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    Predefinito Gli alberghi a cinque stelle di Castelli

    Morire di carcere: dossier 2002 - 2003

    Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose



    Le morti in carcere nell'anno 2003



    Tentato suicidio: 2 gennaio 2003, Carcere di Catania



    Salvatore Gravina, 30 anni, ex collaboratore di giustizia, è ricoverato in coma profondo al reparto di Rianimazione del Policlinico universitario. Avrebbe tentato il suicidio, per impiccagione, mentre si trovava all’interno della casa circondariale: non è sopraggiunta la morte cerebrale ma la speranza di un recupero è quasi inesistente, anche perché il danno provocato dalla momentanea mancanza d’ossigeno è stato devastante per il suo organismo.

    Cosa è successo quel pomeriggio? Gravina è stato "avvicinato" da qualcuno oppure - e sembra questa l’ipotesi più probabile -, ha tentato il suicidio? Era sottoposto ad un regime di sorveglianza specifico? C’è un retroscena che porta alla sua "carriera" precedente? Ha influito, nella sua situazione psicologica, il trasferimento di reparto - all’interno del Centro Clinico del carcere - dalla Medicina alla Chirurgia? Non ci sono ancora risposte a questi interrogativi, ma con tutta probabilità saranno chiariti dall’inchiesta interna e dagli accertamenti disposti in Procura dal magistrato di turno. (Gazzetta del Sud, 4 gennaio 2003)



    Suicidio: 4 gennaio 2003, I.P.M. Casal del Marmo (Roma)



    Nell’Istituto Penale per Minori di Casal del marmo un ragazzo si uccide. La direttrice ne parla a fatica. "È stato terribile, è accaduto all’improvviso, senza che quel ragazzo ci avesse mai dato modo di capire a che punto fosse arrivata la sua disperazione. Non riesco a perdonarmelo". (La Stampa, 9 gennaio 2003).



    Tentato suicidio: 7 gennaio 2003, Carcere di Avezzano (AQ)



    M.U., 28 anni, algerino, tenta di uccidersi per non essere rimpatriato: nei suoi confronti il prefetto aveva infatti emesso un decreto di espulsione. L’immigrato, prima di lasciare il carcere di Avezzano, ha tentato di togliersi la vita tagliandosi le vene dei polsi con una lametta. È stato salvato in extremis: soccorso del personale del carcere, è stato portato prima all’ospedale di Avezzano e successivamente a quello di Tagliacozzo. I medici lo hanno dichiarato guaribile in dieci giorni. Ieri però è stato dimesso e accompagnato dalla polizia di Avezzano al centro di permanenza Pontegaleria, nei pressi di Roma, in attesa del rimpatrio. Il suo gesto pertanto non è servito a nulla. Tentando il suicidio, il giovane sperava di potere restare in Italia. Invece non c’è stato nulla da fare. Appena il giovane sarà completamente guarito, dovrà lasciare il nostro paese e tornare in Algeria. (Il Centro, 8 gennaio 2003).



    Suicidio: 9 gennaio 2003, Carcere di Castrovillari (Cosenza)



    Ilir Kakri, 38 anni, albanese, si impicca durante la notte. A scoprire il corpo dell’uomo sono gli agenti di polizia penitenziaria che, all’ora della sveglia, trovano l’albanese ormai privo di vita. Ilir Kakri era stato arrestato nei primi giorni dello scorso mese di ottobre, a La Spezia, dove era "emigrato" da oltre un anno per sfuggire a un’ordinanza cautelare emessa dal GIP di Castrovillarri, Assunta Napoliello, su richiesta del PM Livio Cristofano. Dopo l’arresto l’uomo era stato condannato, col rito abbreviato, a quattro anni e otto mesi per un tentato omicidio perpetrato nell’aprile del 2001 nella cittadina di Firmo. La salma dell’uomo è stata trasportata nell’obitorio dell’ospedale civile di Castrovillari, dove sarà sottoposta ad esame autoptico che stabilirà le effettive cause del decesso. Sul caso è stata aperta un’inchiesta della magistratura per accertare le modalità del suicidio e, nello stesso tempo, chiarire i motivi che hanno spinto l’albanese nel portare a compimento un gesto così disperato. Ricordiamo che, dal 2000 ad oggi, è il terzo suicidio che avviene nella casa circondariale castrovillarese. (Gazzetta del Sud, 10 gennaio 2003).



    Assistenza sanitaria disastrata: 14 gennaio 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)



    Claudio M. muore durante la notte nella Sezione d’Osservazione Psichiatrica. L’Associazione "Papillon" accusa la gestione del reparto: "Niente permessi premio e poca assistenza sanitaria: questi ragazzi devono essere assistiti e curati, non solo contenuti". (Corriere della Sera, 18 gennaio 2003).



    Suicidio: 21 gennaio 2003, Carcere di Cagliari



    Alessio Inconis, 25 anni, si impicca in un gabinetto del carcere di Buoncammino servendosi di un asciugamano. Ci aveva provato già un mese addietro, con la stessa tecnica. Finito alla rianimazione del "Santissima Trinità", l’avevano salvato per un pelo. Tossicodipendente, carattere piuttosto ingovernabile, Inconis stava scontando una condanna a un anno e otto mesi per furto ed estorsione.

    Sarebbe uscito a marzo. Ma era da tempo che mostrava segni d’inquietudine, sfociati giorno per giorno in episodi manifesti di autolesionismo. Dopo il tentativo di un mese fa i medici del carcere avevano chiesto e ottenuto per lui il regime di stretta sorveglianza: due detenuti - pagati per questo - lo piantonavano a tempo pieno, seguendolo ovunque andasse. Nel giro di quattro settimane l’avevano sentito tre volte gli psichiatri del penitenziario e altrettante gli operatori del Ser.T.: rispondeva, ma si lamentava genericamente di tutto.

    Domenica 19 sembrava tranquillo, era in cella insieme ad altri detenuti. Ha chiesto di andare al bagno, l’hanno accompagnato i suoi due angeli custodi. S’è chiuso dentro, accostando la porta: i minuti passavano e Alessio non veniva fuori. L’hanno chiamato, non rispondeva. Non restava che entrare. Brutto spettacolo: s’era appeso alle sbarre, annodando un asciugamano. I due piantoni l’hanno tirato giù, uno ha urlato di chiamare il medico. Ma quando sono riusciti ad adagiarlo sul lettino dell’infermeria Alessio Inconis non respirava più. Tempo un’ora e sono arrivati a Buoncammino il magistrato di turno e il medico legale, Giuseppe Paribello.

    Ispezione del corpo, in attesa della perizia. Tutto chiaro: suicidio per auto-strangolamento. Difficile che l’inchiesta giudiziaria aperta dalla Procura della Repubblica possa aggiungere altro. Il solo interrogativo riguarda "l’uscita" della notizia: a diffonderla sono stati il segretario regionale dei Radicali e i consiglieri regionali del gruppo diessino, in una conferenza stampa. Nessuno, tantomeno il direttore del carcere Gianfranco Pala, aveva pensato di trasmettere una nota alle agenzie di stampa. Al contrario, sembrerebbe che la direzione abbia provato a tenere la cosa sotto silenzio: tre suicidi in tre mesi sono troppi, anche per un girone infernale com’è considerato il carcere di Buoncammino. Dove ora tira aria di cambiamenti. Un po’ perché Roma gradisce poco le morti dietro le sbarre, un po’ anche perché si va delineando un conflitto di competenze - e di responsabilità - fra ministero della Giustizia e Aziende Sanitarie Locali. Nel frattempo si parla di malessere e di rivolte interne al penitenziario meno amato dai sardi: in realtà, la situazione viene descritta dagli operatori come assolutamente normale. Ammesso che sia normale un sovraffollamento di detenuti tossicodipendenti, tenuti in condizioni di immobilità e spesso di astinenza. (La Nuova Sardegna, 23 gennaio 2003)


    Suicidio: 22 gennaio 2003, Carcere di Padova (Reclusione)



    Salvatore Sanfilippo, 35 anni, condannato all’ergastolo per reati di mafia, si impicca con dei lunghi lacci da scarpa legati alla finestra. A dare l’allarme, alle otto di mattina, è l’agente di custodia che ha appena iniziato il suo turno di lavoro. Sanfilippo si trovava nella sezione cosiddetta dei "protetti" ed è stato, tra gli anni ‘80 e ‘90, un personaggio emergente nella mafia della Sicilia centrale. Apparteneva ad un clan della "Stidda", che aveva la base a Mazzarino, in provincia di Caltanissetta. Ha partecipato attivamente anche agli scontri interni della mafia contro Pippu Madonia, il boss arrestato a Longare, in provincia di Vicenza, alcuni anni fa. Negli ultimi mesi Sanfilippo appariva molto nervoso. (Il Mattino di Padova, 23 gennaio 2003)



    Suicidio: 1 febbraio 2003, Colonia Penale di Is Arenas (Cagliari)



    Roberto Sirigu, 33 anni, tossicodipendente, si impicca nella lavanderia dell’Istituto. Avrebbe finito di scontare la pena a dicembre. La notizia è trapelata con difficoltà all’esterno del carcere: è stato il consigliere regionale Nazareno Pacifico, membro della Commissione consiliare per i Diritti civili, a divulgare l’accaduto dopo averne avuto conferma da fonti certe. L’amministrazione penitenziaria, secondo quanto dichiarato dal consigliere regionale ad un’agenzia di stampa, non ha voluto fornire particolari sulla vicenda trincerandosi in un imbarazzato silenzio. (La Nuova Sardegna, 5 febbraio 2003).



    Suicidio: 1 febbraio 2003, Carcere di Caltanissetta



    Biagio Graci, 24 anni, sancataldese, si impicca in una cella del carcere "Malaspina". Soccorso da un compagno di cella e trasportato all’Ospedale "S. Elia", giunge al pronto soccorso ormai privo di vita ed i medici di turno non possono constatarne il decesso per impiccagione, comunicando la notizia alle guardie carcerarie che hanno scortato l’ambulanza fino all’ospedale. Adesso sarà il magistrato a decidere se restituire la salma ai familiari o effettuare l’ispezione cadaverica. Biagio Graci era in carcere da meno di due mesi, con l’accusa di tentato omicidio: aveva ferito il fratello, con una coltellata, al culmine di un litigio scaturito dalla scelta del programma televisivo. Aveva anche dei precedenti penali per droga ed a luglio del 2002 venne arrestato dai carabinieri perché trovato in possesso di alcuni grammi di eroina. Tre settimane prima del suicidio il tribunale della libertà gli aveva negato la scarcerazione e questo lo aveva fatto cadere in uno stato di assoluto sconforto. (La Sicilia, 6 febbraio 2002)



    Assistenza sanitaria disastrata: 7 febbraio 2003, Carcere di Padova (Reclusione)



    Riccardo Tonicello, 56 anni, muore all’Ospedale Civile di Padova. Soffriva di grave insufficienza epatica e, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio, un improvviso aggravamento delle sue condizioni spinge i medici del carcere a chiederne il ricovero urgente in ospedale Muore dopo poche ore. (Redazione di Ristretti Orizzonti).

    Diversa la versione ufficiale dei fatti: il detenuto Riccardo Tonicello, 56 anni, di Carpenedo, stava scontando una pena per piccoli reati nella Casa di reclusione di via Due Palazzi. A fine gennaio si era sentito male ed era stato trasferito all’Ospedale civile di Padova, dove però le sue condizioni si erano improvvisamente aggravate. Fino al decesso, avvenuto venerdì 7 febbraio. Il lunedì successivo, a casa dell’anziano padre arriva una telefonata. A chiamare è un’assistente sociale del carcere che chiede la data dei funerali di Riccardo. "I suoi compagni di detenzione vorrebbero inviare una corona di fiori", dice.

    Oreste Tonicello, 83 anni, di salute cagionevole, si sente male. Lui non sapeva nulla del decesso del figlio. Nessuno lo aveva informato. "È un fatto gravissimo - spiega Girolamo Quintavalle, cognato di Riccardo e consigliere comunale di Forza Italia a Carpenedo - Non ci hanno nemmeno avvertito che era ricoverato. Mio suocero poi, ha rischiato un infarto". Quintavalle dice di non conoscere ancora la causa della morte. "Ho chiamato al telefono la direzione del Due Palazzi - spiega - e mi hanno detto di scrivere una lettera e di aspettare la risposta, per sapere se e quando sarà possibile avere un colloquio". A quel punto, indignati, i famigliari di Riccardo Tonicello hanno informato dell’episodio il deputato verde Luana Zanella che ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, che dice: "È inaudito che una persona anziana venga a sapere con quattro giorni di ritardo ed in questo modo, del decesso del figlio. È chiaro che chi straparla delle carceri, senza avere esperienze dirette, dovrebbe riflettere". La parlamentare verde ha chiesto al ministro della Giustizia che vengano individuati i responsabili dell’increscioso episodio. (Il Gazzettino, 12 febbraio 2003).



    Tentato suicidio: 9 febbraio 2003, Carcere di Udine



    Alket Pekra, albanese, tenta di impiccarsi nel bagno della cella. Da due giorni, cioè quando era salito su uno dei muri interni del cortile della Casa Circondariale di Via Spalato, era rinchiuso in una cella da solo. L’agente di sorveglianza, non avvertendo la sua presenza, l’ha chiamato più volte senza ricevere risposta. A quel punto la guardia si è insospettita e ha dato l’allarme. L’agente è entrato nel bagno insieme ad un collega e si è trovato di fronte a una scena drammatica. Il detenuto, che aveva tentato di togliersi la vita usando i lembi della tuta che indossava, giaceva in condizioni disperate. Immediati i soccorsi. L’uomo è stato rianimato dal medico di guardia del carcere e poi affidato alle cure del personale del 118. Erano appena passate le 12.30. La situazione è apparsa subito grave ai primi soccorritori, che l’hanno messo nelle mani dei sanitari dell’ospedale Santa Maria della Misericordia, dove è tuttora ricoverato, nel reparto di Terapia intensiva.

