anni un altro famoso "rinnegato" del comunismo, Arthur Koestler, sosteneva che in quell'epoca "la conversione al comunismo non era una moda o una follia, era l'espressione sincera e spontanea di un ottimismo portato alla disperazione; una fallita rivoluzione dello spirito, un mancato Rinascimento, un falso risveglio della Storia. Essere attratti dalla nuova fede era, ancor oggi lo credo, un encomiabile errore. Sbagliavamo per ragioni giuste; e sento ancora che con poche eccezioni (ho già fatto i nomi di Bertrand Russell e H.G. Wells), coloro che schernirono la rivoluzione russa sin dall'inizio lo fecero per ragioni meno onorevoli del nostro errore. C'è un abisso tra un amante deluso e chi è incapace di amare".

Se fin dai giorni della rivoluzione d'ottobre i giudizi sull'impronta data alla storia russa dalla vittoria bolscevica erano radicalmente contrastanti, è soprattutto negli anni seguenti che la dicotomia tra amici e nemici dell'URSS, tra sostenitori e avversari del comunismo diventa man mano più aspra e inesorabile, travolgendo che rifiutava di guardare in bianco e nero una realtà complessa, contraddittoria e non sempre facile da interpretare. Il "mito dell'URSS" s'intreccia nei primi anni con quello della rivoluzione mondiale, ma è soltanto negli anni Trenta, quando in esso confluiscono il mito di un Russia moderna e produttiva proiettata nel futuro attraverso i piani quinquennali e quello di uno stato socialista attorno a cui fa perno l'alleanza antifascista contro il militarismo espansionista della Germania hitleriana e poi dei suoi alleati Italia e Giappone, che esso diventa maggioritariamente diffuso e praticamente inattaccabile.

È in questo periodo che anche forze da sempre ostili al comunismo bolscevico cambiano atteggiamento, convinte che i successi quantitativi della pianificazione sovietica possano insegnare qualcosa a un Occidente attanagliato dalla più grave depressione economica conosciuta in epoca capitalista. È proprio alla fine del 1933 ad esempio, che gli Stati Uniti, ultimi fra le grandi potenze, riconoscono diplomaticamente l'Unione Sovietica, mentre il mondo degli affari e la stampa liberale inneggiano ai successi delI'URSS e si mostrano fiduciosi su una lenta ma sicura evoluzione democratica del paese. Sintomatica di questo nuovo clima sarà la reazione di Fred Beal, un operaio americano comunista che si era rifugiato negli anni Venti in URSS per sfuggire alla condanna inflittagli dopo aver guidato uno sciopero. Disilluso dalla realtà del "paradiso operaio" per aver vissuto in diverse fabbriche russe lo sfruttamento più duro e la completa mancanza di diritti e di democrazia, Beal ritorna negli USA proprio all'indomani del riconoscimento diplomatico, pronto ad affrontare la giustizia del suo paese ma anche a denunciare l'inganno in cui sono caduti e permangono centinaia di migliaia di operai che guardano con simpatia all'URSS: "Guidato dal 'Times', un coro di elogi per il regime comunista risuonava per tutto il paese. Mi trovai così, come spirito e come atteggiamento, del tutto fuori fase rispetto ai miei connazionali. [...] Comunisti, simpatizzanti sovietici e anche democratici di vecchia scuola non volevano ascoltare nulla sul paradiso operaio. Preferivano il quadro offertogli dai propagandisti, si adattava assai meglio ai loro ideali e alle loro illusioni."

Il momento in cui Gide, di ritorno dall'URSS, muove le sue prime critiche ancora animate da simpatia e comprensione per il sistema sovietico - il che non impedirà allo scrittore di venire immediatamente annoverato nella schiera dei "traditori" e dei "rinnegati" - le illusioni suscitate dal dibattito sulla nuova Costituzione, che entrerà in vigore proprio nel 1936, sono state rapidamente dimenticate dall'incalzare del grande terrore, che celebra in quell'anno il primo dei famigerati processi di Mosca, quello contro Zinov'ev, Kamenev e altri esponenti della vecchia guardia bolscevica. Per quanto siano in molti, a partire dall'ambasciatore americano a Mosca, a ritenere legali i procedimenti penali e del tutto verosimili le accuse mosse agli imputati e le confessioni estorte nei modi più diversi, la realtà della repressione in atto in Unione Sovietica alla fine degli anni Trenta è ormai di dominio pubblico. Eppure l'opinione pubblica occidentale è ancora restia ad accettare come vere le notizie sempre più frequenti che giungono dalI'URSS sull'ampiezza della repressione e sulle strutture e istituzioni in cui essa avviene. Per molti è ancora vivo il ricordo della testimonianza dello scrittore Maksim Gor'kij, che alcuni anni prima aveva visitato il lager delle Solovki e aveva difeso la sua utilità sociale e la sua capacità rieducativa.

