(Tratto da AREA) - Per il senatore Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri, la pace "non nasce dalla bandiere arcobaleno, ma dall’assunzione di responsabilità, che si chiama deterrenza contro il terrorismo, stabilità democratica e sicurezza nella distribuzione degli aiuti".

Nelle ultime settimane, per conto della Farnesina e del governo, ha moltiplicato gli incontri, le visite e i viaggi, soprattutto nei Paesi confinanti con l’Iraq, nell’ambito di un vasto disegno politico-diplomatico volto a coinvolgere questi Stati nel difficile processo di normalizzazione e modernizzazione iracheno. La condivisione dell’obiettivo politico con i Paesi arabi è una delle priorità nell’agenda della nostra diplomazia. Tutti questi sforzi, ovviamente, sono concentrati oggi su un solo, unico obiettivo: arrivare, il prima possibile, ad una nuova risoluzione dell’Onu che dovrà servire, fra l’altro, a dare piena legittimazione al futuro governo iracheno. L’obiettivo dell’intervento delle Nazioni unite dovrà garantire, inoltre, la delicata fase transitoria fino alle elezioni, cioè dalla fine del prossimo mese di giugno al gennaio 2005.

Una prima domanda: era stato previsto che in Iraq la situazione degenerasse in questo modo? Gli analisti, insomma, avevano formulato degli scenari, prima dell’inizio delle ostilità contro Saddam, secondo i quali il Paese rischiava di precipitare in un grave stato di disordine?

Guardi, gli analisti avevano in effetti formulato scenari che ipotizzavano grandi difficoltà in un contesto in evoluzione, ma non avevano previsto di certo il precipitare della situazione. E qui una prima risposta può essere data rispetto alle cause del problema: l’amministrazione americana ha troppo puntato sugli esuli iracheni (vedi il caso di Ahmed Chalabi, capo del partito del Congresso nazionale iracheno), i quali, proprio perché - nella maggior parte dei casi - sono stati fuori del Paese per molto tempo, hanno portato a delle valutazioni errate, poco aderenti alla situazione reale. Insomma, abbiamo tutta una serie di elementi che hanno contribuito ad aggravare la situazione in Iraq. Fra i vari errori che hanno contribuito ad aggravare la situazione c’è quello, ad esempio, che riguarda le assunzioni di personale nella nuova pubblica amministrazione irachena: assunzioni che sono state determinate in base agli standard americani. O, ancora, il fatto di aver smantellato l’esercito con il risultato di aver mandato a casa circa 450mila militari e personale dell’amministrazione statale, che da un giorno all’altro si sono trovati senza uno stipendio… Molte di queste persone, cosa crede che si siano messe a fare per sopravvivere e sbarcare il lunario? In sostanza, gli Stati Uniti hanno cercato di fare in Iraq quello che avevano fatto in Germania, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la denazificazione del Paese. Con la sola differenza che Adenauer non aveva vissuto fuori della Germania durante il III Reich. Non era un esule…

Quali sono gli scenari che si intravedono dalla sua postazione, alla Farnesina, rispetto a ciò che sta accadendo non solo in Iraq, ma soprattutto sul fronte mediorientale, in Arabia Saudita (che sta registrando proprio in questi giorni una preoccupante escalation del terrorismo domestico) e, più in generale, in Africa?

Uno dei grandi sforzi della Farnesina, proprio nell’ambito degli scenari che abbiamo davanti nel medio termine, è proprio quello di coinvolgere in questa complessa situazione i Paesi confinanti con l’Iraq, che sono l’Arabia Saudita, il Quwait, l’Iran, la Turchia, la Siria, la Giordania e anche l’Egitto, anche se con è confinante. È un vasto e importante disegno politico-diplomatico che tende a rafforzare il processo di modernizzazione dell’Iraq, attraverso un processo "sorretto" che deve vedere sempre più coinvolti i "vicini di casa". Questo parte dal principio secondo il quale i confinanti sono sempre i più coinvolti, per ovvie ragioni (non solo per geografia, ma anche per ragioni politiche, religiose, economiche e commerciali). È inutile, su tutto ciò, far finta che nazioni come Siria o Giordania non siano interessate all’evolversi della situzione irachena. Proprio per questo, è sempre più necessario un dialogo costruttivo con i Paesi arabi, soprattutto quelli confinanti. L’approccio non è certo quello di guardare a queste realtà come a degli "Stati canaglia". Ripeto, quello del ministero degli Esteri, in questo frangente, è un grande sforzo politico-diplomatico teso a far entrare nella partita questi Paesi. Sarebbe un grande e grave errore tagliarli fuori.