    Due giorni prima del tentativo di suicidio, durante l’ora d’aria, l’uomo si era arrampicato su uno dei muri interni del cortile della Casa circondariale di via Spalato. Notato dagli agenti di sorveglianza, l’albanese aveva preferito scendere a terra senza opporre resistenza. In quell’occasione, il direttore del carcere, Francesco Macrì, non aveva parlato di tentata evasione perché dalla zona dove era salito il detenuto era "praticamente impossibile arrivare all’esterno del carcere". Alket Pekra è in attesa di giudizio, dovrà rispondere di tentato omicidio perché a novembre ha colpito al petto con un cacciavite un connazionale procurandogli lesioni gravi. Le sue condizioni restano gravissime: piantonato dalle guardie carcerarie, è ricoverato nel reparto di terapia intensiva nel nosocomio udinese. (Messaggero Veneto, 10 febbraio 2003).



    Suicidio: 15 febbraio 2003, Carcere di Oristano



    Mauro Saba, 38 anni, tossicodipendente, si uccide dopo 20 giorni di detenzione. Avrebbe dovuto scontare un residuo pena per maltrattamenti in famiglia e spaccio di hascisc. Mauro S. aveva moglie e due figli, una vita sfortunata passata alla ricerca di un lavoro, segnata da disavventure giudiziarie per piccoli reati, un periodo di terapia al servizio psichiatrico dell’Ospedale di Oristano e una parentesi in affidamento alla comunità per il recupero dei tossicodipendenti di Sanluri. Una vita tormentata, quella di Mauro, conclusa violentemente e, come spiegano anche i medici, forse in un posto sbagliato: la prigione. Una storia simile a quella dei due detenuti che si sono suicidati negli ultimi venti giorni in altre due prigioni della Sardegna. (L’Unità, 17 febbraio 2003).



    Suicidio: 25 febbraio 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)



    S.M., 24 anni, s’impicca nel bagno della sua cella nel reparto infermeria. Soffriva di disturbi borderline e per questo era stato ricoverato nell’infermeria. (Sito internet Associazione Antigone)



    Morte per cause non chiare: 28 febbraio 2003, Carcere di Forlì



    Michael Hadà, 28 anni, nigeriano, muore sul pavimento della cella. Durante il normale giro di controllo un agente di polizia penitenziaria trova il corpo, ormai senza vita. L’allarme scatta in piena notte, proprio quando nella struttura non vi è il medico, che invece presidia durante il giorno. Dai primi accertamenti sembra si tratti di un decesso naturale: un malore e il successivo infarto avrebbe stroncato l’extracomunitario che, comunque, riportava anche una ferita alla testa. Probabilmente la lesione è stata causata dall’impatto con il pavimento, quando il giovane straniero colto da malore ha perso i sensi. Sul caso è stata aperta un’inchiesta della Procura della Repubblica di Forlì. Il pubblico ministero, Filippo Santangelo, ha disposto un’autopsia proprio per togliere ogni dubbio. Il senegalese, in carcere a Forlì da pochi mesi per una vicenda legata al mondo delle sostanze stupefacenti, occupava una cella al secondo piano della Casa circondariale di via della Rocca, nella sezione ordinaria. Era un tipo tranquillo, che non aveva mai creato problemi agli agenti di polizia penitenziaria. Soltanto l’autopsia potrà chiarire le cause esatte della morte, avvenuta in una struttura nel mirino dall’estate scorsa, per il decesso di un 60enne e i sospetti su un altro decesso, avvenuto alle Vallette di Torino dopo il trasferimento da Forlì. (Corriere della Romagna, 1 marzo 2003).



    Overdose: 8 marzo 2003, Carcere di Aurelia (Roma)



    Manuela Contu e Franca Fiorini, rispettivamente di 42 e 37 anni, muoiono per overdose. Le trovano, abbracciate, in un lettino della loro cella, che non danno segni di vita: l’allarme scatta immediatamente, ma ormai non c’era più nulla da fare. Le indagini, coordinate dal procuratore capo Consolato Labate e dal sostituto Pantaleo Polifemo hanno portato rapidamente a risolvere il caso, con l’arresto di Benito Leofreddi, di 41 anni, originario di Ardea.

    Manuela Contu, di Roma, aveva avuto in passato dei legami con la banda della Magliana e da tre anni era ospite della sezione femminile di Aurelia, per scontare una pena per spaccio di sostanze stupefacenti. Franca Fiorini, di Sezze, era in carcere per furto da circa due anni. La mattina dell’8 marzo la Contu ha ricevuto la visita del Leofreddi (col quale ha avuto un bambino) ed è stato questo elemento ad indirizzare immediatamente le indagini sull’uomo che, con precedenti per furto, ricettazione, spaccio e rapina, era uscito dal carcere il 19 febbraio.

    Nell’abitazione del pregiudicato è stata trovata una lettera della Contu, con tutte le istruzioni per fare entrare la droga in carcere. "Metti due grammi di eroina - scriveva la detenuta all’amico appena tornato in libertà - in un palloncino e tienilo in bocca. Se ti perquisiscono e vedi che butta male, ingoialo, non ti succederà nulla. Se è tutto ok avvicinati, dammi un bacio e passami la droga. Vestiti con questo e quello... io capirò che hai la roba".

    Le agenti della polizia penitenziaria che hanno assistito al colloquio hanno avuto qualche sospetto, e appena finita la visita hanno perquisito la donna prima di riportarla in cella. Niente. Sia la Contu che la Fiorini si sono comportate in modo insolito nel pomeriggio e la cella è stata perquisita da cima a fondo e lo stesso è stato fatto per le due detenute. Non è stato trovato nulla. In serata, intorno alle 20, è stato scoperto il dramma. Gli inquirenti ritengono che le due detenute non assumessero sostanze stupefacenti da circa sei mesi e quindi un grammo di eroina a testa, assunto per inalazione, sia stato fatale. Si ritiene che il decesso sia avvenuto tra le 19 e le 19.30, ma per averne la certezza occorrerà attendere l’autopsia, che non verrà effettuata prima di due o tre giorni. (Il Messaggero, 11 marzo 2003).



    Suicidio: 9 marzo 2003, Carcere di Camerino (Macerata)



    Abed El Sfina, 32 anni, tunisino, si impicca dopo poche ore dall’arresto. Arrestato all’alba, con l’accusa di avere ucciso la moglie, si suicida nel pomeriggio dello stesso giorno. Maria Vito, 32 anni, era stata trovata strangolata nella notte tra l’8 e il 9 marzo nell’abitazione di Civitanova Marche del marito (da cui era però separata). Immediato l’arresto dell’uomo, che però si è tolto la vita impiccandosi in cella. (La Repubblica, 10 marzo 2003).



    Assistenza sanitaria negata: 9 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova)



    Leo L., 44 anni, ex tossicodipendente, è stroncato dall’AIDS nel Centro Clinico della Casa Circondariale. Trasferito d’urgenza all’Ospedale "San Martino", muore dopo due ore dal ricovero. Leo, originario del quartiere San Fruttuoso, era una vecchia conoscenza dei poliziotti di Marassi: a causa della malattia, negli ultimi anni, andava avanti e indietro fra le celle e i letti della divisione di malattie infettive del "San Martino". (Corriere Mercantile, 14 marzo 2003)



    Morte per cause non chiare: 11 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova)



    Un detenuto è trovato privo di sensi, nella sua cella, la mattina del 7 marzo. Ricoverato all’Ospedale "San Martino", le sue condizioni appaiono subito disperate e, dopo 4 giorni di agonia, muore nel Reparto di Rianimazione del nosocomio. (Corriere Mercantile, 14 marzo 2003)



    Suicidio: 12 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova)



    Santo R., 50 anni, si uccide ingerendo una massiccia dose di tranquillanti. L’uomo, accusato di avere violentato una famigliare, non riusciva a parlare con un magistrato: questo sarebbe il motivo che lo ha portato al gesto suicida. (Corriere Mercantile, 14 marzo 2003)



    Suicidio: 16 marzo 2003, Carcere di Viterbo



    Luigi Diana, 27 anni, si uccide aspirando il gas di una bomboletta e completando l’opera coprendosi il volto con una busta di plastica. A trovarlo sono stati gli agenti della polizia penitenziaria che erano in servizio. Sono stati loro stessi a cercare di prestargli le prime cure. Ma, purtroppo per il detenuto, non c’era più nulla da fare. Immediatamente è stato dato l’allarme e nella cella di Luigi Diana si è recato anche il medico di servizio, che non ha potuto far altro che constatarne il decesso, avvenuto poco prima. Dell’accaduto è stato avvertito il magistrato di turno, Carlo Maria Scipio, che ha disposto l’autopsia per avere un quadro preciso di quanto avvenuto all’interno del penitenziario viterbese. (Il Messaggero, 18 marzo 2003)



    Assistenza sanitaria negata: 17 marzo 2003, Carcere di Catania



    Maurizio Gallucci, 42 anni, muore di infarto. Il sostituto procuratore Francesco Testa, che procede d’ufficio, ha aperto un fascicolo contro ignoti (ma i familiari della vittima, difesi dall’avv. Maria Caterina Caltabiano, presenteranno al più presto una denuncia) per accertare eventuali responsabilità. L’autopsia sul cadavere del Gallucci è stata già eseguita dal dott. Giuseppe Ragazzo, affiancato dal tossicologo Guido Romano (entrambi nominati dal PM) e dal dott. Carlo Rossitto (nominato dalla parte offesa) e sembrerebbe confermare la diagnosi iniziale, che ad uccidere Gallucci sia stato un infarto.

    A loro volta i detenuti del carcere di piazza Lanza hanno scritto una lettera in cui, dopo avere ripercorso i momenti in cui il loro compagno si è sentito male, aggiungono: "Il medico si è visto arrivare solo verso le ore 20.45, orario in cui il Gallucci è stato portato presso l’infermeria del carcere aiutato da un altro detenuto, che lo ha dovuto ripulire, visto che gli infermieri si schifavano... Gallucci è morto ed è stato fatto morire privo di quella dignità di cui ogni essere umano, anche se detenuto, ha diritto. In questo carcere ammalarsi è un rischio, dato che possiamo segnarci una visita medica solo un giorno la settimana; se poi hai bisogno di uno specialista i mesi di attesa sono incredibili, le medicine a disposizione sono limitate e per potere acquistare dei farmaci per conto proprio bisogna avere l’autorizzazione della direzione e ci vuole un altro mese. Qui ci sono detenuti che per un esame al cuore aspettano da cinque mesi. Siamo abbandonati a noi stessi e privi di poterci ammalare come tanti altri essere umani, perché ognuno di noi potrebbe fare la fine di Gallucci, che per inciso era in attesa di giudizio. Adesso noi chiediamo: e se Gallucci fosse stato innocente?". (La Sicilia, 26 marzo 2003)



    Assistenza sanitaria negata: 22 marzo 2003, Carcere di Poggioreale (Napoli)



    Luigi Giusti, 59 anni, sofferente di una forma grave di diabete - che lo aveva portato alla cecità - muore nel carcere di Poggioreale. La notizia arriva dagli avvocati Alfonso ed Alberto Martucci, che hanno espresso "sgomento e sdegno" per "questa morte annunciata". "Più volte - affermano i legali di Giusti - erano state evidenziate, inutilmente, al magistrato di sorveglianza le gravi condizioni di salute del nostro assistito". Giusti era detenuto perché accusato di avere aperto alcuni punti vendita di mozzarelle, a Pietralcina e San Giorgio del Sannio (Benevento), con l’aiuto patrimoniale di un presunto camorrista. Sulla morte sono stati registrati gli interventi dell’eurodeputato radicale Maurizio Turco e del segretario dell’associazione "Nessuno tocchi Caino" Sergio D’Elia, nel corso di un dibattito sull’articolo 41 bis alla Camera Penale di Napoli. (Il Mattino, 23 marzo 2003).



    Suicidio: 25 marzo 2003, Carcere di Biella



    Maurizio Di Cuonzo, 27 anni, si impicca in cella. Il giovane, soffriva da tempo di crisi depressive e pare che la sera prima del suicidio avesse chiesto di andare in "isolamento". "La famiglia chiede chiarezza sull’episodio - precisa l’avvocato Luigi Florio - come mai sono state lasciate le lenzuola nella cella. Ci sono state omissioni nelle norme di sorveglianza? La notizia della morte del giovane in questi giorni non è trapelata, nonostante sia stata aperta un’inchiesta e anche questa è una anomalia. Si voleva tenere l’episodio coperto?". Maurizio Di Cuonzo è stato protagonista di numerosi episodi di cronaca nera. Nel 1998 si era presentato in questura chiedendo di essere arrestato "altrimenti faccio una follia". Nel marzo del 2002 ha rapinato un barista, in piazza San Secondo, con un coltello. Bottino pochi euro, fu preso dai carabinieri. (La Stampa, 28 marzo 2003).



    Suicidio: 30 marzo 2003, Carcere di Ancona



    Loris Costarelli, 20 anni, in attesa di giudizio per l’omicidio di un amico di 17 anni, si impicca nella doccia. Verso le 14 Loris Costarelli chiede di potersi fare una doccia. Richiesta che è accolta. E quando rimane solo tira fuori una striscia di stoffa e la annoda alla doccia. Un rapido gesto e quel pezzo di stoffa si trasforma in un cappio. Un agente penitenziario si accorge della tragedia che si sta consumando ed interviene immediatamente. Il giovane è subito trasportato in ospedale dove i sanitari, constatate le gravi condizioni, ne dispongono il ricovero in rianimazione. Il ragazzo, piantonato da un agente di custodia, è in coma. Il 2 aprile è dichiarato clinicamente morto. (Liberazione, 3 aprile 2003).