Il viaggio di Gor'kij alle Solovki, che si svolse nel giugno 1929, ebbe una vasta eco in Russia e all'estero. Le stesse testimonianze adesso disponibili di alcuni tra i condannati in quel lager dimostrano quanto fosse atteso l'arrivo di quel romanziere famoso, considerato da molti prigionieri un uomo onesto e sincero malgrado la sua fedeltà al regime e a Stalin. Gor'kij deluse completamente le speranze che aveva suscitato benché fosse stato avvicinato e informato da più detenuti delle reali condizioni di vita nel campo. Le sue impressioni di viaggio apparvero sulla rivista "Le Nostre Conquiste": accanto al ricordo della mite giornata di sole, delle aiuole fiorite attorno alle caserme, dalle cui grandi finestre entrava aria e sole, lo "scrittore proletario" si la sciava andare a lodi sperticate per la politica giudiziaria del regime e per l'opera di rieducazione che aveva visto alla prova dei fatti, giungendo alla conclusione che lager come quelli delle Solovki erano "indispensabili".

Le dichiarazioni dello scrittore russo vennero fatte proprie dalla Croce rossa ed ebbero risonanza internazionale. Le immagini di Gor'kij sorridente in mezzo agli agenti dell'OGPU, o intento a osservare il lavoro duro ma umano di gruppi di prigionieri, fecero il giro del mondo e contribuirono a smentire le voci secondo cui i1i nelle Solovki si sarebbero compiute atrocità e vessazioni inumane contro i detenuti. La visita di Gor'kij fu un atto di propaganda efficace e riuscita, che s'intrecciò con le immagini relative al varo del primo piano quinquennale e alla "modernizzazione" delle campagne, solo da pochi osservatori all'epoca individuata come quella tragedia sociale che la collettivizzazione rappresentò nella realtà, e non soltanto per il mondo contadino.

Nelle Solovki, isolette del Mar Bianco a meno di duecento chilometri dal circolo polare, sede per secoli di un monastero prospero e potente, era stato creato nel 1920 un "lager di lavori forzati per i prigionieri della guerra civile" che nel 1923 avrebbe dato luogo al complesso dello SLON (Lager a destinazione speciale delle Solovki). Qui, accanto ai nemici sconfitti della guerra civile, vennero rinchiusi gli avversari politici che avevano partecipato alla lotta antizarista ma si opponevano al regime comunista. Erano socialisti rivoluzionari, anarchici, menscevichi che difendevano il loro status di prigionieri politici così come avevano fatto, assieme ai bolscevichi, sotto lo zarismo. È nei giornali e negli opuscoli di questi gruppi politici, quelli clandestini o pubblicati in esilio o quelli delle organizzazioni internazionali cui essi appartengono, che appaiono le prime denunce, che per la prima volta si parla di campi di prigionia e di lavoro. Se la reazione non è diffusa e scandalizzata come si potrebbe pensare non lo si deve solo al silenzio complice dei comunisti o all'ottuso disinteresse che conservatori e liberali mostrano per tutto quanto proviene da partiti e gruppi "rivoluzionari"; in realtà fin dagli anni della guerra civile e per tutto il corso degli anni Venti il dibattito sulle libertà politiche e la natura dell'URSS e sulla violenza di stato esercitata dai bolscevichi è acceso e continuo. Le cifre sui morti della rivoluzione o su quelli del terrore rosso del 1918-19 divergono ampiamente ma sono oggetto di attenzione, così come la funzione e l'organizzazione della CEKA e poi, a partire dal 1922, della GPU. Di solito, tuttavia, si parla in termini generali tanto degli arrestati che dei fucilati, dei reclusi e dei deportati, sembrando più importante il giudizio sulla natura ed estensione della repressione che non l'analisi e il racconto del suo concreto funzionamento.