Mi ha colpito molto una sua battuta di qualche settimana fa, sull’innalzamento del livello dello scontro in Iraq: secondo lei, una delle chiavi di lettura dell’attuale momento di fibrillazione della guerriglia sono le grandi manovre che precedono la scelta dei componenti del nuovo governo. In questo contesto si inquadrerebbero dunque anche i sequestri dei quattro italiani e degli altri civili (non solo occidentali)?

Parto da un fatto: la cattura di Saddam Hussein è stata vissuta come una grande umiliazione da parte del mondo arabo. Anche da parte di quello moderato. Nelle immagini del raìs tirato fuori da una buca in terra, ridotto come un barbone non c’era nulla di eroico e guerriero… Tutto questo ha, di certo, fomentato quel desiderio di rivincita, di vendetta, di riscatto di molti iracheni, di molti arabi. Credo che il mito della resistenza irachena sia, in qualche modo, nato e cresciuto intorno a questi sentimenti, risentimenti e rancori… In questo, un grave errore è quello (come è successo con Lilli Gruber del Tg1) di voler "vendere" come resistenza tutto quello che accade in Iraq: attentati, stragi, bombe, agguati e così via. Il 30 giugno è la data del passaggio dei poteri dall’amministrazione provvisoria, guidata dal governatore Paul Bremer, al nuovo governo provvisorio iracheno. Un governo, si badi bene, che non è frutto di elezioni, ma che comunque dovrebbe rappresentare un po’ tutte le componenti e le realtà politico-religiose del Paese. Ciò che accade in Iraq, oggi, non è casuale. Non è certo opera di banditi. Tutto rientra in un quadro strategico, nel quale si muovono e si misurano le forze in campo come i saddamisti, gli sciiti, i sunniti e così via. A questi si aggiungono, poi, le iniziative di Al Qaeda e anche della criminalità, che ha in poco tempo messo radici nel territorio. Anche i sequestri di persona rientrano in questo contesto. Queste bande, anche attraverso la logica dei sequestri, cercano di accreditarsi come soggetti politici in questa brutale lotta di potere. Ecco perché il peggior servizio che si possa fare alla causa dei tre italiani in mano ai ribelli è proprio quello di continuare a dar voce alla vicenda, soprattutto attraverso il megafono dei vari talk-show. In questo, l’unico atto a tutela degli ostaggi e della trattativa è il silenzio. Questi gruppi puntano, in questa aberrante logica politica, al massimo della pubblicità e spettacolarizzazione del dramma per ottenere una legittimazione per accreditarsi nell’attuale processo di formazione del futuro governo. Tutti noi siamo convinti che, fino al 30 giugno, la situazione generale del Paese sia intimamente legata alla formazione della nuova compagine di governo.

Dunque, l’arco temporale che va da oggi alla fine di giugno è un periodo di massima delicatezza, non solo per quanto concerne lo spostamento verso il rosso della soglia del rischio…

Certamente. Come ho spiegato prima, il clima di violenza, e terrore che grava sul Paese si spiega con il tribolato processo di formazione del governo provvisorio iracheno che dovrebbe subentrare a quello dell’amministrazione provvisoria a partire dal 30 giugno. È chiaro che più ci si avvicina a quella data, più il termometro sale…

Tutto ruota, dunque, intorno alla data del 30 giugno. Qual è lo sforzo di Palazzo Chigi per coinvolgere l’Onu in questa nuova realtà?

Attenzione, sfatiamo un altro falso mito. Un’altra sciocchezza di questo mondo è voler attribuire alle date dei significati simbolici. Il 30 giugno è una data sul calendario… Di certo la situazione in Iraq non cambierà di colpo quel giorno, con un semplice movimento delle lancette dell’orologio. Possiamo dire che da quel momento, poiché si tratta di una tappa politica, prenderà il via una nuova fase, e cioè il trasferimento effettivo dei poteri alla neo autorità di governo irachena e lo scioglimento dell’ammistrazione provvisoria della coalizione. È ridicolo pensare che al 1° luglio la situazione sia totalmente cambiata. Abbiamo a che fare con una realtà complessa e i processi di cambiamento e trasformazione sono lenti. In questi giorni, il governo italiano è impegnato in un pesante sfrorzo per arrivare ad una risoluzione dell’Onu, entro il 15 maggio. Questo perché, con questa tempistica, il nuovo governo di Bagdad sarà legittimato dall’Onu, e le conseguenti richieste di intervento alla comunità internazionale per garantire stabilità e sicurezza nel Paese potranno essere avanzate proprio dalla nuova amministrazione irachena, nell’ambito della risoluzione dell’Onu. L’impegno, ora, è tutto concentrato sui due pilastri del documento. Da una parte, l’idea è quella di dare alle Nazioni unite un ruolo politico nella gestione della crisi. L’Onu sarà chiamata, insomma, a garantire la "fase transitoria" che va dall’entrata in carica del governo provvisorio iracheno fino alle elezioni (previste non prima del gennaio 2005). Alle Nazioni unite spetterà garantire anche la sicurezza dello Stato, degli uomini e delle varie istituzioni presenti nel Paese. Dall’altra, una forza multinazionale (non i caschi blu) sarà impiegata per la stabilità e la sicurezza del territorio. La risoluzione Onu alla quale si sta lavorando prevede, insomma, questa "doppia forza" sul modello afgano.