    Il gesto di Loris Costarelli è, in qualche modo, annunciato: il padre, Gianfranco Costarelli, aveva manifestato come un uomo sandwich davanti al Palazzo di giustizia di Ancona, chiedendo che il figlio venisse riconosciuto seminfermo di mente, al contrario di quanto stabiliva invece la perizia che, nello stesso momento della protesta, veniva discussa di fronte al giudice per le indagini preliminari. "Loris non si rende conto di quello che ha fatto a Matteo, non ha rimorsi. Mi ha detto che, se gli daranno una pena troppo alta, non l’accetterà, si ucciderà. È una persona debole". Loris era seguito da uno psicologo e, secondo quanto ha affermato il Dipartimento regionale per l’amministrazione penitenziaria, il suo stato psicologico sembrava stabile. Era però sotto stretta sorveglianza, anche se detenuto nella sezione comune (in una cella con un altro recluso). Sull’episodio verranno aperte due inchieste: una penale e una interna al carcere. Carcere dove, in base alla perizia psichiatrica, Loris sarebbe dovuto rimanere in attesa del processo vista la "potenzialità di pericolosità sociale". Perizia che ha definito il ventenne affetto "di un disturbo della personalità di tipo narcisistico e antisociale che comunque non farebbe scemare la sua capacità di intendere e di volere". (Il Messaggero, 31 marzo 2003)



    Assistenza sanitaria disastrata: 5 aprile 2003, Carcere di Poggioreale (NA)



    Mariano Maestrino, 35 anni, muore per un collasso cardiaco. Si tratta del secondo detenuto deceduto a Poggioreale in poco più di due settimane e sulla sua fine avrebbe influito negativamente la carenza di cure appropriate, che non gli potevano essere prestate a Poggioreale. Il 26 marzo Maestrino - sofferente di soprappeso e che proprio per questo accusava problemi respiratori e cardiaci - aveva partecipato all’udienza per la sospensione della pena, richiesta per il suo delicatissimo stato di salute. La sua obesità non aveva influito sul regime carcerario, tant’è vero che fino al suo ricovero nel centro diagnostico terapeutico della casa circondariale di Poggioreale, era rimasto in regime carcerario ordinario. Il suo difensore ha richiesto l’immediato intervento della Procura per ottenere la punizione di chi ha concorso per omissione, negligenza o imperizia alla morte del giovane detenuto. (Il Mattino, 7 aprile 2003).



    Suicidio: 18 aprile 2003, Carcere di Modena



    Detenuto italiano si uccide in cella. (Sito internet Associazione Antigone)



    Suicidio: 20 aprile 2003, Carcere di Pesaro



    Roberto Salidu, cagliaritano di 41 anni, si uccide impiccandosi con una sciarpa legata a un’inferriata, nel bagno del carcere di Pesaro. Prima di uccidersi scrive un biglietto, poche righe per spiegare i motivi del gesto: non sopportava l’idea di non poter uscire dal carcere, di dover rinunciare alla semilibertà. I problemi per Roberto Salidu iniziano qualche settimana fa, quando l’uomo litiga con un fratello. La sua famiglia risiede da tanti anni a Fano, una cittadina a venti chilometri da Pesaro. Salidu stava scontando una condanna a venticinque anni di reclusione, per un omicidio commesso in Lombardia. Qualche anno fa i giudici del tribunale di Pesaro hanno deciso di concedere al detenuto la semilibertà. L’uomo ha trovato lavoro nella falegnameria gestita da una cooperativa. Tutto sembrava filare liscio. Di giorno al lavoro e di sera il rientro in carcere per dormire. Qualche settimana addietro però Roberto Salidu litiga con il fratello e viene denunciato con l’accusa di minacce. L’episodio gli complica la vita. Il giudice del tribunale di sorveglianza sospende i benefici di legge e Roberto Salidu è costretto a rientrare in carcere. Non può uscire per andare in falegnameria, deve restare in cella. Passa qualche giorno e per il detenuto arriva una vera e propria mazzata: il magistrato revoca la semilibertà. L’uomo però non sopporta l’idea di tornare in carcere dopo tanti anni: quando il compagno di cella esce per l’ora d’aria, Roberto Salidu decide di rinunciare "alla socialità" con gli altri detenuti. L’uomo resta in cella, prende carta e penna, scrive un messaggio ai suoi familiari, poi lega una sciarpa alle inferriate del bagno e si lascia andare nel vuoto. Lo ritrovano le guardie del penitenziario dopo qualche minuto, ma i soccorsi sono inutili. Arrivano anche i medici del carcere, ma non possono far altro che constatare la morte del detenuto. Sull’episodio è stata aperta un’inchiesta, coordinata dal procuratore della repubblica di Pesaro Stefano Celli. Ieri il magistrato ha disposto la perizia necroscopica sul cadavere dell’uomo. Si tratta di una prassi che viene sempre rispettata quando un detenuto si toglie la vita in cella. (L’Unione Sarda, 22 aprile 2003).



    Suicidio: 22 aprile 2003, Carcere di Verbania



    Khezzane El Jilali, 43 anni, originario del Marocco, si impicca con la cintura dei pantaloni, approfittando del momento in cui i compagni di cella sono fuori per l’ora d’aria. La Procura della Repubblica non ha disposto l’autopsia. Il sostituto procuratore Marco Mescolini, sulla scorta dei rilievi dei periti di medicina legale, ha ritenuto esauriente l’ispezione esterna del cadavere. Non vi sarebbero dubbi sulle cause del decesso: morte per soffocamento e arresto cardiaco da impiccagione. El Jilali era stato arrestato due anni fa dai carabinieri di Trofarello (Torino) per violenza sessuale nei confronti di una giovane di 29 anni e, per questo, era detenuto nella speciale sezione protetta, allestita poco più di un anno fa nella Casa Circondariale verbanese. Avrebbe dovuto scontare ancora un paio d’anni. (La Stampa, 24 aprile 2003).



    Suicidio: 23 aprile 2003, Carcere di Livorno



    Giovane turco si uccide impiccandosi con le stringhe delle scarpe, legate alle inferriate della cella. Un gesto disperato dettato, sembra, da problemi affettivi. La Procura in queste ore sta verificando alcuni aspetti della vicenda. Rigoroso è il riserbo sull’indagine volta a sapere se la morte del giovane poteva essere evitata. Il magistrato titolare dell’inchiesta, Mario Profeta, sta acquisendo ulteriori elementi, dopo aver acquisito una sorta di biglietto scritto pare in lingua turca. Il cadavere del giovane è stato trasferito all’obitorio dell’ospedale, in attesa delle decisioni della magistratura. (La Nazione, 27 aprile 2003).



    Morte per cause non chiare: 25 aprile 2003, Carcere di Verona



    Antonio Barbato, 25 anni, napoletano di origine, muore nel letto della sua cella. L’improvviso decesso si è subito tinto di giallo, anche perché il magistrato di turno, Beatrice Zanotti, ha disposto l’autopsia per verificare le cause della morte di quel detenuto. Da un primo esame esterno, l’uomo potrebbe essere deceduto per cause naturali. A fare la triste scoperta è stato il personale di polizia penitenziaria, che stava eseguendo l’ispezione del mattino. Il corpo dell’uomo era ancora caldo, a significare che la morte aveva colto il detenuto poco tempo prima della macabra scoperta. E gli altri due detenuti che dividevano la cella con lui, hanno detto alla polizia penitenziaria, che li ha sentiti a verbale, di non essersi accorti di nulla. Barbato, secondo quanto s’è appreso godeva di ottima salute, ma in passato aveva fatto uso di sostanze stupefacenti. Quando venne arrestato, nel settembre del 2002, assieme al complice Antonio Abramo, al giudice che ne aveva convalidato l’arresto, i due dissero che avevano deciso di compiere una rapina perché avevano bisogno di denaro per acquistare droga. (L’Arena di Verona, 26 aprile 2003)



    Suicido: 30 aprile 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)



    Alluad Abdel Rahim, 20 anni, marocchino, si impicca alle sbarre della sua cella, nel reparto G12. Arrestato per furto, sarebbe dovuto uscire il 16 aprile, però sembra che gli fosse stato notificato un nuovo cumulo di pene per effetto del quale la sua detenzione si era prolungata di un anno. Secondo la direzione del carcere, però, la notizia gli era già arrivata a febbraio e, dunque, non sarebbe la causa immediata del suicidio. Secondo il tam tam di "radio carcere", invece, al ragazzo sarebbe stato impedito di vedere il suo avvocato. (Il Manifesto, 3 maggio 2003)



    Suicidio: 1 maggio 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)



    Marco De Simone, 41 anni, si impicca in una cella del reparto minorati psichici, 48 ore dopo essere arrivato a Rebibbia. Era stato dichiarato incompatibile con il regime carcerario. L’uomo, ha riferito il suo legale, era già stato ricoverato nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli e anche nel reparto psichiatrico dell’Ospedale "Sant’Eugenio" di Roma. Avrebbe dovuto scontare un cumulo di pene per un totale di 8 mesi e 15 giorni. (Corriere della Sera, 3 maggio 2003).



    Suicidio: 5 maggio 2003, Carcere di San Vittore (Milano)



    Chamorro Morocho, 30 anni, ecuadoriano, si uccide nel reparto "nuovi giunti". Era stato arrestato due giorni prima, per avere ucciso la moglie e ferito il figlio, investendoli con un’auto. Alla visita medica risulta ammalato di tubercolosi, però nel reparto infermeria non c’è posto e quindi rimane in una cella del reparto "nuovi giunti", con altre nove persone. Il giorno seguente lo trovano in bagno, impiccato. Dopo due mesi di accertamenti, la Procura non si limita a escludere qualsiasi responsabilità degli agenti, per la mancata sorveglianza dell’arrestato, ma elogia la direzione per "l’innegabile attenzione" al problema dei suicidi, fino a concludere che i problemi oggettivi di San Vittore sono tanto gravi da mettere in dubbio perfino l’obiettivo minimo della sopravvivenza: "Le condizioni di sovraffollamento e la cronica mancanza di mezzi in cui versa il carcere rendono sostanzialmente impossibile attuare una politica di reale ed efficace prevenzione degli atti autolesivi e dei suicidi (...) Si tratta di condizioni di detenzione non degne di un Paese civile".

    Il 4 maggio Chamorro Morocho, nella visita di routine dello psicologo, "non dichiara propositi autolesivi", ma il medico, come per ogni protagonista di delitti familiari, dispone comunque "massima sorveglianza, con controlli ravvicinati". Il detenuto risulta malato di tubercolosi, ma "per mancanza di celle idonee" viene rinchiuso in una stanza di fortuna, ricavata nella sala d’attesa. Il pericolo di contagio ne imporrebbe "l’isolamento sanitario", ma in quella "piccola cella con i materassi a terra" sono ammassati altri nove detenuti stremati dall’afa. Alle 13.20 del 5 maggio il recluso ecuadoriano s’impicca in bagno "con una stringa delle sue scarpe, lunga 107 centimetri". È questo particolare a far partire l’inchiesta: com’è possibile che a un detenuto a rischio sia stata lasciata la corda per impiccarsi? Per cominciare, il P.M. Marco Ghezzi accerta che "non esiste una normativa sul punto": ci sono generiche "circolari sull’autolesionismo", ma "nessuna affronta il problema del vestiario". Poi, in una testimonianza definita dal magistrato "sconfortante" ma "illuminante", il direttore di San Vittore, Luigi Pagano, spiega che il carcere avrebbe "una capienza massima di 800 detenuti", ma quel giorno dietro le sbarre ce ne sono 1.326 e solo perché "un reparto e mezzo sono chiusi": la media ordinaria è di "oltre 1.600" reclusi.

    Motivando l’archiviazione, il P.M. aggiunge che "mancano personale e mezzi: in particolare la direzione non dispone di vestiario che eviti rischi di suicidio", nemmeno per i detenuti per cui questo è "elevato". Le guardie, insomma, non hanno scelta: se pretendessero di sequestrare a tutti "i capi a rischio", gli arrestati "circolerebbero seminudi". "Pur apparendo auspicabile che non vengano più lasciate stringhe" così lunghe, conclude il P.M., "non sembra che la morte di Chamorro si possa attribuire alla responsabilità del personale carcerario".

    Il vero problema è che la stessa struttura del carcere non rispetta "l’incoercibile diritto" di ogni detenuto "di essere custodito in un ambiente che rispetti la sua dignità, oltre che la sua salute e sicurezza". Già nel novembre scorso la Procura, chiudendo un’altra inchiesta sul suicidio di due detenuti a massimo rischio, aveva spedito al ministero della giustizia una relazione su che denunciava "l’evidente violazione dei diritti umani dei detenuti di San Vittore". (Corriere della Sera, 18 luglio 2003).



    Tentato suicidio: 16 maggio 2003, Carcere di Nuoro



    Detenuto di 79 anni tenta il suicidio dopo aver saputo dell’imminente trasferimento in un altro carcere e viene salvato in extremis dagli agenti. (La Nuova Sardegna, 17 maggio 2003).



