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    Predefinito "Margini":Spunti per una riflessione

    Penso che "Margini" edito dalle Edizioni di Ar sia una ottima pubblicazione per delle rifelessioni sul pensiero etnonazionalista.
    -----------------------------------------------------------------------------------Spirito e psiche


    Indice:

    - Un cammino per le anime

    - Sulla montagna. Conversazione con Domenico Rudatis

    - Il viso verde

    - Santi Barocchi

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    Un cammino per le anime
    Note sull’opera di V. Magnien, I Misteri di Eleusi

    (G. Damiano, in Margini n. 19)

    Nell’agosto 1796 Hegel dedica all’amico Holderlin una poesia dal titolo “Eleusi”. In essa vi è nostalgia (“le tue case, ahimé, sono divenute mute, o dea”) ma anche presagio di un nuovo inizio, comprensione per l’essenziale ineffabilità dei misteri (“al figlio dell’iniziazione la pienezza delle alte dottrine, la profondità del sentimento inesprimibile eran troppo sacre per considerarne degni gli aridi segni”) e per l’indigenza in cui le parole si trovano quando sono chiamate a dar nome a ciò che è per sua natura al di là del linguaggio (“chi mai volesse parlarne agli altri, parlerebbe con la lingua degli angeli”). Un’adesione totale. Ciò vale anche per il testo di V. Magnien, “I Misteri di Eleusi”. Non c’è in esso mera erudizione o il disincantato distacco del ricercatore, né la Grecia è trattata come una passione antiquaria ma con intima partecipazione.
    I misteri dell’antichità classica erano culti iniziatici tendenti ad assicurare una più diretta relazione col divino: “ogni iniziazione intende congiungerci al Mondo e agli Dei” afferma Sallustio (Sugli dei e il mondo, IV, 6) ed introdurre in un’esperienza straordinaria capace di trasfigurare l’esistenza all’iniziato era appunto lo scopo dei misteri, tra cui primi per importanza quelli di Eleusi, località dell’Attica non lontana da Atene. Questi ultimi erano dedicati a Demetra, la dea del grano, e a sua figlia Persefone, chiamata anche Kore, “la Fanciulla”. Questi misteri erano organizzati dalla polis ateniese e posti sotto il diretto controllo dell’archon basileus. Eleusi era il luogo in cui Kore era tornata dagli inferi dopo esservi stata condotta da Ade. E proprio ad Eleusi gli ateniesi celebravano la grande festa autunnale, i Mysteria; la processione andava da Atene ad Eleusi e culminava in un rito notturno nel Telesterion (una famiglia verbale, annota W. Burkert, largamente sovrappostasi a mysteria è proprio quella di telein, “compire”, “celebrare”, “iniziare”; telete, “festa”, “rito”, “iniziazione”; telestes, “sacerdote dell’iniziazione”; telesterion, “palazzo delle iniziazioni”. È poi ancora Burkert a ricordarci la traduzione latina di mysteria che è resa con initia, a indicare appunto la crucialità del momento iniziatico). Differenti dalle religioni monoteiste perché basati sul rituale e non su un libro sacro, perché non esclusivisti e non miranti a formare comunità di fedeli (nel senso dell’ecclesia), i misteri hanno costituito un’esperienza del sacro cruciale per il paganesimo. E davvero l’esperienza (il pathema) era il centro del culto misterico, reale e concreta esperienza che, come già ammoniva l’omerico Inno a Demetra (la dea “istitutrice” dei misteri eleusini), non era insegnabile. I misteri non insegnano nulla, permettono l’accesso ad un’esperienza (accesso però non destinato a tutti ma aperto solo ai meritevoli dell’iniziazione, vincolati per di più al silenzio sulle cerimonie sacre). Tale esperienza è perciò alogos, non discorsiva, non dicibile, come ci ricorda anche Aristotele: “gli iniziati non devono imparare qualcosa bensì subire un’emozione ed essere in un certo stato, evidentemente dopo di essere divenuti capaci di ciò”. Per Magnien il nucleo centrale del rituale iniziatico eleusino è rappresentato dalla discesa delle anime nel mondo del divenire e dalla loro risalita verso le regioni pleromatiche (stretta è quindi l’analogia con il mito che narra della discesa di Kore agli inferi e del suo ritorno). Si tratta cioè di una “peripezia” o, meglio, di una vera e propria odissea dell’anima. Le iniziazioni, infatti, dice Magnien, “hanno lo scopo di ristabilire l’anima sul trono di Zeus sia nel corso della sua vita quaggiù, sia quando essa avrà lasciato il soggiorno terreno: l’iniziato risale verso gli Dei mentre chi non lo è resta immerso nel fango”. L’iniziazione perciò rende possibile la liberazione già in vita. Magnien si discosta così dalle ricorrenti interpretazioni dei misteri eleusini come rituale salvifico tendente ad assicurare al defunto una vita beata nelle regioni dell’Ade.