Così, pur in presenza di libri che aprono squarci di verità sulla realtà concentrazionaria (nel 1925 l'International Committee of Political Prisoners pubblica Letters from Russian Prisons mentre del 1927 è 1'opera uscita in Francia di Raymond Duguet, Un bagne en Russie rouge. Solovki, I'ile de la faim, des supplices, et de la mort), la discussione verte sul rapporto tra punizione e rieducazione, sul significato della "legalità" sovietica, sul carattere di classe o ideologico della repressione. Non bisogna dimenticare, del resto, che la realtà stessa dei campi negli anni Venti è ancora lontana, per estensione, numero e spesso anche organizzazione, dalle caratteristiche che contraddistingueranno il decennio successivo. C'è la tendenza, nella coscienza collettiva delI'Occidente, ad apparentare i lager russi ai campi di prigionia presenti in tutta Europa durante la grande guerra e a considerarli un retaggio -come suggeriscono gli stessi dirigenti sovietici che promettono una rapida sottomissione alla giustizia dell'azione di polizia - della guerra civile. Quel che nessuno sembra intuire e che con la fine degli anni Venti avrà termine non già l'arbitrio poliziesco nella repressione e nella gestione dei campi, ma la fine della divaricazione tra giustificazione ideologica, responsabilità giuridica, prassi amministrativa e realtà della detenzione.

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Nel corso [del Grande Terrore] (1935-39) furono in molti, in Occidente, a interrogarsi sul perché di una piega degli eventi così drammatica e, per la maggior parte, inaspettata. I più, tuttavia, continuarono a giustificare la repressione e ad appoggiare la politica sovietica, convinti che le necessità della lotta antifascista non permettessero di rivolgere critiche al paese che di quella battaglia sembrava l'alfiere più coerente e determinato.

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In Europa soltanto una minoranza di simpatizzanti comunisti prese coscienza nella seconda metà degli anni Trenta del carattere pienamente dispotico e totalitario del regime di Stalin. Anche la notizia nell'agosto 1939, della firma del patto tedesco-sovietico di non aggressione (le cui clausole segrete prevedevano la spartizione della Polonia e dei paesi baltici), pur di gran lunga più shoccante, indusse solo pochi all'abbandono del comunismo, diversamente dagli Stati Uniti dove la fuga dalla "illusione" sovietica ebbe caratteri più ampi e marcati, lasciando soltanto una piccola minoranza di intellettuali e operai a difendere in ogni modo l'operato dell'URSS.

Nel corso della seconda guerra mondiale l'alleanza tra le democrazie occidentali e l'Unione Sovietica contro le potenze fasciste congelò di fatto ogni critica che le prime avevano rivolto a Mosca in passato, anche se certamente non mancò la possibilità di allargare le conoscenze e le informazioni sul paese del socialismo. Vi erano stati tuttavia, negli anni immediatamente precedenti alla guerra, libri che avevano parlato, con maggiore o minore informazione, dei campi di lavoro e del sistema concentrazionario.

L'intreccio tra una conoscenza ancora scarsa, frammentaria e non sempre di prima mano e l'influenza di un contesto internazionale in cui l'antifascismo impediva spesso che la politica sovietica venisse sottoposta ad analisi e critiche serrate è ciò che spiega come mai l'opinione pubblica occidentale non abbia preso mai piena coscienza della natura e del ruolo del GULag fino alla seconda guerra mondiale. Con la fine degli anni Quaranta, invece, nessuno può ormai nascondersi dietro l'alibi delle scarse informazioni; chi nega l'esistenza dei campi o ne giustifica e difende l'esistenza lo fa perché ritiene che, con la guerra fredda, occorra schierarsi con il "campo socialista" e difendere l'URSS in ogni suo atto e dichiarazione. Non solo sono sempre più numerose le memorie e le testimonianze di chi è riuscito a fuggire dai lager o a trasmetterne prove dell'esistenza e della vita e morte che lì si conduce; ma due processi pubblici che si svolgono in Francia a un anno di distanza l'uno dall'altro porranno l'intera opinione pubblica occidentale di fronte a una realtà incontrovertibile.