    Tentato suicidio: 17 maggio 2003, Carcere di Pesaro



    Napoletano, 40 anni, tenta il suicidio impiccandosi in cella. L’uomo sarebbe stato indotto alla disperazione a causa del rifiuto, oppostogli dalla magistratura competente, a una sua richiesta di sospensione della pena a causa di motivi di salute: ha tentato di impiccarsi all’interno della sua cella ma l’intervento repentino, prima del compagno, poi delle guardie carcerarie, ha permesso di salvarlo. Trasportato dal 118 al Pronto soccorso dell’ospedale "S. Salvatore", versa in condizioni serie ma non è in pericolo di vita. (Il Resto del Carlino, 18 maggio 2003)



    Tentato suicidio: 18 maggio 2003, Carcere di Perugia



    Un detenuto del carcere circondariale di piazza Partigiani a Perugia, è stato ricoverato al centro rianimazione di uno dei due ospedali perugini. La prognosi, secondo indiscrezioni, sarebbe riservatissima. L’uomo, di cui non si conosce praticamente nulla, avrebbe tentato di togliersi la vita impiccandosi nella propria cella. Ma il tentativo del gesto estremo del recluso è stato evidentemente scoperto in tempo, perché, benché in condizioni gravissime, se non addirittura disperate, l’uomo è ancora vivo. (La Nazione, 19 maggio 2003)



    Suicidio: 19 maggio 2003, Carcere di Macomer (Nuoro)



    Ivan Ditriiev, 22 anni, bulgaro, si impicca. Era nel carcere di Macomer da una decina di giorni. Il giovane, tossicodipendente dall’età di nove anni (sarebbe uscito dal carcere nel luglio del 2004 dopo aver scontato una condanna per tentata rapina), è stato trovato intorno alle 15.30 da un agente della polizia penitenziaria, lo stesso con cui poco prima aveva scambiato due parole senza che nulla facesse presagire le sue intenzioni. Il ragazzo bulgaro, ancora agonizzante, era appeso all’inferriata della finestra della cella con una striscia di lenzuolo. I tentativi di salvarlo, scattati immediatamente con l’intervento del personale in quel momento in servizio, sono stati inutili.

    Ivan Ditriiev ha sicuramente approfittato dell’assenza del compagno di cella, che si trovava in un’altra parte del carcere, impegnato in un lavoro, per farla finita. Ha chiuso così con una vita di sofferenze, fatta di solitudine, piccoli episodi di criminalità, carcere e processi. Una vita scandita dalla solitudine, che nemmeno i periodici colloqui con il personale specializzato addetto alla cura dei detenuti sono riusciti a cambiare. Pare che Ivan avesse più volte detto di non trovarsi bene a Macomer e avesse chiesto più volte di tornare nel carcere di Milano, da dove era stato trasferito. Descritto come un tipo introverso e taciturno, poco prima del suicidio aveva avuto un colloquio con un’educatrice della Casa circondariale. Dell’episodio è stato immediatamente informato il magistrato di turno presso la procura del Tribunale di Oristano che ha autorizzato la rimozione del cadavere, anche se, secondo alcune indiscrezioni, non sarebbe stata disposta l’autopsia ma un semplice "esame esterno". Sulla vicenda è stata comunque aperta un’inchiesta da parte dell’autorità giudiziaria, che ha affidato gli accertamenti al comando di Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Macomer. Occorrerà stabilire i motivi che hanno indotto il giovane originario dell’Est a un gesto così estremo. (L’unione Sarda, 21 maggio 2003)



    Morte per cause non chiare: 22 maggio 2003, Carcere di Alba (CN)



    C.A., 28 anni, si sente male in cella e muore poco dopo nell’infermeria del carcere. Sul decesso è in corso un’indagine, coordinata dal sostituto procuratore della Repubblica, Federico Bressan, che ha subito disposto l’autopsia, già eseguita nella giornata di ieri. Dai primi accertamenti sarebbe emerso che il giovane non aveva fatto uso di droga, né di sostanze alcoliche, così come non sono risultati atti di violenza contro la sua persona. L’ipotesi formulata è che sia stato vittima di un rigurgito, che gli è stato fatale. Per stabilire con esattezza le cause della morte si attendono il pronunciamento del medico legale e i risultati dell’autopsia, mentre proseguono le indagini da parte degli inquirenti. Secondo alcune indicazioni, sarebbe stata una persona debilitata nel fisico, nonostante la giovane età. Pare che fosse in carcere per un furto, ma che avesse già alcuni precedenti. (La Stampa, 24 maggio 2003).



    Suicidio: 27 maggio 2003, Carcere di Sassari



    Giovanni Cabras, 28 anni, si uccide impiccandosi nel bagno della cella. Il giovane, che scontava una condanna per reati contro il patrimonio, è stato trovato morto dai compagni di cella. In passato si era tagliato le vene, era stato ricoverato in reparti psichiatrici. Dopo un’udienza in tribunale era apparso prostrato, al rientro in carcere: un suicidio annunciato, dunque. (Liberazione, 28 maggio 2003).



    Morte per cause non chiare: 28 maggio 2003, Carcere di Como



    Giuseppe Romeo, 51 anni, viene trovato senza vita dalle guardie. Ancora tutte da chiarire le circostanze della morte: l’ipotesi più accreditata è quella del suicidio, ma occorrerà attendere lo svolgimento delle indagini. Proprio per questo motivo, la data dei funerali non è ancora stata fissata. Da tempo noto alla giustizia, Romeo era stato più volte condannato, per droga e anche per rapina. L’ultima volta era finito in carcere a febbraio quando, in seguito ad un controllo dei carabinieri, presso la sua abitazione in Corte Marforio era stata rinvenuta una pistola e alcune cartucce. La libertà l’aveva riacciuffata pochi mesi prima, dopo avere scontato la condanna per una rapina a mano armata compiuta nel Vimercatese. (La Provincia, 30 maggio 2003).



    Suicidio: 29 maggio 2003, Carcere di Prato



    S.B., 68 anni, ergastolano in regime di semilibertà, si uccide in cella. La dinamica della morte è ancora in fase di accertamento da parte della polizia penitenziaria: in un primo momento sembrava che l’uomo avesse utilizzato una delle piccole bombole del gas in dotazione nella struttura carceraria, poi che abbia usato un sacchetto di plastica per soffocarsi. Il sostituto procuratore Sergio Affronte ha disposto accertamenti. Serviranno parecchi giorni per conoscere i risultati dell’autopsia: il suicidio non sembra essere in discussione, anche se rimane inspiegabile il gesto di un uomo che, dopo anni di prigione, stava per tornare libero. (La Nazione, 31 maggio 2003).



    Suicidio: 9 giugno 2003, Carcere di Cagliari



    Roberto Sanna, 37 anni, tossicodipendente, si impicca alle sbarre della cella mentre i compagni erano fuori per l’ora d’aria. Un suo compagno di cella lo soccorre, poi arrivano gli agenti, ma le sue condizioni appaiono subito gravissime. Viene ricoverato nel reparto di rianimazione del "Santissima Trinità", dove muore il 12 giugno. Era in carcere da poche ore, dopo un tentativo di furto di un’auto. (L’Unione Sarda, 13 giugno 2003).



    Suicidio: 15 giugno 2003, Carcere di Bologna



    Paride C., 29 anni, accusato di spaccio di banconote false, si uccide perché, non gli era stato concesso il premesso per andare al funerale della fidanzata. Il deputato Verde Paolo Cento, vicepresidente della Commissione giustizia della Camera, ha annunciato la presentazione di un’interpellanza urgente al Ministro della Giustizia sul suicidio di Paride C.. "Il suicidio del detenuto è purtroppo la conferma di una situazione penitenziaria ormai non più sostenibile, ha scritto il parlamentare Verde, d’altra parte vi sono gravi inadempienze e violazioni dei diritti dei detenuti". (Il Resto del Carlino, 16 giugno 2003 - Corriere della Sera, 24 giugno 2003).



    Overdose: 17 giugno 2003, Carcere di Torino



    Giovane originario della Costa d’Avorio muore di overdose alle Vallette. (La Stampa, 18 giugno 2003).



    Suicidio: 23 giugno 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)



    Gennaro Di Gennaro, 40 anni, sieropositivo, si uccide riempiendo un sacchetto di gas fatto uscire da una bomboletta e poi chiudendosi la testa dentro quel mortale involucro. Era ricoverato nel reparto G14, che funge da infermeria per i malati più gravi. Di Gennaro era ammalato, non ce l’ha fatta a resistere dentro quella gabbia di celle bianche che è il G14 di Rebibbia. A dare la notizia è stato il vicepresidente della commissione comunale sul carcere, Eugenio Iafrate, responsabile per Villa Maraini del progetto sulle tossicodipendenze in carcere. Nessun commento dalla struttura, dove ieri il direttore Carmelo Cantone veniva dato come assente e dove erano altrettanto irrintracciabili i suoi sostituti. Il problema del trattamento degli ammalati, e in particolare degli ammalati di Aids, è una delle questioni più annose che hanno a più riprese focalizzato il dibattito sulla questione dell’incompatibilità tra carcere e malattie gravi. La Consulta permanente penitenziaria del Comune di Roma, attraverso il vicepresidente Eugenio Iafrate, ha espresso ieri tristezza per la vicenda ribadendo "le precarie condizioni psicofisiche dei detenuti negli istituti di pena". Per Iafrate è "estremamente necessario" il passaggio dalla medicina penitenziaria a quella pubblica del Servizio Sanitario Nazionale. L’associazione dei detenuti "Papillon" ha aggiunto: "Il suicidio di Di Gennaro è l’ennesimo caso di persone che non trovano un sostegno psicologico adeguato e che quindi finiscono in questo brutto modo". (Corriere della Sera, 25 giugno 2003).



    Suicidio: 27 giugno 2003, Carcere di Piacenza



    Detenuto italiano si uccide in cella. (Sito internet Associazione Antigone)



    Overdose: 2 luglio 2003, Carcere di Civitavecchia (RM)



    Un detenuto del carcere di Civitavecchia è ricoverato in gravissime condizioni nel reparto di rianimazione del San Paolo per un’overdose di eroina. L’uomo è stato trovato privo di sensi nella sua cella. Un altro recluso è nello stesso ospedale per le ferite che si è inferto in varie parti del corpo. (Il Corriere della Sera, 3 luglio 2003).



    Suicidio: 3 luglio 2003, Carcere di Marsala (TP)



    S.B., 33 anni, si uccide al secondo giorno di detenzione. Era accusato di aver violentato una bambina di nove anni, sua lontana parente. Dopo l’arresto aveva respinto l’accusa di aver abusato della bimba; è morto mentre veniva trasportato in ambulanza dal carcere al pronto soccorso dell’ospedale di Marsala. (Panorama, 9 luglio 2003).



    Suicidio: 3 luglio 2003, O.P.G. di Aversa (Ce)



    Detenuto italiano si uccide in cella. (Sito internet Associazione Antigone)



    Suicidio: 4 luglio 2003, Carcere di Secondigliano (Napoli)



    Ciro Castaldo si impicca mentre è chiuso in una "cella liscia". Era detenuto dal 25 agosto 2001 e avrebbe terminato la pena nel 2008. (Newsletter n° 1 dell’Associazione Antigone, luglio 2003).



    Suicidio: 5 luglio 2003, Carcere di Regina Coeli (Roma)



    Nicola Cozzolino, 20 anni, muore dopo aver aspirato gas da una bomboletta. Era in carcere da circa due mesi, dopo che gli erano stati revocati gli arresti domiciliari. Il giovane aveva chiesto di essere inserito nei piani di assistenza del Ser.T. interno al carcere, la struttura di sostegno per i tossicodipendenti, ma la sua domanda era ancora in corso di valutazione. Cozzolino, residente a Centocelle, era stato arrestato un anno fa dopo essere stato riconosciuto da numerosi ragazzi che erano stati derubati di cellulari, portafogli, catenine. A denunciare la sua morte è stato il parlamentare Paolo Cento, dopo una visita all’Istituto di Pena di Via della Lungara. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta, che dovrà stabilire se la morte di Cozzolino sia stata conseguente all’uso di gas per scopo stupefacente, oppure se si è trattato di suicidio. (Corriere della Sera, 6 luglio 2003).



    Suicidio: 6 luglio 2003, Carcere di Piacenza



    Giosuè Matera, 25 anni, originario di Foggia, si uccide in cella, strangolandosi con la cintura dell’accappatoio. Si trovava in carcere dal mese di febbraio 2002, con l’accusa di avere partecipato ad una rapina. Da pochi giorni ERA stato trasferito dal carcere di Parma a quello di Piacenza e, per disposizione dei magistrati, era in cella d’isolamento. Il 9 luglio sarebbe dovuto comparire davanti al G.U.P. del Tribunale di Parma, per l’udienza preliminare. La Procura ha incaricato un medico legale di Pavia di effettuare l’autopsia sulla salma del giovane, ma non vi sarebbero però dubbi sugli intenti suicidi del detenuto che, secondo quanto si è appreso, sarebbero stati espressi anche per iscritto, nelle pagine di un’agenda ritrovata nella sua cella ed acquisita agli atti. I genitori del giovane hanno nominato un legale per seguire le fasi degli accertamenti. Si vuole in sostanza accertare se vi siano delle responsabilità sulla morte del detenuto da parte di qualcuno. (Libertà. Quotidiano di Piacenza, 13 luglio 2003).



    Suicidio: 17 luglio 2003, Carcere di Bergamo



    Vittorio Damiani, 62 anni, parroco di Villa di Serio (BG), si impicca in una cella della sezione di isolamento. Era detenuto dal 6 maggio 2003, con l’accusa di concorso in abusi sessuali si minori. Il sacerdote si proclamava innocente e pronto a ribaltare ogni addebito ma poi, forse, ha pensato che la vergogna non si cancella mai, anche quando nasce da accuse non vere. Tutto era partito dalla magistratura di Chiavari, che aveva poi passato gli atti a quella di Bergamo. Un primo ricorso al Tribunale della libertà di Genova era stato respinto. La scorsa settimana il legale del sacerdote ne aveva fatto un secondo, al Tribunale del Riesame di Brescia, col quale faceva notare che nessun provvedimento restrittivo era stato emesso dalla magistratura di Bergamo e, visto che l’ordinanza emessa dal giudice di Chiavari era ormai decaduta, chiedeva il suo rilascio. Tesi accolta dai giudici del riesame di Brescia, che hanno disposto la scarcerazione del sacerdote. Ma nello stesso momento il P.M. Carmen Pugliese ha emesso un ordine di fermo giudiziario, temendo che don Damiani fuggisse. Costretto a restare in cella – sopraffatto dal dolore, dal rimorso, dalla vergogna, non si saprà mai – don Vittorio ha preferito la morte. (Il Giornale, 19 luglio 2003).