    Daccapo: morte e rinascita, tipiche “stazioni” di ogni iniziazione, vengono quindi interpretate rispettivamente come caduta dell’anima e sua successiva risalita al divino. Si prospetta così una condizione esilica dell’anima e al contempo la capacità dell’uomo di ritornare alla Patria solo in quanto ha in sé la favilla del Principio perduto (quì emerge il significato più profondo di telein che non è tanto quello di “compiere il rito” quanto quello di “giungere a compimento”). Non a caso Magnien riprende anche il mito del Dioniso orfico fatto a pezzi dai Titani, leggendolo come rottura dell’unità, sua dispersione e sua successiva ricomposizione. I disiecta membra di Dioniso “rappresentano” le anime allontanatesi dall’Uno: “l’anima subisce la medesima sorte di Dioniso; al principio ha vissuto della vita indivisa; poi è stata suddivisa nella materia e rinchiusa nel corpo come in una prigione; dopo aver subito il castigo, essa si concentra in se stessa, ovvero prende coscienza del suo intimo e vero essere e ridiventa così un Dioniso”. Già Nietzsche l’aveva compreso tanto da scrivere che “il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione”. È qui all’opera lo schema Uno- molti-ritorno all’Uno (catastrofe ed epistrofe) tipico della civiltà greca. Ad esempio Plotino riprende il mito del Dioniso orfico per “narrare” la “venuta” delle anime nel mondo le quali, rimirando le loro immagini fallaci e illusorie (eidola) nello specchio di Dioniso, si slanciano quasi istintivamente nel mondo. In Platone invece ora l’anima viene biasimata per la sua unione col corpo ora viene, nel Timeo, elogiata perché è stata mandata dal Dio nel mondo per completarlo. Porfirio afferma che la causa della caduta risiede in una colpa originaria dell’anima. Per Stobeo la caduta è legata alla perdita di libertà dell’anima o al fatto che essa, naturaliter, è “consonante” con il mondo della generazione. Per Sallustio l’anima si rende colpevole perché mira al bene ma erra circa il bene stesso. Aristide Quintiliano ritiene che l’anima cada a causa di una inclinazione per il mondo “di quaggiù”, Macrobio parla invece di una discesa “indotta da una segreta brama” e Celso invece pensa che l’anima discenda o come sanzione di una sua colpa o perché appesantita dalle passioni. Magnien poi illustra anche il momento della psicanodia, della risalita dell’anima attraverso i vari gradi dell’iniziazione eleusina. Il viaggio dell’anima sino all’henosis col divino si compie “percorrendo” i Grandi Misteri (il cui culmine è l’epopteia, la visione delle cose sacre), l’iniziazione ierofantica o regale (in cui si ha la contemplazione del Dio) sino all’iniziazione suprema che è oltre la stessa visione, perché “vedere” il Dio significa essere ancora “altro” dal Dio stesso. L’unione col Dio infatti è un “aderire”, un con-tatto nel senso letterale del termine, un “toccare il Dio” come afferma anche Aristotele nell’”Eudemo”: “l’iniziazione è un toccare direttamente la verità pura”.
    Infine Magnien descrive i riti che presiedono ai diversi “livelli” iniziatici ognuno collegato ad una complessa simbologia. Per primi vengono i piccoli Misteri (celebrati sei mesi prima dei Grandi Misteri) che consistono soprattutto in purificazioni (sacrifici, lavacri, divieti alimentari e sessuali, ecc.) e nel sonno iniziatico in qualche modo preparatorio alla vera e propria morte iniziatica. Nei Grandi Misteri il candidato è sottoposto a svariate prove iniziatiche: innanzitutto la svestizione e la sepoltura simbolica a cui segue la catabasi, il viaggio agli inferi, durante il quale l’iniziato non deve mai voltarsi al fine di mostrare l’assoluta mancanza di nostalgia per la sua condizione precedente; il viaggio termina arrivando ad una fonte di luce e ricevendo nuove vesti. Dopo un intervallo di almeno un anno, secondo Magnien, avviene il completamento dei Grandi Misteri, l’iniziazione epoptica, il cui rituale consiste soprattutto in un viaggio dall’oscurità alla luce (discesa nell’antro, visione della luce in uno specchio, successiva visione delle “cose sacre”, la spiga di grano e il fallo; in più si assisterebbe ad una vera e propria ierogamia annunciata dallo ierofante). Le successive iniziazioni per Magnien riguardano soltanto i dignitari, ossia coloro che sono preposti al culto misterico. È chiaro perciò che l’unione col Dio in questa prospettiva era davvero ristretta ad un limitatissimo numero di persone mentre la maggior parte degli iniziati si fermava all’epopteia. In queste iniziazioni si moltiplicavano le prove alle quali sottoporre i candidati fino alla perfezione assoluta, al divenire tutt’uno col Dio.