In entrambi i casi si trattò di processi per diffamazione, ma in realtà si trattò di una dimostrazione di come la "questione comunista" e, all'interno di essa, quella dei campi sovietici, dividesse la società europea in modo profondo e drammatico. Il primo dibattimento fu noto come "l'affare Kravcenko", dal nome di un ex funzionario sovietico che nel 1944 aveva disertato e si era posto sotto la protezione statunitense. Il libro scritto con l'aiuto di un giornalista americano -Ho scelto la libertà - venne tradotto in oltre venti lingue e divenne un best-seller in tutto il mondo, vendendo milioni di copie. In Francia una rivista del Partito comunista, "Les Lettres Françaises", sostenne che l'autore aveva scritto sotto dettatura di agenti della CIA, compiendo un'opera di disinformazione. Di qui la denuncia per diffamazione da parte di Kravcenko e il processo che si svolse nel gennaio 1949.

Accanto ad altre questioni quella che catalizzò di più l'attenzione fu la discussione sull'esistenza dei campi, che i comunisti cercavano di far passare per istituzioni rieducative dove si garantiva il rispetto dei diritti umani. Le testimonianze di alcuni ex prigionieri ebbero un effetto dirompente: quella di Margarete Buber-Neumann, che aveva trascorso tre anni nel lager di Karaganda in Kazakistan prima di venire "affidata" dai russi alla Gestapo nel 1940 e rinchiusa per cinque anni nel campo nazista di Ravensbruck fu certamente la rivelazione più sconvolgente. Eppure, benché fosse inoppugnabile, neanche essa riuscì a scalfire, almeno per il momento, la certezza fideistica dei partigiani dell'URSS.

Un anno dopo "Les Lettres Françaises" decisero di replicare, accusando di "falso" David Rousset, uno degli esponenti più in vista dell'Associazione ex deportati nei campi nazisti. Il 1° novembre 1950 egli aveva lanciato sul "Figaro Littéraire" un appello a tutti gli ex internati e alle loro organizzazioni perché denunciassero il sistema concentrazionario sovietico del GULag. Nel 1946 Rousset aveva ottenuto un premio prestigioso per aver scritto L'univers concentrationnaire, un mirabile esempio di analisi dei lager nazisti; mentre nel 1948 aveva raccolto in Les jours de notre mort numerose testimonianze di deportati in diversi campi nazisti, un libro accolto favorevolmente dalla stampa comunista. L'appello di Rousset si concludeva in modo semplice e drammatico: "Vorrei che ciascuno di noi ricominciasse: immaginiamo di trovarci di nuovo riuniti sul grande piazzale di Buchenwald, sotto i fari e sotto la neve, ascoltando l'orchestra in attesa di venire contati. Come giudicheremmo altri deportati che, tornati in libertà, non sapessero che raccontare le proprie sofferenze senza trovare una parola per proclamare che noi viviamo ancora in pericolo di morte? Le più grandi oscenità sarebbero ancora troppo poco. Se pensiamo che milioni di uomini si trovano oggi nella condizione in cui noi ci trovammo ieri, sapremo che abbiamo dimenticato. È il nostro difficile privilegio quello di non poter sfuggire a questa accusa. Gli altri, che mai furono in un campo, possono dichiarare la loro incompetenza, la povertà d'immaginazione. Noi siamo dei professionisti, degli specialisti. È il prezzo che dobbiamo pagare al sovrappiù di vita che ci è stata concessa."

La richiesta che si accompagnava all'appello non era quella di credere all'esistenza dei campi in URSS, ma di "aprire un dossier" e organizzare una commissione d'inchiesta composta esclusivamente da deportati politici. Numerosi ex deportati si associarono all'appello di Rousset, che venne ripreso e appoggiato da "Le Monde" e a cui aderirono la Federazione nazionale dei deportati e internati della Resistenza e la Federazione spagnola dei deportati e internati politici. La stampa comunista reagì scandalizzata: il colpo più ostile venne inferto il 17 novembre dalle "Lettres Françaises" per la penna del redattore capo Pierre Daix, che scrisse l'articolo Pierre Daix matricola 59807 a Mauthausen risponde a David Rousset. Il deportato di Mauthausen accusava il deportato di Buchenwald di falsità perché pretendeva che in URSS si potesse finire in un campo correzionale di lavoro per decisione amministrativa e perché avrebbe usato, per parlare del GULag, testimonianze scritte in realtà sui campi nazisti. Di qui la denuncia di Rousset e, il 25 novembre 1950, il processo. Rivendicando la verità di quanto esposto nell'appello Rousset ricordava che, se era stato possibile "non sapere" prima del 1939, adesso non lo era più: "Oggi sappiamo cosa sono i campi e l'esperienza dei campi di concentramento è divenuta per un certo numero di persone, in Europa occidentale, l'esperienza fondamentale. Questo è il criterio essenziale che va al di là di ogni criterio ideologico o politico. Dove esistono campi di concentramento non può esistere per l'uomo il minimo avvenire. Questa è la prima ragione che spinge noi, ex deportati, a intervenire e vigilare."