    Suicidio: 21 luglio 2003, Carcere di Cagliari



    Damiano M., 26 anni, si uccide inspirando il gas di una bomboletta. Due compagni di cella notano che il giovane è sul letto, quasi rannicchiato, in una posizione insolita. Un detenuto lo chiama, ma Damiano M. non risponde. A quel punto chiede l’intervento delle guardie penitenziarie, che chiamano il medico. Damiano M. è trasportato in ospedale, ma ogni tentativo per rianimarlo si rivela inutile. Stava scontando una condanna per lesioni. In passato era stato arrestato anche con l’accusa di furto. Secondo le poche notizie filtrate negli ultimi tempi il giovane aveva problemi di salute. Non si conoscono i motivi che lo hanno spinto al suicidio, ma è chiaro che anche questo episodio testimonia la situazione di estremo disagio all’interno del vecchio penitenziario. Nei giorni scorsi un altro detenuto avrebbe cercato di togliersi la vita, sempre inspirando del gas. Ma, in questa circostanza, l’intervento delle guardie penitenziarie avrebbe scongiurato l’ennesima tragedia. Nel 2003 a "Buoncammino" si sono suicidati altri tre detenuti. (L’unione Sarda, 23 luglio 2003).



    Suicidio: 24 luglio 2003, O.P.G. di Aversa (NA)



    Angelo Vallone, 23 anni, si impicca nella Sezione "Staccata" dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. (Newsletter n° 1 dell’Associazione Antigone, luglio 2003).



    Tentato suicidio: 27 luglio 2003, Carcere di Ancona



    Giovane detenuto albanese tenta di uccidersi in cella e viene salvato dal pronto intervento delle guardie carcerarie. Il ragazzo, in carcere per reati non pesanti, ha cercato di impiccarsi ad una sbarra: subito soccorso e trasportato al pronto soccorso di Torrette è stato giudicato fuori pericolo. Si tratta del secondo caso di tentativo di suicidio, nel giro di pochi giorni, nel carcere di Ancona. Nel caso precedente un detenuto italiano aveva bevuto un flacone di detersivo per l’igiene della casa. (Il Messaggero, 31 luglio 2003).



    Suicidio: 28 luglio 2003, Carcere di Agrigento



    Antonino Frenna, 50 anni, si impicca in cella. Era in carcere da un mese, arrestato dopo avere vibrato una coltellata al suo futuro genero. I legali di Frenna, Salvatore Re e Monica Malogioglio chiesero per lui la riqualificazione del reato da tentato omicidio in lesioni aggravate, chiedendo anche l’immediata scarcerazione del loro assistito. In attesa del pronunciamento del giudice, Frenna è rimasto chiuso nella sua cella, con la possibilità di vedere ogni tanto i propri cari, durante le ore di colloquio permesse dalla direzione del carcere. Lunedì scorso Frenna si incontrava con la madre e un fratello, anch’esso detenuto a Petrusa: al termine del faccia a faccia, il cinquantenne ha fatto ritorno nella sua cella, avendo già in mente di uccidersi. Annodatosi un lenzuolo al collo si è strozzato. Un attimo dopo è scattato l’allarme.

    La salma di Frenna è stata trasportata nella camera mortuaria dell’ospedale di Agrigento, dove ieri, su disposizione del sostituto procuratore Camillo Poillucci, il medico legale Gianfranco Pullara ha effettuato l’ispezione cadaverica. Al magistrato non è rimasto altro da fare che aprire l’inchiesta, per stabilire eventuali responsabilità per la morte del detenuto. Uno dei reati ipotizzati è istigazione al suicidio. Dal carcere giunge il commento pieno di rammarico del direttore, Laura Brancato, la quale ha evidenziato come "d’estate in molte carceri può accadere che qualcuno si lasci andare allo sconforto". (La Sicilia, 30 luglio 2003).



    Assistenza sanitaria disastrata: 13 agosto 2003, Carcere di Catanzaro



    Emiliano Mosciaro, 47 anni, muore di peritonite. Stava scontando una pena di sette anni, per il reato di associazione a delinquere. Il 4 agosto telefona alla madre, per dirle che non si sente bene e che le cure dei medici del carcere non funzionano. Emiliano soffre di crisi depressive e quei dolori addominali, che accusa da qualche giorno, sono forse scambiati per effetti di una qualche forma di somatizzazioni. Il giorno dopo la telefonata alla madre Emiliano viene trasferito d’urgenza all’Ospedale di Catanzaro, su richiesta di un medico esterno che lo ha visitato in carcere.

    Troppo tardi. Mosciaro viene operato d’urgenza ma l’appendicite si è ormai trasformata in peritonite acuta, con stato di necrosi avanzata. Emiliano combatte per sette lunghi giorni con la morte, ma senza risultati positivi. Muore la mattina del 13 agosto. I famigliari, da quel giorno, non riescono a darsi pace per quella che ritengono una morte assurda e assolutamente evitabile. Il giorno dopo, infatti, viene sporta denuncia presso la Procura della Repubblica. La dottoressa Pezzo, nel chiedere l’autopsia, ha aperto un’inchiesta per stabilire e verificare colpe o negligenze da parte di qualcuno e nei prossimi giorni si potrebbero conoscere gli esiti e gli sviluppi di tale inchiesta. (Il Quotidiano di Calabria, 25 ottobre 2003)



    Suicidio: 18 agosto 2003, carcere di Pesaro



    H.J., 30 anni, si impicca utilizzando un lenzuolo di stoffa - carta. Si tratta di un tunisino, anche se non vi è certezza sull’identità da lui asserita, in quanto era sprovvisto di documenti. L’uomo era in carcere da dieci giorni, per spaccio di stupefacenti. Non ha lasciato tracce o manoscritti dai quali si possa risalire alle motivazioni del suo gesto. Il fatto - avvenuto quasi certamente poco dopo le 16, immediatamente dopo il cambio del turno - è stato scoperto dall’agente di polizia penitenziaria in servizio nel reparto, il quale, accortosi dell’accaduto, ha immediatamente avvertito il personale medico e paramedico; ogni tentativo di rianimazione è però risultato vano. La vicenda è al vaglio del magistrato pesarese Massimo Di Patria. (Il Messaggero, 19 agosto 2003).



    Tentato suicidio: 26 agosto 2003, Carcere di Ancona



    N.M., di nazionalità algerina, tenta di uccidersi ingoiando una lametta. L’uomo è trasportato al pronto soccorso dell’ospedale di Torrette, da dove viene dimesso poche ore dopo. I medici ritengono che le dimensioni della lametta non sono in grado di provocare lesioni. (Corriere Adriatico, 8 settembre 2003).



    Suicidio: 1 settembre 2003, carcere di Busto Arsizio



    Faif Meyah, marocchino, 30 anni, si impicca con un lenzuolo alla maniglia del bagno della sua cella. Era detenuto per rapina e, da diversi giorni, si trovava in cella in isolamento. (Liberazione, 2 settembre 2003).



    Morte per cause non chiare: 2 settembre 2003, carcere di Massa Carrara



    F.M., 29 anni, affetto da problemi mentali, muore nella sua cella durante la notte. Era entrato in carcere due giorni prima, dopo essere stato fermato da una pattuglia di carabinieri perché evaso dalla struttura in cui era agli arresti domiciliari. Il direttore del carcere dichiara alla stampa che si è trattato di un malore, determinato dal fatto che il ragazzo era dedito all’uso di sostanze stupefacenti, ma le sue parole sono smentite con forza dai parenti e dal tutore del giovane carcerato. "Non era un drogato - afferma l’avvocato Pasquali - era solo un ragazzo con problemi comportamentali e mentali, che non sapeva distinguere il bene e il male, le situazioni di pericolo e le azioni malvagie". F.M. da bambino aveva subito un grave incidente stradale che gli aveva procurato una perdita di parte del lobo frontale del cervello, la sede della "capacità decisionale". Un ragazzo comunque sano fisicamente, giovane, non dedito a droghe, la cui morte per malore "suona" all’avvocato Pasquali in modo davvero strano. Una risposta più certa ai dubbi sollevati dalla famiglia e dal tutore del ragazzo deceduto arriverà dall’esito dell’autopsia, disposta dal Pubblico Ministero Alberto Dello Iacono ed eseguita dal dottor Di Paolo dell’università di Pisa. A tutela del defunto è stato nominato anche un perito di parte per un’altra disamina degli elementi dell’autopsia. Saranno questi dati che permetteranno di ricostruire la storia di quella misteriosa notte in cui un ragazzo di 29 anni, con disturbi mentali, è morto, da solo, in carcere. (La Nazione, 15 settembre 2003).



    Suicidio: 6 settembre 2003, Carcere di Poggioreale (Napoli)



    Gennaro Pecchia, 23 anni, si uccide impiccandosi. Era in carcere da meno di 24 ore, arrestato dopo un tentativo di rapina ad un benzinaio. Sull’episodio è stata immediatamente aperta un’inchiesta interna al carcere partenopeo, ma anche la procura della Repubblica di Napoli vuole vederci chiaro, per conoscere le cause che hanno spinto il giovane a chiudere così tragicamente i suoi giorni. Gli inquirenti, in questa direzione, avrebbero già ascoltato il compagno di cella. (Il Mattino, 9 settembre 2003)



    Assistenza sanitaria disastrata: 7 settembre 2003, Carcere di Sassari



    Detenuto tossicodipendente, 52 anni, muore di tubercolosi due settimane dopo il ricovero nel reparto malattie infettive dell’ospedale di Piazza Fiume, a Sassari. Il suo era stato il quarto ricovero, per sospetto caso di tubercolosi, individuato nel carcere di San Sebastiano. Prima di lui erano finiti nel reparto di malattie infettive un altro detenuto e un agente di polizia penitenziaria, mentre il terzo caso si è registrato a Nuoro nel mese di agosto e riguardava un detenuto appena trasferito dal carcere di Sassari. (L’Unione Sarda, 24 settembre 2003).



    Tentato suicidio: 7 settembre 2003, Carcere di Ancona



    S.I., 24 anni, di origine slava, tenta di impiccarsi, ma le guardie carcerarie intervengono prima che il giovane riesca stringere il cappio attorno al collo. S.I. viene trasportato al pronto soccorso dell’ospedale di Torrette, da dove viene dimesso dopo poche ore. Con tutta probabilità voleva compiere un gesto dimostrativo. (Corriere Adriatico, 8 settembre 2003).



    Suicidio: 16 settembre 2003, carcere Castrovillari (CS)



    S.S., 50 anni, di nazionalità jugoslava, si uccide durante la notte. Gli agenti di polizia penitenziaria lo rinvengono, ormai privo di vita, verso le tre di mattina: si è legato un lenzuolo attorno al collo fissandone un capo alla grata della cella e poi si è lasciato cadere nel vuoto. Nonostante gli immediati soccorsi ai medici non è rimasto che constatarne il decesso: il corpo è stato quindi trasportato all’ospedale di Castrovillari. Tuttora si trova nella camera mortuaria del nosocomio, in attesa di essere rimpatriato. Nell’arco di quattro anni è il quinto suicidio che avviene nel carcere di Castrovillari: l’ultimo era avvenuto a gennaio, quando si uccise Ilir Kakri, un detenuto albanese di 38 anni. (Gazzetta del Sud, 17 settembre 2003).



    Tentato suicidio: 24 settembre 2003, O.P.G. di Aversa (NA)



    Donato Greco, 32 anni, tenta di impiccarsi. Solo il tempestivo intervento degli agenti di custodia gli impedisce di togliersi la vita, realizzando un piano studiato nei minimi dettagli. Era solo da qualche giorno, in osservazione, all’O.P.G. Filippo Saporito, proveniente dal carcere di Taranto. Condannato in primo grado a 26 anni di detenzione (e in attesa del giudizio d’appello), per l’omicidio dell’amante incinta, Greco era certo di essere innocente, ma era altrettanto sicuro di non essere in grado di sopportare i tempi lunghi della giustizia. "Capisco che la legge deve fare il suo corso per stabilire la mia innocenza, ma - ha scritto nella lettera lasciata sul letto per spiegare le ragioni del gesto - vi assicuro che sono innocente e per fare un processo il tempo è lungo ed io non ce la faccio ad aspettare". Così l’altra notte ha deciso di togliersi la vita. Coperto con uno straccio lo spioncino che permette il controllo del bagno, dopo aver aspettato che il compagno di cella si addormentasse, preparato il cappio, Greco è salito su un tavolino e si è lasciato andare. Sembrava fatta, ma il rumore lieve del tavolo caduto sul pavimento ha dato l’allarme permettendo l’intervento degli agenti di custodia, guidati dall’ispettore di sorveglianza Raffaele Briotti. Insieme ai colleghi Garofalo, Sanseverino e Di Sero ha liberato Greco, portandogli i primi soccorsi in attesa dell’arrivo del medico di turno. Per fortuna, questa volta, il tentativo di suicidio è stato scongiurato ma l’episodio la dice lunga sulle condizioni di vita dei reclusi e, probabilmente, solo il fatto che tutto sia avvenuto in una struttura all’avanguardia e "umana" come l’O.P.G. di Aversa ha permesso il pronto intervento della polizia penitenziaria e del medico. (Il Mattino, 25 settembre 2003).