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    Sulla montagna

    Riportiamo alcune parti di una conversazione con Domenico Rudatis, già proposta, in modo più ampio, in Libraria - bollettino bibliografico delle Edizioni di Ar - del 1989. Domenico Rudatis è nome noto a coloro che praticano la ‘montagna’ come via di liberazione. Suoi scritti sono apparsi nella Rivista del C.A.I. e in Diorama filosofico (alcuni sono stati ripresentati nell’antologia curata da E. Longo per Il Cavallo alato: "Il Regno perduto"). Un suo libro - "Liberazione. Avventure e misteri nelle montagne incantate" - è stato pubblicato nel 1985 (Belluno).


    D. - Per alcuni studiosi l’approccio alla montagna attraverso l’alpinismo, se vissuto con una certa intensità, può suscitare profonde modificazioni nella sfera psichica del soggetto, che si trova così a vivere una radicale trasmutazione dei livelli di coscienza. Per questi studiosi, tale esperienza ha notevoli analogie e affinità con il “trauma” che connota, nelle antiche tradizioni esoteriche, la cosiddetta «morte iniziatica». Alla luce delle sue numerose esperienze alpinistiche ed esoteriche, qual’è il suo pensiero al riguardo?
    R. - La morte iniziatica in alpinismo è puramente letteraria! Si ritrova maggiore iniziazione nelle Odi di Pindaro e negli insegnamenti dell’Oriente che in tutta la vasta letteratura di montagna che ora si sta moltiplicando materialmente e svuotando spiritualmente. Il mio primo tentativo spirituale è la mia descrizione di una discesa notturna da Pan di Zucchero della Civetta, pubblicata nella « Rivista » mensile del C.A.I. nel maggio-giugno 1929. E’ la prima e unica nel suo genere. Fece impressione a Evola, che subito mi scrisse di collaborare a Ur. Ebbero così inizio la mia amicizia e collaborazione con Evola. Questi comprese subito la «portata esoterica» della mia esperienza. La liberazione implica pure una relativa indipendenza dalla tecnica e dalla razionalità. Altrimenti la logica sarebbe la «divinità universale»!

    D. - L’alpinismo oggi tende a divenire sempre meno un’avventura nel mondo misterioso della montagna e sempre più tecnicismo: esasperato al punto di espellere da sé la necessità della montagna, come nel caso di certe arrampicate sportive del c.d. «sassismo». Che cosa pensa di questa tendenza?
    R. - Ogni disciplina ginnastica, sia in palestra che in montagna, in fondo rimane sempre e soltanto ginnastica. Non si può pretendere molto di più. Parlare e sperare in un alpinismo spirituale è forse ormai fuori o lontano dalla realtà. Dicono che lo sponsor, la stampa e il materiale sono il triangolo dell’obbedienza - forse accettato supinamente!