Il processo si svolse in nove lunghe udienze. Agli articoli della costituzione sovietica orgogliosamente recitati dai comunisti gli avvocati di Rousset risposero con le ordinanze della NKVD del 1935 che permettevano la deportazione come misura amministrativa. Eroi della Resistenza ricordarono l'eroismo e il sacrificio del popolo russo ma rifiutarono di utilizzare le benemerenze dell'Armata rossa nella liberazione dall'hitlerismo come contropartita per attenuare la denuncia dei campi sovietici. Le deposizioni dei testimoni oculari furono ancora più drammatiche di quelle del processo Kravchenko.

La prima a parlare fu Elinor Lipper, che aveva passato undici anni nelle miniere d'oro della Siberia. Belga di nascita ma di nazionalità svizzera, Elinor aveva studiato a Berlino e lì era diventata comunista. Nel 1937 si era recata in URSS per combattere meglio il nazismo e dopo due mesi era stata arrestata e internata. Pierre Daix si difese riesumando la testimonianza sui campi fatta da Gor'kij e suggerì l'idea che forse gli assassini dello scrittore sovietico (questa era l'accusa rivolta a Jagoda, ex capo della NKVD, nel corso del processo del 1938 dove venne condannato a morte insieme a Bucharin e altri) erano in combutta con le persone arrestate insieme alla Lipper.

Gli altri ex internati che testimoniarono furono Julius Margolin, Alexandre Weissberg, Kazimierz Zamorski, Jerzy Gliksman e, di nuovo Margarete Buber-Neumann. Tutti avevano o avrebbero scritto un racconto delle loro sofferenze e della terribile realtà del GULag sovietico: Elinor Lipper, Onze ans dans les bagnes soviétiques, Nagel, Paris, 1950; Julius Margolin (Julij Borisovic Margolin), La condition inhumaine, Calmann-Lévy, Paris, 1949; Alexandre Weissberg, L'accusé, Fasquelle, Paris, 1953; Jerzy Gliksman, Tell the West, Gresham Press, New York, 1948, Kazimierz Zamorski, Forced Labour in the Soviet Union, in "World Affairs", aprile 1950; Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, Il Mulino, Bologna, 1994 (l'edizione originale è del 1948).

Margolin, un filosofo autore di bei libri su Puskin, residente in Palestina, si era trovato per caso in Polonia allo scoppio della guerra, nella zona occupata dai sovietici in base al patto russo-tedesco dell'agosto 1939. Insieme ad altri 650 ebrei polacchi era stato condotto in un campo vicino al Mar Bianco, in Carelia, dove soltanto dopo due mesi gli venne comunicato il testo del provvedimento amministrativo in base al quale era stato condannato senza essere stato né interrogato né ascoltato.

Ancora più avventuroso era stato il destino di Weissberg, scienziato austriaco che nel 1931 si era trasferito volontariamente in URSS a lavorare presso il Centro di fisica dell'Università di Char'kov. Dopo sei anni di successi scientifici, nel 1937 era stato arrestato e accusato di spionaggio, sabotaggio, di attentato alla vita di Stalin e Vorosilov, di aver armato un gruppo di tedeschi e di aver organizzato una rivolta nel Caucaso. Per la sua liberazione, ironia della storia, si erano mossi nel 1938 anche Irène e Frédéric Joliot-Curie che avevano scritto una lettera a Stalin ed erano stati ripresi per la loro "ingenuità" dal Partito comunista francese. In occasione del processo Kravchenko, Frédéric aveva espiato quella ingenuità negando l'esistenza dei campi sovietici in cui era stato inviato il suo ex collega Weissberg.