    Morte per cause non chiare: 1 ottobre 2003, Carcere di Livorno



    Marcello Lonzi, 29 anni, muore in cella: sarebbe deceduto per collasso cardiaco, dopo essere caduto battendo la testa. La madre non crede a questa ricostruzione e sospetta si sia trattato di un omicidio, anche perché il corpo del figlio era coperto di lividi. Chiede al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, un aiuto per impedire che "venga nascosta la verità". Marcello Lonzi stava scontando una pena di otto mesi, per un tentato furto, ed era in attesa di usufruire dell’indultino. (Liberazione, 3 ottobre 2003)



    Overdose: 6 ottobre 2003, Carcere di Vigevano (PV)



    Detenuto italiano muore dopo aver inalato del gas da una bomboletta. Nel mese di settembre era finito in infermeria, sempre per aver inalato del gas, e il direttore del carcere aveva disposto tassativamente che non fosse rimandato nella stessa cella. Una disposizione che, però, non sarebbe stata rispettata: il Pubblico Ministero ha chiesto il rinvio a giudizio di due agenti per omicidio colposo. (Il Giorno, 26 ottobre 2003)



    Suicidio: 8 ottobre 2003, Carcere di Iglesias (CA)



    Domenico Frau, 36 anni, si uccide impiccandosi. Aveva chiesto di scontare la pena residua (meno di tre mesi) in detenzione domiciliare, ma gli era stata negata questa possibilità. Una settimana prima di uccidersi, per rimarcare il suo disagio, si era tagliato le braccia con una lametta. Piccole ferite per esternare un dolore molto, troppo forte. Per chiudere definitivamente la partita con la vita ha aspettato che tutti gli altri detenuti, alla fine della giornata, rientrassero in cella e gli agenti penitenziari chiudessero i cancelli. Ha strappato il lenzuolo e, dopo averlo legato alla grata della finestra e al collo, si è lasciato andare. L’ha trovato, intorno alle 22, uno degli uomini di guardia al corridoio. Ogni tentativo di soccorso, compreso l’intervento degli uomini del 118, è stato inutile. Domenico Frau è morto subito dopo. Stava scontando una condanna per uno scippo compiuto nel suo paese, Arbus, a ottanta chilometri da Cagliari. Il tentativo fallito per procurarsi un po’ di soldi con cui "andare avanti". La fine tragica di un’esistenza non proprio felice, segnata dalla povertà della sua famiglia ed i problemi della droga. "Non è stata una vita facile e questo disagio se lo portava appresso come un peso, racconta don Salvatore Benizzi, parroco del carcere. Qualche giorno fa, inoltre, che non volesse più stare o, meglio, che non si trovasse bene, l’aveva fatto notare tagliandosi le braccia".

    Non un tentativo di suicidio, come precisa il parroco da tempo impegnato a difendere i diritti dei detenuti, ma un segnale per rimarcare un disagio che, dietro le sbarre, era cresciuto. "Uno dei tanti atti di autolesionismo che si registrano in carcere". Un atto, forte e violento, per rimarcare un disagio cresciuto, nonostante l’impiego di "spesino". Da un anno si occupava di raccogliere le richieste degli altri detenuti per poi girarle agli agenti della polizia penitenziaria che si occupano degli acquisti. "Probabilmente in cella o nella stessa struttura è successo qualcosa che l’ha turbato profondamente, dato che negli ultimi due giorni pareva più triste. Turbato, appunto".

    Anche il tentativo di un rientro a casa, dalla madre e i quattro fratelli, alcune settimane prima, era fallito. Tramite il suo avvocato aveva chiesto che gli venissero dati gli arresti domiciliari. Un modo per stare vicino ai famigliari, andato però a monte. "Non c’era una condizione economica che potesse garantirlo - aggiunge il parroco -, una possibilità sconsigliata dall’assistente sociale che ha, alla fine, negato questa opportunità". Un’altra sconfitta per quel giovane che dal carcere sarebbe dovuto uscire prima della fine dell’anno.

    Aveva presentato anche la domanda per i benefici e gli sconti di pena - continua il cappellano che più volte ha contestato il sovraffollamento della struttura penitenziaria (quasi cento in una struttura che ne può ospitare al massimo 60) - ma non aveva ancora ricevuto risposta". Un’attesa che, alla fine, si è trasformata in un vero e proprio incubo. "È la classica reazione di chi ha questi problemi e dovrebbe stare altrove - spiega Nazareno Pacifico, medico e responsabile della Commissione diritti civili alla Regione - l’implosione che da un anno sta decimando i detenuti, in particolare quelli sardi. Il suicidio diventa la via di fuga più facile da percorrere per uscire da un incubo". Il risultato di una miscela esplosiva che mette assieme "la mancanza di strumenti per la riabilitazione", il recupero e il reinserimento nella società e i tagli al sistema carcerario.

    Un cocktail distruttivo che, come denunciano i medici e gli addetti ai lavori, si scarica sulla parte più debole dell’intero sistema. "Il fatto è che questi giovani che stanno in carcere pagano un prezzo molto alto che deve essere attribuito a una politica scellerata - continua il medico, che da anni difende i diritti dei detenuti - tesa soprattutto a misurare chi resiste di più dietro le sbarre". L’accusa è anche più forte. "Il fatto vero, per questi signori che ci governano - conclude Pacifico - è che un morto dietro le sbarre è un detenuto in meno da mantenere". Domenico Frau, probabilmente, era uno di questi. (L’Unità, 10 ottobre 2003)



    Morte per cause non chiare: 8 ottobre 2003, Carcere di Fuorni (Salerno)



    Michele Barba, appena uscito dal carcere di Fuorni (Sa), muore nella stazione di Salerno. Al riguardo Marco Cappato, Deputato europeo radicale - Lista Emma Bonino, ha dichiarato: “Nell’esprimere il cordoglio dei radicali per la morte di Michele Barba, avvenuta ieri in circostanze da verificare presso la Stazione di Salerno, vogliamo ridare la parola allo stesso Michele. Riportiamo qui il suo intervento sul Periodico “Il filo d’Arianna”, scritto dopo la morte nel carcere di Fuorni (il carcere dove per 8 anni è stato negato il diritto dei detenuti a proseguire all’interno del carcere le terapie metadoniche) di Rosario Imparato. Rosario Imparato fu trovato morto nel carcere di Fuorni il 24 ottobre 1999. Dopo 4 anni ancora si attende che verità sia fatta sulla morte di Imparato. Alla luce delle notizie pubblicate sui giornali, secondo i quali non sarebbero state trovate siringhe o altri indizi vicino al corpo di Michele Barba, riteniamo necessario che sia effettuata l’autopsia.


    In memoria dell’amico Rosario Imparato: Pensiero ad un amico: “Addio fratello!”, a cura di Michele Barba. “Ciao Rosario, oggi dal giornale ho appreso la notizia della tua morte, la morte di una persona tossicodipendente la quale non fa notizia, non suscita attenzione, passa inosservata. Ormai siamo abituati a queste disgrazie che quotidianamente sono riportate dai servizi d’informazione. È normale morire di crisi d’astinenza in un carcere dove la violenza, la coercizione, l’umiliazione sono fatti normali, eppure c’è chi parla ancora di riabilitazione, reinserimento, recupero, ma abbiamo veramente capito il significato di queste parole? Oggi ti faranno l’ultimo controllo, l’ultima perquisizione, ma questa volta non per guardarti nelle tasche, te la faranno per guardarti dentro per cercare di capire perché sei morto e, bravi come sono, sicuramente troveranno il modo di incolparti pure del tuo decesso, ma questa volte non potrai appellarti a nessuna corte, sì, passerai subito in giudicato, e forse per la prima volta sarai felice di espiare la tua pena, non in un carcere, ma nell’immensità del Paradiso, questo sarà il tuo futuro, mentre quello di chi è colpevole di questo agito istituzionale sarà quello di continuare a fare i conti con la propria coscienza, ammesso che ce l’abbiano. Avrei ancora tanto da dire, ma mi fermo, cercando di rispettarti. Addio fratello veglia su di me”. (http://coranet.radicalparty.org, 9 ottobre 2003)



    Suicidio: 12 ottobre 2003, Carcere di Sulmona (AQ)



    Diego Aleci, 41 anni, originario di Marsala, si toglie la vita nella sua cella nel carcere di massima sicurezza di Sulmona. Stava scontando una condanna all’ergastolo, con sentenza ormai definitiva; era stato dapprima un killer della “Stidda”, una scheggia della mafia poi, cambiando direzione, era passato sotto le “insegne” di Cosa Nostra. Secondo le prime indiscrezioni Diego Aleci si sarebbe tolta la vita soffocandosi con i lacci delle scarpe; una maniera veramente orribile per porre fine ai propri giorni. Ma di questo particolare aspetto fino ad ora non è filtrato nulla; c’è da aggiungere, però, che è abbastanza difficile immaginare che un uomo di 41 anni, nel pieno vigore delle sue forze, possa riuscire a togliersi la vita con un paio di lacci delle scarpe. Sicuramente su questa stranissima vicenda è stata aperta un’inchiesta da parte della Procura della Repubblica per accertare le reali cause della morte e per ricostruire gli ultimi giorni e le ultime ore di vita di quest’uomo, per conoscere quale fosse il suo stato d’animo e per capire se lo stesso possa essere compatibile con un suicidio e scartare definitivamente anche l’ipotesi che i fatti possano essere andati in tutt’altra maniera, come quella, ad esempio, di un regolamento di conti. (Il Messaggero, 16 ottobre 2003)



    Tentato suicidio: 14 ottobre 2003, Carcere di Como



    James Canali, 22 anni, tenta di impiccarsi nella sua cella. È in carcere da dieci giorni, con l’accusa di omicidio, e si trova in "solitudine sorvegliata", regime simile all’isolamento, proprio per timore che possa compiere un gesto disperato. Gli sono stati anche tutti gli oggetti pericolosi. James, però, riesce a fare a strisce i suoi jeans, trasformandoli in una corda. A sventare il suicidio sono gli agenti di polizia penitenziaria. Le condizioni fisiche del giovane non destano preoccupazioni. (Avvenire, 15 ottobre 2003)



    Suicidio: 15 ottobre 2003, Carcere di Ragusa



    Detenuto italiano di 26 anni si suicida nel carcere di Ragusa. (Radio Radicale, 21 ottobre 2003)



    Assistenza sanitaria disastrata: 18 ottobre 2003, Carcere di Ancona



    Francesco Iengo, 46 anni, viene ritrovato morto, steso sul pavimento della cella. Sul suo corpo non ci sono segni di violenza. Sono circa le 7.45 di mattina quando, dal carcere, arriva la segnalazione alla centrale operativa del "118". L’equipaggio sanitario in servizio all’ex pronto soccorso interviene in una manciata di minuti, ma per Iengo non c’è più nulla da fare: soffriva di problemi cardiaci e di preoccupanti livelli di diabete, un malessere che si era riacutizzato da una decina di giorni ma, nonostante avesse chiesto una visita, le cure non gli erano state praticate. Per questo motivo sarà importante stabilire se la detenzione in carcere fosse la soluzione migliore, viste le sue condizioni. Iengo era in carcere dall’inizio di giugno, in seguito ad un’inchiesta su un grosso giro di cocaina che riforniva la città. (Il Messaggero, 19 ottobre 2003)



    Assistenza sanitaria disastrata: 21 ottobre 2003, carcere di Pagliarelli (PA)



    Pietro Sinatra, 61 anni, muore di infarto in cella. Era in carcere da un anno e negli ultimi tre mesi aveva avuto due principi di infarto e il 16 gennaio 2004 i giudici avrebbero dovuto valutare la sua richiesta di scarcerazione per motivi di salute. “Presenteremo un esposto alla Procura – dice il legale di Sinatra, l’avvocato Giovanni Castronovo – chiediamo di verificare se ci siano state omissioni da parte dei medici dell’amministrazione penitenziaria”. Sul caso interviene pure Maurizio Turco, presidente degli europarlamentare radicali: “Anche i cittadini detenuti hanno diritto alla salute, tutelato dalla Costituzione, eppure molto spesso non è così”. (La Repubblica, 24 ottobre 2003)



    Suicidio: 22 ottobre 2003, Carcere di Opera (MI)



    Gioacchino Giustiniano, 33 anni, si impicca nella cella dove era detenuto da solo. Soffriva di un forte stato di depressione, aggravato da motivi famigliari. Giustiniano ha lasciato una lettera ai famigliari per spiegare il motivo del suo gesto. Era in carcere dal 2000 e doveva scontare una condanna a 11 anni e 4 mesi, per sequestro di persona. (Avvenire, 24 ottobre 2003)



    Overdose: 25 ottobre 2003, Carcere di San Vittore (MI)



    Maurizio Pintabona, 20 anni, muore dopo aver inalato il gas da una bomboletta da camping. Un embolo, provocato dal gas inalato, lo stronca nel giro di pochi minuti. Inutili i tentativi di soccorso dei suoi stessi compagni di cella, che hanno tentato la respirazione artificiale, e quelli del personale sanitario del carcere, subito accorsi. Nemmeno il tempo di trasportarlo a braccia al pronto soccorso e il giovane detenuto era già morto. Doveva scontare un residuo pena di sei mesi, per rapina, ed era detenuto nel sesto raggio, quello dei "protetti". La Procura ha già aperto un’inchiesta sull’accaduto, ma dai primi elementi raccolti appare difficile attribuire responsabilità a chi doveva sorvegliare. Maurizio Pintabona non era un tossicodipendente, né accusava problemi psichici. E tantomeno aveva timori o preoccupazioni. L’altro ieri mattina aveva perfino avuto un colloquio con lo psichiatra, passandolo regolarmente. In caso contrario, non avrebbe avuto l’autorizzazione a tenere la bomboletta del gas. Infatti a tutti i tossici del carcere e alla sezione femminile, dove ci sono i trans, sono state da tempo tolte le bombolette e fornite piastre elettriche per cucinare. E presto, quando saranno ultimati i lavori di rifacimento del quadro elettrico generale, questa disposizione dovrebbe essere estesa a tutto il penitenziario.