    D. - Nel suo "Liberazione" lei ha scritto che la pratica dell’alpinismo può suscitare riflessioni affini a quelle di chi pratichi lo Zen e condurre a una liberazione della coscienza. Ci può illustrare questo concetto?
    R. - La pratica dell’alpinismo si avvicina allo Zen quando si riesca a sgombrare lo Zen da tutti i residui razionalistici, retorici, verbali e filosofici, secondo gli insegnamenti originari di Bodhidharma, per cui la percezione della montagna diventa pura esperienza. Così come lo Zen produce satori quando la mente risulta un limpido specchio.

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    G. Meyrink, Il viso verde, Il Cavallo alato.

    Aldo Braccio, in 'Margini' n. 21

    Un libro come Il viso verde si presta a tanti e diversi approcci di lettura, giusto secondo il grado di profondità e di attenzione riservategli: romanzo di avventure, di orrore, del mistero, occulto, iniziatico.
    È in quest’ultimo, esoterico, senso, che i pochi e qualificati lettori ritroveranno il filo d’Arianna di un cammino spirituale mai del tutto perduto. Attraverso suggestioni e colori, quasi, materialmente percepibili dalle pagine (il rosso del sacrificio cruento, il nero primordiale e mercuriale, il bianco della luminosa conoscenza spirituale, il verde della definitiva rigenerazione), e gli insegnamenti tradizionali dispensati nel corso del racconto. Per l’Autore l’importanza di una conoscenza trascendente immediata (non dialettica e discorsiva) ribalta completamente l’abitudinaria logica razionalista, ferma al pur necessario dato del coordinamento mentale.
    Sul piano sociale è assoluta la denuncia della cecità - o dell’ipocrisia - insita nella quotidiana vita borghese: la mancanza di senso, l’inanità di comportamenti instabili, il gioco di azioni e re-azioni istintive e superficiali.
    Tutto - ammonisce Meyrink - sta nell’essere svegli.
    E “di nulla l’uomo è tanto convinto come del fatto di stare sveglio, mentre in realtà è prigioniero di una rete di sonno e sogni da lui stesso intessuta”.
    “In verità l’immortale è solamente l’uomo risvegliato”.
    Scopo dell’effimera vita è l’immortalità. Ognuno proceda - suggerisce Il viso verde - secondo la propria volontà e predestinazione, lungo una strada che è diversa per tutti ma che porta, alla fine del proprio segmento esistenziale, al Principio Unico, ove spazio e tempo si dissolvono.
    Non è questa una strada per tutti: si incrociano, nei transitori corpi viventi, due correnti diverse, l’una diretta verso l’ascesa e la Vita, l’altra verso morte e decomposizione.
    L’eternità non è un tempo infinito, ma è fuori dal tempo: la ricerca del Principio è la ricerca dell’eternità.
    Il risveglio spirituale - avverte Meyrink - comincia dal corpo, riscattandolo dal suo stato di prigione: è necessario interrompere l’identificazione dell’Io con il corpo stesso, andare oltre.
    Dare un ordine, in noi stessi, al caos, per ripristinare in noi stessi - e nel mondo - l’elemento divino: Dio - ammonisce ancora l’Autore - è dentro di noi, non fuori, se sappiamo uscire dalla dimensione della Creazione, del divenire, per ritrovare quella dell’Essere.
    Ben più di un cenno meriterebbe anche la capacità espressiva, la forza di rappresentazione dimostrata - anche negli altri romanzi, Il Golem in testa - da Meyrink.
    È come un impatto in chiaro-scuro, che dall’esterno appare spesso esasperato, inquietante, ferito, per rivelare - attraverso fasci di luce improvvisa, lame radenti di energia pura - la realtà nascosta.
    Allora il segno è netto, essenziale, estraneo a descrizioni dettagliate - e produce gorghi impetuosi che catturano la nostra attenzione, aiutandoci a uscire dal grigio disincanto quotidiano.
    E la parola si converte in silenzio, il silenzio in distacco dal mondo - in visione dell’Assoluto.