Un grave e tragico precedente c’è stato alla fine di febbraio, quando è stata presentata la bozza della nuova Carta costituzionale irachena… più di cento morti in una serie di scontri provocati da bande di ribelli a Karbala e Bagdad…

Un po’ tutti sono coscienti del fatto che poco o nulla cambierà fino al 30 giugno. Bombe, attentati e agguati: questi sono e saranno gli strumenti di questa barbara scalata al potere, in vista della creazione del primo governo iracheno dopo e senza Saddam. Se si crede nel processo di transizione verso la modernizzazione del Paese, allora si deve rimanere… Lasciare sarebbe folle.

Cosa potrebbe accadere se, oggi, il governo italiano dovesse ordinare il ritiro immediato dei suoi militari dall’Iraq?

Ritirare i militari dall’Iraq equivale a non avere alcuna fiducia in questo processo evolutivo, che peraltro è ormai in moto e credo nessuno possa ormai fermarlo. Rivendendomi una battuta del politologo Giovanni Sartori, tra "potenza occupante" e "potenza scappante" c’è comunque una via di mezzo…

Torniamo in Europa: quali sono le conseguenze della "svolta" di Zapatero? Quali potrebbero essere le ripercussioni di questa scelta all’interno dei rapporti di forza e di alleanza soprattutto tra Francia, Germania e Inghilterra?

Senza dubbio, è preoccupante la decisione del premier spagnolo di ritirare le sue truppe dall’Iraq. Questa iniziativa di certo indebolisce l’Europa in un momento cruciale come questo, in cui la mediazione politica delle diplomazie continentali era riuscita a ritagliarsi un ruolo importante come interlocutore alternativo a quello americano. E poiché Zapatero ha spiegato che ha deciso l’immediato ritiro del contingente spagnolo proprio perché non crede nella risoluzione dell’Onu, sulla quale si sta lavorando, la scelta di Madrid finisce con l’indebolire soprattutto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, del quale ne fa parte anche la Spagna con un seggio.

Alla luce dell’attuale situazione, è ancora convinto che il processo democratico non tornerà indietro? Oppure, l’Iraq come l’Afghanistan non sono altro che focolai periferici intorno al più vasto problema israelo-palestinese? Di certo, la sequenza di assassini politici voluta da Tel Aviv (su tutti, l’eliminazione dello sceicco Ahmed Yassin e del suo successore Abdel Aziz Rantisi) non sono certo segnali di distensione nell’ottica della ripresa del processo di pace…

Ripeto: sono convinto che il meccanismo di modernizzazione e normalizzazione dell’Iraq, anche se difficile e ostacolato da una serie di fattori, è in moto ed è irreversibile. Credo anche che il conflitto israelo-palestinese sia, senza dubbio, uno dei maggiori fattori di instabilità del mondo arabo e una delle cause della grande conflittualità che l’islam (non solo quello più radicale) dimostra nei confronti dell’Occidente. È altrettanto vero che con gli assassini politici, come quelli di Yassin e Rantisi, perpetrati dalle autorità di Tel Aviv non giovano al processo di pace. Questi atti rischiano seriamente di compromettere ogni sforzo sulla strada dei negoziati. Il focolaio israelo-palestinese incide drammaticamente negli squilibri di tutta l’area. Il vero fallimento non è nell’operazione in Iraq, ma nella inestricabile matassa della crisi in Medio Oriente. Tuttavia la questione mediorientale non spiega tutto. Ecco perché il problema va affrontato da un altro punto di vista. Non parliamo dell’islam, della contrapposizione tra visioni politico-religione del mondo. Come peraltro evidenzia un rapporto dell’Onu, il problema è che ci sono Paesi, a maggioranza musulmana, che hanno percentuali inquietanti di analfabeti, disoccupazione, povertà, deficit, con sistemi economici debolissimi, nonostante le enormi ricchezze naturali (gas, petrolio) delle quali possono disporre. Questi Paesi (e la questione religiosa la lasciamo da parte) hanno dei numeri che costituiscono un problema per la stabilità internazionale. Questo è il problema. Diciamo la verità: il mondo arabo non è un modello di riferimento. Questa realtà, con tutte le sue differenze e le sue sfaccettature (anche se depositaria di culture e tradizioni millenarie), rappresenta un elemento di debolezza per il complesso sistema dell’economia globale.