    Anche la cella di Pintabona era considerata tranquilla. Il giovane era recluso insieme ad altri cinque detenuti, un paio dei quali extracomunitari, nel sesto raggio del carcere, quello che comprende donne, pedofili, transessuali, detenuti che fanno pulizie e che attendono di essere interrogati. Insomma tutti quelli che hanno necessità di essere in isolamento. Pure lui, piccolo rapinatore, aveva chiesto di stare nel braccio "protetto" e anche se non ce n’era particolare motivo, era stato accontentato. Ed è qui che, la notte scorsa, ha trovato la morte. Una morte che va ricercata nell’alienazione del carcere, nel bisogno di evadere, almeno psicologicamente, dall’angoscia delle sbarre. E per trovare un po’ di euforia artificiale è ricorso alla droga che più va di moda tra i detenuti: lo "sniffo" del gas. Lo ha fatto insieme ai suoi compagni di cella, durante una cena allegra. Un’annusata via l’altra, finché non lo hanno trovato riverso in bagno, che faticava a respirare. Gli altri detenuti, sconvolti per quello che stava accadendo, hanno tentato di rianimarlo, ma tutto è stato inutile. Un embolo aveva già fermato il suo cuore. (Il Giorno, 26 ottobre 2003)



    Suicidio: 25 ottobre 2003, Carcere di Rebibbia (RM)



    Pasqualina C., 38 anni, si impicca in cella. Due compagne la ritrovano, agonizzante, e dopo averla adagiata a terra danno l’allarme. Ma la corsa in autoambulanza all’Ospedale "Pertini" si rivela inutile: i medici possono solo constatarne il decesso. La donna, originaria della provincia di Caserta, era detenuta per reati legati alla droga. La magistratura ha aperto un’inchiesta per far luce sulle circostanze e la dinamica esatta dell’accaduto: il pubblico ministero di turno, Carlo Lasperanza, ha disposto l’esame autoptico, che sarà eseguito all’istituto di medicina legale dell’Università "La Sapienza". (Il Messaggero, 26 ottobre 2003)



    Tentato suicidio: 26 ottobre 2003, Carcere di Ancona



    Massimiliano Valanzano, 26 anni, tenta di impiccarsi. A fermarlo sono le guardie carcerarie che, entrate nella sua cella, lo soccorrono in tempo. Il giovane confessa d’avere anche ingerito degli aghi. Senza perdere un minuto i vigilanti accompagnano Massimiliano Valanzano al pronto soccorso dell’ospedale regionale di Torrette, dove i medici gli prestano le prime cure ed eseguono tutti gli accertamenti del caso. (Corriere Adriatico, 27 ottobre 2003)



    Suicidio: 13 novembre 2003, Carcere di Iglesias (Cagliari)



    Miguel Chavez, 22 anni, cileno, s’impicca in cella. Il corpo del giovane, nonostante siano trascorsi venti giorni da quando il suo cuore si è arreso, si trova ancora nell’obitorio dell’ospedale Santa Barbara. Chiuso dentro una cella frigorifera, in attesa di sepoltura. Una vicenda ai limiti dell’assurdo, ma reale. Realissima. Colpa della burocrazia, di documenti che ancora mancherebbero per dare un nome certo, un’identità sicura a quel corpo. Miguel Chavez, infatti, non è il vero nome del ragazzo. L’aveva scelto, sostituendolo al suo, quando era arrivato in Italia. I problemi sono sorti dopo la sua morte. Due giorni dopo, a Iglesias è arrivata la madre del giovane che, identificando il figlio, ha svelato il vero nome. Così sono cominciati i problemi per l’identificazione, la richiesta di documenti che attestassero i reali dati anagrafici. Il riconoscimento della madre non bastava. La donna era arrivata direttamente dal Cile assieme alla fidanzata del ragazzo, grazie ad una colletta organizzata da alcuni amici di Genova: nel capoluogo ligure Miguel si era stabilito dal suo arrivo in Italia, sei anni fa, e lì aveva cercato di costruirsi una nuova vita con la fidanzata. Contava di costruirsi una famiglia. Ma le cose non sono andate come sperava.

    Dopo l’arresto per piccoli reati e una breve detenzione nel carcere di Marassi, è stato deciso il suo trasferimento. “Per ragioni di sovraffollamento”, era stata la motivazione. Destinazione: Iglesias. Lontano dalla fidanzata, dagli amici. Troppo lontano per poter usufruire dei colloqui settimanali, di quelle brevi chiacchierate che servivano a farlo sentire meno solo. E forse proprio perché privato di queste occasioni il carcere alla periferia di Iglesias (80 i reclusi a dispetto dei 60 previsti e dove pochi giorni fa la commissione Diritti civili ha fatto un’ispezione) è diventato il suo capolinea.

    Lì ha deciso di farla finita, scegliendo la strada più dolorosa che, pochi giorni prima, aveva percorso anche un detenuto di Arbus. Quindici giorni di agonia nel reparto rianimazione dell’Ospedale Santa Barbara, poi il decesso. Che non ha ancora posto fine alle sue pene. “Una vicenda difficile da commentare - dice Nazareno Pacifico, consigliere regionale Ds che fa parte della commissione Diritti civili - ai confini dell’umanità, mi sembra davvero inspiegabile”.

    Lo è anche per don Salvatore Benizzi, per tanti anni cappellano del carcere: “Prima di lasciare l’incarico ho avuto modo di conoscere il ragazzo, di scambiare qualche parola. Devo dire che mi era sembrata una persona triste, molto chiusa”. La vicenda del giovane cileno ha suscitato molta commozione, tanto che alcuni gruppi di volontari si sono mobilitati per dare un sostegno ai parenti. La Caritas e il cappellano del carcere stanno organizzando una colletta per fare in modo che, non appena arriverà il via libera, si possa contribuire al trasporto della salma fino a Genova. Saranno, poi, gli amici che il giovane ha lasciato nel capoluogo ligure a fare in modo che Miguel possa compiere l’ultimo tragitto per ritornare in Cile. In quella terra lasciata qualche anno fa per trasferirsi in Italia. In cerca di fortuna. (L’Unione Sarda, 2 dicembre 2003)



    Suicidio: 16 novembre 2003, I.P.M. Casal del Marmo (Roma)



    Mirko Zdrezaliu, 19 anni, rumeno, si suicida impiccandosi. L’avevano arrestato per una scazzottata. In tre giorni è finito nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma e, dopo neppure ventiquattrore dentro, lunedì notte, si è impiccato. La sua storia inizia alla stazione di Pescara venerdì scorso. Insieme ad altri tre ragazzi, tutti minorenni come lui e tutti di nazionalità rumena, aveva avuto da ridire con un passante. Ne era nata una lite, poi la rissa, quindi l’intervento della polizia che aveva portato tutti e quattro davanti al giudice minorile dell’Aquila. Questo ha deciso di trasferire i ragazzi in galera, probabilmente perché le strutture di accoglienza che generalmente ospitano i minorenni in questi casi erano tutte piene: due di loro sono finiti nel carcere dell’Aquila egli altri due a Roma. Sembra che lui, il giovane che si è tolto la vita due notti fa, avesse detto "portatemi pure dentro, ma non separatemi dai miei amici". Sembra, perché durante l’incontro con il giudice minorile le sue parole non sono state tradotte da un mediatore culturale ma da una donna, rumena pure lei, che lavora nel tribunale come addetta alle pulizie. Niente mediatori culturali e niente psicologi con cui parlare, dunque, dato che i tagli ai fondi dedicati alla giustizia per i minorenni voluti dal ministro Castelli non hanno fatto sconti a nessuno.

    Se le cose fossero andate come prevede la legge, il giovane rumeno non sarebbe mai finito in carcere. Il testo del Dpr 448, infatti, prevede che l’arrestato minorenne incontri il giudice entro quarantotto ore dal fermo e che quest’ultimo, salvo reati particolarmente gravi, lo affidi a un centro di accoglienza, o alla famiglia, con un provvedimento di "messa alla prova", che è quasi sempre la partecipazione ad un progetto sociale, come l’assistenza agli anziani, la partecipazione ad un corso di avviamento al lavoro o simili. Se il giovane rispetta la prescrizione, molto spesso il processo non si celebra del tutto. La notizia della morte del ragazzo è stata diffusa dall’assessore al lavoro del comune di Roma, Luigi Nieri, dal garante dei diritti dei detenuti, Luigi Manconi e da Patrizio Gonnella, portavoce dell’associazione Antigone. "Nonostante tutti i progetti educativi attivi a Casal del Marmo - ha spiegato Gonnella - il carcere non potrà mai essere una struttura adatta agli adolescenti. Per questo motivo bisogna lavorare ad una riforma che renda residuali queste strutture". (Il Manifesto, 19 novembre 2003)



    Morte per cause non chiare: 25 novembre 2003, Carcere di Aurelia (Roma)



    Detenuto rumeno, 40 anni, muore a causa di profonde ferite alla testa. Secondo una prima ricostruzione l’uomo avrebbe battuto ripetutamente il capo contro le pareti della cella dove era rinchiuso. Venerdì della scorsa settimana il rumeno finisce in manette, con l’accusa di tentato furto, e quindi associato al carcere di Aurelia. Lunedì si tiene l’udienza di convalida dell’arresto. Il giudice per le indagini preliminari accoglie la richiesta di convalida dell’arresto e l’extracomunitario è costretto a rimanere in carcere. Qualche ora dopo, degli agenti di polizia penitenziaria lo ritrovano riverso a terra dentro la sua cella, con profonde ferite al capo. Subito viene trasportato all’ospedale San Paolo e le sue condizioni appaiono decisamente serie. Il rumeno si aggrava di ora in ora ed allora i medici del nosocomio locale decidono di trasportarlo in eliambulanza presso un ospedale della capitale, dove il suo cuore cessa di battere nella tarda serata di giovedì. La prima ipotesi che emerge è quella del suicidio. In pratica l’uomo si sarebbe scagliato più volte contro la parete. Ipotesi avvalorata anche dal fatto che il rumeno sembra soffrisse di problemi psicologici. Evidentemente la sentenza che confermava il suo arresto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma il sostituto procuratore Elena Neri, titolare dell’indagine, vuol vederci più chiaro, e quindi ha aperto, come da prassi, un fascicolo contro ignoti. È chiaro che nelle intenzioni del magistrato ci sia la volontà di verificare se si sia trattato davvero di un suicidio, oppure se i colpi alla testa siano stati provocati da qualcun altro. Non si sa, al momento, se l’extracomunitario fosse solo in cella o la dividesse con altri detenuti. (www.papillon.it, 6 dicembre 2003)



    Suicidio: 27 novembre 2003, O.P.G. di Montelupo Fiorentino (FI)



    Paolo Vidale, 44 anni, originario della provincia di Vicenza, s’impicca. Il suo compagno di cella si accorge di quel che sta succedendo, lo prende e lo sgancia dal cappio al quale si è appeso, ma troppo tardi: Paolo Vidale muore in seguito ai traumi riportati. Era stato giudicato incapace di intendere e di volere e socialmente pericoloso, nel processo per i maltrattamenti cui sottoponeva la madre, e quindi internato al manicomio giudiziario. (Il Giornale di Vicenza, 1 dicembre 2003)



    Suicidio: 28 novembre 2003, carcere di Cagliari



    Gabriele Pusceddu, 35 anni, si uccide. Alle due del mattino i compagni si accorgono che si è impiccato: gli tolgono subito il cappio dal collo e urlano per richiamare l’attenzione degli agenti di polizia penitenziaria, che si prodigano per cercare di salvargli la vita. Ma oramai è tardi. Non resta che informare il sostituto procuratore di turno, Giangiacomo Pilia, e soprattutto i familiari di Pusceddu. Gabriele aveva una sfilza di precedenti penali, ma tutti per reati di poco conto. Il penultimo arresto era stato il 20 settembre dello scorso anno, per un tentativo di furto, ma il suo avvocato era riuscito a fargli ottenere i domiciliari. Di stare a casa, però, Pusceddu non aveva alcuna voglia: una settimana dopo l’arresto uscì, e le forze dell’ordine lo sorpresero dove non avrebbe dovuto essere, cioè per strada. Gli arresti domiciliari furono trasformati nella detenzione in carcere e, da allora, il giovane cagliaritano aveva iniziato a scontare condanne vecchie e nuove.

    Non si sa mai che cosa passa per la mente di chi vuole farla finita con la vita, ma il problema è completamente diverso se succede in un penitenziario, e con una frequenza tanto preoccupante. "In Sardegna abbiamo il tristissimo record europeo di suicidi in carcere", sbuffa Nazareno Pacifico, consigliere regionale dei Ds ed ex vice presidente della commissione Diritti civili, "e Buoncammino non sfugge a questa regola. Le nostre carceri sono sovraffollate, qui a Cagliari cinquecento detenuti sono ammassati per 23 ore al giorno nelle celle, poi hanno un’ora d’aria nei cosiddetti quartini, che sono grandi come le celle ma non hanno il soffitto". Un anno fa, quand’era ancora in carica come vice presidente della commissione del Consiglio regionale, Nazareno Pacifico prese carta e penna e scrisse al ministro della Giustizia, Castelli: "Mi rispose che le carceri non sono alberghi a cinque stelle e lì si chiuse la questione", si lamenta il consigliere.