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    J.-M. Sallmann, Santi Barocchi. Modelli di Santità, pratiche devozionali e comportamenti religiosi nel Regno di Napoli dal 1540 al 1750, Argo.

    Il tema principale del libro riguarda la comparazione tra la santità e lo sciamanesimo. Com'è noto lo sciamanesimo è un fenomeno religioso complesso tipico delle culture centro-asiatiche, rintracciabile tuttavia anche in altre aree geografiche quali le Americhe, l'Oceania, l'Africa, l'Estremo Oriente. Secondo Eliade si tratta di un'esperienza religiosadi limite, che può definirsi come una "tecnica dell'estasi" . L'estasi o trance può realizzarsi in due modi: tramite l'abbandono del corpo da parte dell'anima -la quale intraprende viaggi mistici verso le regioni superiori e quelle inferiori - ; oppure mediante l'intervento di spiriti e demoni che entrano nel corpo dello sciamano. Tale capacità fa dello sciamano un mediatore. Questi, infatti, è in grado di mettere in contatto per scopi benefici il mondo dell'uomo con il mondo soprannaturale, ripristinando, seppure brevemente, l'ormai perduta condizione paradisiaca primigenia: l'illud tempus in cui tutti potevano accedere alle zone cosmiche.
    Sallmann, dunque, dopo aver evidenziato gli aspetti principali dell'idea di santità sviluppatasi nel Regno di Napoli tra la metà del XVI secolo e la fine del XVIII, analizza i tratti peculiari propri del santo e dello sciamano, mettendo in luce taluni aspetti comuni e che vale la pena qui accennare. In primo luogo il legame ereditario: come per lo sciamano i poteri si trasmettono in linea familiare, così il santo presenta nel proprio albero genealogico personaggi venerabili, beati, santi. Quindi la predestinazione: in entrambi la "chiamata" è avvertita come una crisi, essa avviene tra adolescenza e maturità e prevede uno stato di irrequietezza psicologica, di ansia, cui si accompagna un atteggiamento di rottura verso l'ambiente di provenienza (abbigliamento trasandato, taglio dei capelli, ecc.). L'apprendistato spirituale si delineerebbe come un terzo elemento comune: mentre il neofita svolge il proprio tirocinio sotto la guida di un maestro sciamano, il futuro santo, entra in contatto con un altro venerabile che diventa la sua guida. Altri vistosi tratti condivisi sarebbero poi gli stati alterati di coscienza (visionarietà, estasi, sogni profetici, levitazione, ecc.), e taluni poteri specifici quali il dominio sugli elementi atmosferici, il linguaggio degli animali, la divinazione, la facoltà di operare prodigi, la taumaturgia. (da 'Margini n. 38)




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    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Economia e finanza


    Indice:

    - La moneta come mezzo o come fine del processo sociale.
    Un confronto tra W. Beveraggi Allende e G. Simmel.


    - A proposito del “Disastro di una Nazione”



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    La moneta come mezzo o come fine del processo sociale.
    Un confronto tra W. Beveraggi Allende e G. Simmel.

    Francesco Ingravalle, in "Margini" n. 31, aprile 2000




    La pietra angolare del saggio di Beveraggi Allende —La teoria qualitativa della moneta (Edizioni di Ar)— è costituita dalla seguente affermazione: il valore del denaro, in una economia monetaria, dipende essenzialmente dalla "destinazione produttiva per cui questo denaro è stato immesso nell'economia."1 Il valore del denaro dipende, cioè, dalla sua finalità produttiva, la "causa" del suo essere immesso nell'economia è interpretabile come "causa finale" - il che significa che viene introdotta la categoria di "finalità" nella riflessione sul denaro. Parlare di "finalità produttiva" equivale a parlare di "finalità sociale" e questo, a sua volta, equivale a porre un'istanza di controllo sociale sulla circolazione monetaria, a tentare di sottrarre la dinamica della circolazione monetaria ai meccanismi della speculazione e persino ai "capricci" della distribuzione dei redditi. Si esce così dalla logica liberistica del laissez faire e dalla mitologia smithiana della "mano invisibile" che ripartirebbe "naturalmente" la ricchezza.