Zamorski, un altro polacco condannato a cinque anni nel 1941, era stato liberato in seguito agli accordi Stalin-Sikorski che avevano permesso di formare in URSS un'armata polacca la quale partecipasse alla guerra antinazista. Insieme ad altri aveva compiuto un lungo lavoro d'indagine, raccogliendo le testimonianze di circa dodicimila polacchi che erano "transitati" per i campi sovietici e utilizzandone duecento per un libro sulla "giustizia sovietica" pubblicato a Roma nel 1945 per interessamento dei combattenti polacchi di Montecassino.

La testimonianza di Jerzy Gliksman mostrò come la realtà fosse ben più fantasiosa dell'immaginazione. Militante dal 1916 al 1939 del Bund il partito socialista ebreo polacco, ne era stato dirigente. Avvocato e consigliere municipale a Varsavia, nel 1935 aveva compiuto un viaggio in URSS e aveva chiesto di visitare i campi di lavoro su cui in Occidente vi erano state recenti polemiche. Era stato condotto a Bolchevo, nello stesso luogo visitato dai coniugi Webb e da altri giornalisti occidentali e, come loro, aveva trovato soddisfacente la vita in quel campo vicino a Mosca dove le autorità invitavano ad andare i più "curiosi" fra i turisti politici degli anni Trenta. Nel 1940, sfortunatamente, era stato deportato in un vero campo, a Ukht, insieme ad altre decine di migliaia di ebrei polacchi che per sfuggire all'avanzata hitleriana erano finiti nelle braccia dell'armata sovietica e consegnati alla NKVD.

Dopo le arringhe degli avvocati e prima della sentenza, letta il 12 gennaio 1951, in cui Morgan e Daix vennero condannati a una pena pecuniaria per diffamazione, David Rousset aveva avuto la possibilità di fare un'ultima dichiarazione. In essa spiegava: "L'esistenza dei campi non è grave perché ci si soffre e muore; è grave perché vi si vive. La gravità della sciagura concentrazionaria è che questo sistema permette alI'uomo di vivere, e a volte per anni, ma soltanto in determinate condizioni. Ognuno conosce la decadenza e perde il rispetto di se stesso, sia i detenuti che le guardie. Un paese dove esistono i campi di concentramento è marcio fino al midollo: sono disumani i suoi detenuti, lo sono i guardiani e lo è soprattutto il suo regime. Il mondo concentrazionario attiva un contagio inevitabile e questa è la più grande sciagura che si possa conoscere."

Il Livre blanc sur le camps de concentration soviétiques della Commission internationale contre le régime concentrationnaire, pubblicato alla fine del 1951, costituisce un documento eccezionale, d'importanza analoga a quella della Dewey Commission che nel 1937 aveva svolto un "controprocesso" per dimostrare la falsità delle accuse lanciate a Trockij durante i processi di Mosca. Anche in questo caso vi furono sedute pubbliche di un tribunale appositamente costituito che esaminò un notevole materiale documentario e interrogò numerosi testimoni. Può sembrare, a leggere oggi il rapporto di David Rousset, le numerose testimonianze e alcuni dossier di approfondimento su alcuni aspetti del GULag, che non fosse più possibile invocare la mancanza di informazioni o la loro dubbia credibilità per negare l'esistenza in Russia di un sistema concentrazionario. Quello che poteva essere messo in discussione, perché mancavano dati certi e notizie conclusive, era la dimensione e diffusione del fenomeno, anche se le mappe dei campi che circolarono proprio all'inizio degli anni Cinquanta erano abbastanza fedeli nelI'illustrare l'ampiezza del fenomeno e la dislocazione dei campi soprattutto nelle zone deserte e fredde dell'URSS.

Proprio in quell'anno, del resto, si può dire che nasca la letteratura concentrazionaria come genere, grazie al celebre Un mondo a parte del polacco Gustaw Herling, pubblicato dapprima in Inghilterra e poi in numerosi altri paesi. Quale può essere, allora, il motivo di un sostanziale disinteresse che, a parte alcune occasioni di polemica abbastanza circoscritte, caratterizzò per circa un ventennio, con una piccola parentesi negli anni della destalinizzazione, I'atteggiamento dell'Occidente nei confronti del GULag? Si possono, naturalmente, fare soltanto delle ipotesi. La prima riguarda la diversa risposta data dalle autorità sovietiche, dai comunisti e dai loro simpatizzanti.