    La situazione a Buoncammino è sempre più esplosiva: Pacifico parla di "volontariato" da parte dei pochissimi agenti della polizia penitenziaria, che oltretutto sono gravati anche da numerosi compiti amministrativi "perché il ministero svolge i concorsi, ma poi non manda il personale in Sardegna". Il consigliere dei Ds denuncia anche che nel penitenziario cagliaritano "lavorano solo due educatori per cinquecento detenuti, non esiste assistenza psicologica e psichiatrica soprattutto per il sessanta per cento di reclusi tossicodipendenti, non c’è possibilità di fare attività fisica". Quattro mura, insomma, tra le quali scontare la propria pena senza alcuna speranza di riabilitazione. (L’Unione Sarda, 30 novembre 2003)

    È successo di nuovo, nell'invivibile carcere di Buoncammino, al solito sovraffollato oltre ogni limite. Ancora uno, ancora un detenuto che, per dirla con Adriano Sofri, sceglie di evadere per altra via. Ancora un uomo all’antica, Gabriele Pusceddu 35 anni, che ieri per andarsene ha scelto un lenzuolo annodato.

    Ancora un suicidio nel carcere di Buoncammino. Il quarto in questo penitenziario e il nono nell’isola solo nel 2003, brutta, bruttissima conferma di una Sardegna record italiano per numero di suicidi. Triste primato da mantenere. Segnale da cogliere se solo ci si ricordasse che il modo nel quale costringiamo a vivere, a morire, i nostri detenuti indica il grado, o il degrado, della
    civiltà del nostro paese. Troppe volte abbiamo denunciato lo stato vergognoso in cui versano i penitenziari sardi per struttura e organico, troppe volte abbiamo assistito a dismissioni e ricostruzioni virtuali a seguito di promesse politiche e a null’altro.

    Il carcere, i suoi morti per suicidio, ma anche malasanità (non dimentichiamoci
    della morte per Tbc a San Sebastiano nel settembre di quest’anno) sono puntualmente rimossi dall’agenda politica e anche dall’informazione. La notizia del suicidio di Gabriele ha più o meno lo stesso spazio sulla stampa, che pure ha il merito di denunciare la cosa, del traffico in tilt in via Marconi e dei chioschi abusivi.

    Speriamo di non essere costretti a continuare a contare, speriamo che ci si ricordi dello stato vergognoso delle carceri sarde senza quest’orribile stillicidio, speriamo che l’unica immediata risposta non sia la limitazione delle lenzuola in cella. (Giovanna Salis - Comitato nazionale Radicali Italiani)



    Suicidio: 11 dicembre 2003, Carcere di Ragusa



    L.L., 50 anni, s’impicca in cella. Madre di due figli, di professione dentista, era in carcere per tentato omicidio. Aveva sparato al marito, anche lui medico, dal quale si era separata da diversi anni per poi trasferirsi a Milano. Una vita e una famiglia come tante, afflitta da normali e quotidiani alti e bassi. Otto mesi fa l’ex marito è andato a Milano per alcuni giorni, a trovare uno dei due figli. Un pomeriggio in cui l’uomo stava poco bene, L.L. è andata a trovarlo, ha chiacchierato con lui preoccupandosi delle sue condizioni di salute. Prima di uscire, però, ha tirato fuori dalla borsa una calibro 9 e, sotto gli occhi del figlio, gli ha scaricato addosso 14 colpi che lo hanno ferito al torace e alle braccia. Poi si è seduta sui gradini della scala davanti all’ingresso dell’abitazione e ha aspettato l’arrivo della polizia. L’uomo, gravemente ferito, è rimasto vivo per miracolo. L.L. non ha opposto alcuna resistenza all’arresto. Ha soltanto affermato che, prima o poi, avrebbe fatto del male all’ex marito, ai figli o a se stessa. Il suo sicuramente fragile equilibrio e una separazione probabilmente vissuta male, l’avevano spinta a superare il sottile limite che divide la razionalità dalla follia. Alla fine però è a se stessa che ha scelto di fare del male. E si è tolta la vita. (La Sicilia, 13 dicembre 2003)



    Suicidio: 13 dicembre 2003, carcere di Siracusa



    Francesco Aletta, 29 anni, si uccide impiccandosi. Arrestato alla fine di ottobre, perché accusato di estorsione a danno della propria madre, Francesco Aletta ha usato come cappio una striscia di un lenzuolo, la cui estremità era stata legata all’inferriata della finestra. Il giovane detenuto, dopo essere salito sulla spalliera del letto, si è quindi lasciato cadere con violenza nel vuoto e, nonostante fosse finito con le ginocchia sul pavimento, è riuscito ugualmente a centrare l’obiettivo autolesionistico che si era prefissato, a causa del nodo scorsoio che gli ha serrato la gola. La morte per asfissia potrebbe essere avvenuta tra le 16.30 e le 16.45 di domenica pomeriggio.

    Così ha stabilito il medico legale Francesco Coco, dopo aver effettuato l’ispezione cadaverica sul corpo del ragazzo di Carlentini, recandosi all’obitorio dell’ospedale “Umberto I”, dove il suicida era stato trasportato dalla polizia penitenziaria. Sulle cause della morte nessun dubbio, così come sulla scelta autolesionista effettuata da Francesco Aletta. Il detenuto di Carlentini, che aveva sempre respinto l’accusa di aver estorto delle somme di denaro alla madre, aveva minacciato in più di un’occasione di commettere un non meglio precisato gesto autolesionistico e, per evitare che attuasse quanto preannunciava, la direzione del carcere aveva predisposto nei suoi confronti una costante sorveglianza."



    OK,penso che sia sufficiente a chiarire la situazione delle carceri italiane .Quelli che Castelli ebbe a definire alberghi di lusso,sono in realtà dei luoghi istituzionali di sistematica violazione dei diritti umani,dei posti invivibili,sovraffollati,in condizioni igieniche pietose,privi di qualsiasi attività che tenda alla risocializzazione del detenuto,tanto che per molti il suicido costituisce l'unica via.Ce ne dà testimonianza Sofri nelle sue interviste, ma anche Amnesty International nelle sue relazioni nelle quali ha fatto spesso riferimento alla situazione delle carceri italiane denunciandone il degrado e il tasso di suicidi altissimo(di gran lunga superiore a quello di molti altri Paesi europei.)
    Allo stato attuale le prigioni italiane non assolvono per nulla la funzione costituzionale di specialprevenzione e di risocializzazione del detenuto.Ma,la cosa che mi fa maggiormente rabbia,è che questa situazione oscena non rientra mai nell'agenda politica dei parlamentari.Anzi, molti deputati e senatori forcaioli hanno anche fatto resistenza contro un provvedimento come l'indultino che,data la situazione tragica delle prigioni italiane,era poco più che un palliativo .Nessuno però che discuta un serio progetto di depenalizzazione di molti reati,che servirebbe peraltro anche a snellire la giustizia penale e di applicazione compiuta delle misure alternative alla detenzione,soprattutto per detenuti particolari,come i tossici,nonchè l'introduzione di nuove misure alternative rispetto a quelle introdotte con la legge del'75
    Soprattutto è inquietante il silenzio della sinistra,che non si rende conto di come le prigioni siano lo specchio della società,le conseguenze delle cui storture ed ingiustizie vengono pagate dagli emarginati e dai soggetti più deboli.Qualche giorno fa,un giudice di Magistratura Democratica,ad una conferenza che ho seguito,ha dato una descrizione fedele della situazione italiana.Ha detto, in poche parole"In Italia esistono due processi, uno tanto straordinariamente celere ed efficace quanto privo di garanzie per l'imputato.E' il processo dei tossici,degli immigrati,dei piccoli delinquenti,di coloro meno provvisti di difese.Il secondo processo,lento e defatigante,privo di ragionevole durata,ma provvisto di maggiori garanzie riguarda gli altri imputati"..
    Ci sarebbe poi da fare un altro discorso sui vergognosi Cpt,nei quali non solo spesso e volentieri si trovano ad essere reclusi immigrati che non hanno commesso alcun reato,ma perdipiù la gestione è affidata ai privati,venendo quindi a mancare anche quel minimum di controlli ai quali sono sottoposte le prigioni(con la conseguenza di maltrattamenti ed episodi di violenza d'ogni tipo testimoniati da vari immigrati che vi sono stati reclusi).

  2. #2
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    Chissà se i "galantuomini" come Feltri e pattume vario avranno il buon senso di rivolgersi a Castelli come hanno fatto per Diliberto....

    Suicidi: 48
    Tentati suicidi: 12
    Morti non chiare: 9
    Overdose: 4

    Totale 61 morti nelle carceri italiane solo nel 2003...

  3. #3
    Veneta sempre itagliana mai
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    In Origine Postato da T34
    Chissà se i "galantuomini" come Feltri e pattume vario avranno il buon senso di rivolgersi a Castelli come hanno fatto per Diliberto....

    Suicidi: 48
    Tentati suicidi: 12
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    Overdose: 4

    Totale 61 morti nelle carceri italiane solo nel 2003...

    ma...non ho capito, io ho letto alcuni di questi post, ma dove sta scritto che la colpa è del ministro? è come se a scuola un bambino scappasse senza che la bidella o l'insegnante se ne accorga, è colpa della Moratti? ma siete tutti fuori di testa? se questi si son suicidati per disfunzioni delle carceri sarà colpa dei direttori, ma non c'è scritto per cosa sono morti, almeno quei tre quattro che ho letto....se poi volete accusarlo di tutto solo per il gusto di dare contro, fatelo, contenti voi

  4. #4
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    In Origine Postato da pensiero
    ma...non ho capito, io ho letto alcuni di questi post, ma dove sta scritto che la colpa è del ministro? è come se a scuola un bambino scappasse senza che la bidella o l'insegnante se ne accorga, è colpa della Moratti ma siete tutti fuori di testa? se questi si son suicidati per disfunzioni dei carceri sarà colpa dei direttori, ma non c'è scritto per cosa sono morti, almeno quei tre quattro che ho letto....se poi volete accusarlo di tutto solo per il gusto di dare contro, fatelo, contenti voi
    Forse ti è sfuggita la polemica di Feltri che accusava Diliberto (in quanto ex ministro della giustizia) di aver tollerato "sodomizzazioni" nelle carceri nel periodo "Ulivista"...

  5. #5
    Veneta sempre itagliana mai
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    In Origine Postato da T34
    Forse ti è sfuggita la polemica di Feltri che accusava Diliberto (in quanto ex ministro della giustizia) di aver tollerato "sodomizzazioni" nelle carceri nel periodo "Ulivista"...

    non la conosco e non mi interessa....se poi anche tu vuoi abbassarti per ripicca al livello di Feltri per il quale nutro tutto fuorchè stima, fallo pure

  6. #6
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    In Origine Postato da pensiero
    non la conosco e non mi interessa....se poi anche tu vuoi abbassarti per ripicca al livello di Feltri per il quale nutro tutto fuorchè stima, fallo pure
    Come vedi ci ha pensato Malik, tempestivo come sempre.
    Io non mi abbasso, leggo e traggo conclusioni.

    Chi ha tirato in ballo Diliberto si è dato la zappa sui piedi, tutto quì.

  7. #7
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    In Origine Postato da pensiero
    ma...non ho capito, io ho letto alcuni di questi post, ma dove sta scritto che la colpa è del ministro? è come se a scuola un bambino scappasse senza che la bidella o l'insegnante se ne accorga, è colpa della Moratti? ma siete tutti fuori di testa? se questi si son suicidati per disfunzioni delle carceri sarà colpa dei direttori, ma non c'è scritto per cosa sono morti, almeno quei tre quattro che ho letto....se poi volete accusarlo di tutto solo per il gusto di dare contro, fatelo, contenti voi
    ovviamente la colpa non è solo di Castelli(anche perchè la situazione è drammatica da anni),ma un ministro avrebbe il dovere di fare presenti queste situazioni che gli vengono sistematicamente rese note dai direttori delle carceri.Fatto sta che la situazione è drammatica,c'è un sovraffollamento del 70% e delle condizioni,salvo rare eccezioni, disumane.Non si può tacere questa vergogna,occorre a livello legislativo una forte depenalizzazione e la maggiore applicazione delle misure alternative alla detenzione,la costruzione di nuove strutture non è la soluzione per risolvere il problema,perchè per alcuni detenuti,come i tossici,la detenzione è inaccettabile.
    La polemica di Feltri è strumentale,realizzata allo scopo di attaccare Diliberto che aveva denunciato giustamente la vergogna delle torture in Iraq e aveva chiesto le dimissioni di Rumsfield.

  8. #8
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    p.s.non mi interessa la polemica politica su questo argomento.
    il disinteresse per il problema è trasverale,purtroppo,e il silenzio della sinistra è inquietante(non è certo da Castelli e dai leghisti che hanno fatto la battaglia contro l'indultino che mi aspetto una particolare sensibilità in merito)

  9. #9
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    In Origine Postato da Malik
    Chiaro..mentre il titolo di questo 3d merita un premio di lealtà forumistica.

    Ciao T34 stasera il vostro nuovo allenatore si è allenato a perdere coppe come Lippi
    era Castelli ad aver parlato di alberghi a cinque stelle.
    e io ho riportato cosa avviene in questi alberghi a cinque stelle.

    sei puntuale,come sempre....

  10. #10
    Totila
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    In Origine Postato da pensiero
    ma...non ho capito, io ho letto alcuni di questi post, ma dove sta scritto che la colpa è del ministro? è come se a scuola un bambino scappasse senza che la bidella o l'insegnante se ne accorga, è colpa della Moratti? ma siete tutti fuori di testa? se questi si son suicidati per disfunzioni delle carceri sarà colpa dei direttori, ma non c'è scritto per cosa sono morti, almeno quei tre quattro che ho letto....se poi volete accusarlo di tutto solo per il gusto di dare contro, fatelo, contenti voi
    Già, ma guardacaso nel quinquennio Ulivetano nelle carceri non c'è stato UN solo suicidio: i carcerati vivevano felici e contenti.

 

 
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