Non c'è più traccia, in questi anni, di un negazionismo che potremmo definire tradizionale; e neppure di una giustificazione che punti a sottolineare il carattere provvisorio e necessario della difesa anche violenta del potere sovietico contro i suoi nemici e avversari. C'è invece il riconoscimento, sia pure in forme estremamente ridotte rispetto alla realtà, di una realtà carceraria particolare, il cui dato caratteristico sarebbe il lavoro come mezzo di rieducazione e le cui vittime sarebbero, nella grandissima maggioranza, non più nemici del popolo ma semplici delinquenti, parassiti, profittatori. È la linea, come si è visto, che si era già manifestata a metà degli anni Trenta ma che allora era stata riassorbita dalla più generale giustificazione della lotta antifascista e della vigilanza contro i traditori presunti e potenziali. Questa "difesa" del sistema repressivo sovietico ha naturalmente, come corollario, quello di definire criminali comuni anche i prigionieri politici e di denunciare come false e inventate le notizie e le testimonianze sulla vita nel GULag. Essa permette però, nel clima della guerra fredda, di apparire verosimile ed essere accettata dai militanti e simpatizzanti comunisti; e di venire difesa e propagandata dagli intellettuali iscritti o vicini al partito senza che provochi, tranne casi assai rari, crisi di coscienza o ripensamenti. Neppure gli avversari del comunismo, tuttavia, fanno della denuncia del GULag un motivo ricorrente e documentato della loro azione politica. Essa si riduce per lo più all'uso sintetico e drammatizzato della cortina di ferro e del lavoro forzato ai fini della propaganda elettorale; lasciando che informazioni corrette e veritiere s'intrecciassero a deformazioni ed esagerazioni ed entrambe risultassero spesso incontrollabili.

Quando nel 1956, nel rapporto segreto tenuto al XX Congresso del PCUS, Chruscev rese nota la denuncia dei crimini di Stalin, l'impatto in Occidente delle sue "rivelazioni" fu enorme. Anche questa volta, però, fu l'insieme della pratica repressiva a essere messa retrospettivamente sotto accusa e in particolar modo l'epurazione dei vertici e quadri del partito, soprattutto a partire dal 1935 e negli anni del grande terrore. Il "rapporto segreto", in effetti, non faceva menzione né del GULag né dell'universo concentrazionario in alcuna sua forma. Negli anni della destalinizzazione la discussione in Occidente verté soprattutto sulle responsabilità del "culto della personalità" (Stalin, l'arretratezza russa, la sconfitta della rivoluzione in Occidente, l'ideologia comunista, il bolscevismo e Lenin) e sulla possibilità di riformare il sistema. L'approccio continuò a essere prevalentemente ideologico, sia che si valutasse positivamente - da parte comunista - il ritorno a una "legalità socialista" che presto avrebbe mostrato apertamente tutti i suoi limiti, sia che si sanzionasse come fallimentare o inconcludente il tentativo chrusceviano di mantenere il monopolio del potere senza l'uso indiscriminato del terrore repressivo che aveva caratterizzato i decenni precedenti.

Perché si tornasse a parlare del GULag e si affrontasse di nuovo il tema dei campi di lavoro e reclusione in URSS ci volle la mediazione della letteratura; che fu poi, in definitiva, quella più efficace a far prendere coscienza della realtà storica e della tragedia umana che nessuno sembrava avere il desiderio di approfondire e analizzare. La pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn e qualche anno dopo dei primi Racconti della Kolyma di Varlam Salamov costituisce, da questo punto di vista, un momento decisivo. Per attendere che il riconoscimento della verità raccontata in quei testi non fosse più messo in discussione occorrerà che Solzenicyn pubblichi anche Arcipelago GULag e che la sua odissea personale con la liberazione e l'esilio trovassero soprattutto in Francia una forte eco.

Siamo ormai nella metà degli anni Settanta e, pur se nessuno osa più mettere in dubbio la realtà storica dell'universo concentrazionario sovietico, c'è ancora chi vuole ridimensionarne la portata, I'estensione, la centralità nella storia dell'URSS e la necessità nel sistema di potere sovietico. Sarà solo durante gli anni della perestrojka e poi successivamente al crollo delI'URSS che una documentazione sempre più ampia, di carattere tanto archivistico quanto memorialistico, renderà possibile, insieme a una ricostruzione ancora iniziale e parziale della storia completa del GULag, una definitiva accettazione nella coscienza pubblica dell'Occidente della sua realtà.