    E' chiaro che l'introduzione della considerazione finalistica nel problema della immissione del denaro in un dato sistema economico sia impossibile senza caricare l'amministrazione pubblica di un compito preciso di controllo sulla moneta e sulla circolazione.

    E', parimenti, chiaro che il denaro viene considerato come strumento della produzione, in evidente contro-tendenza rispetto ai reali meccanismi dell'economia finanziaria e alle sue teorie apologetiche che fanno del denaro l'alfa e l'omega dell'intero processo produttivo.

    Per Beveraggi Allende ciò che conta non è il "confronto globale" tra moneta da un lato e beni e servizi dall'altro, come nelle teorie quantitative della moneta, bensì "la parcellizzazione settoriale" o "interazione settoriale" tra le parti che compongono queste variabili la quale contribuirà non solo a chiarire la formazione dei distinti prezzi ( e di conseguenza il livello dei prezzi), ma anche a rendere possibili e ad orientare l'"immissione" dei flussi monetari, là dove essi risultino più convenienti.2

    Confrontare globalmente moneta, beni e servizi crea, per così dire, una "cattiva universalità" in cui si perde, con la specificità dei diversi settori produttivi, anche la possibilità di orientare l'immissione dei flussi monetari, cioè di pianificare gli interventi politici di rettifica dei meccanismi di mercato. Tale confronto globale è, invece, l'anima del modo di procedere tipico della teoria quantitativa della moneta. Che cosa significa, infatti, "confronto globale"? Perdere di vista quei fattori qualitativi che incidono, comunque, sulla consistenza degli indici quantitativi che dovrebbero darne espressione matematica e ridursi ad amministrare pure sequenze di cifre al netto della conoscenza qualitativa del "modo di operare" delle specificità dei singoli settori. I dati che compaiono in tutta la loro veste matematica di oggettività sarebbero, dunque, sostanzialmente non rispondenti alle vere dinamiche del sistema economico.

    La teoria quantitativa della moneta si riconosce bene dalle terapie che propone: "per evitare l'inflazione bisogna evitare l'‘eccesso di mezzi di pagamento’ in rapporto alla quantità di beni e di servizi, e per evitare la deflazione bisogna procedere nel senso inverso, ovvero, bisogna provocare, tra l'altro, un certo ‘eccesso di mezzi di pagamento’"3. La condizione ottimale del sistema economico sarebbe la stabilità della massa monetaria - che si tenta di ottenere "razionando"il credito con la pratica di alti tassi di interesse. Così, però, si colpisce lo sviluppo della produzione, si favorisce l'elefantiasi dei servizi e si facilitano le manovre speculative.

    Il rimedio viene indicato attraverso tre formule:

    - estensione del credito produttivo al tasso di interesse minimo affinché non lievitino i prezzi;

    - credito qualitativo destinato alla produzione e orientato al raggiungimento della piena occupazione dei fattori produttivi;

    - credito qualitativo destinato al consumo e orientato dal criterio del bene comune.

    E' evidente che l'interesse dell'Autore è attratto soprattutto dai problemi della produzione e dall'incidenza dei problemi monetari su di essi; la distribuzione è, in effetti, studiata sopratutto in relazione alle finalità produttive - dove, comunque, non risulta facilmente individuabile una analisi sociale dell'"ambito produttivo". Quest'ultimo si presenta, nella teoria, come stranamente compatto, esente da conflitti di classe o anche soltanto di interesse che caratterizzano, invece, ogni struttura sociale classista, basata sulla divisione del lavoro e sull'approprazione privata del plusvalore. Il sistema economico descritto dall'Autore sembrerebbe una "comunità organica" originaria; sennonché, le sue caratteristiche salienti sembrano, invece, essere quelle di una società divisa in classi in cui, però, il bene comune prevale sull'appropriazione privata. La sfera della produzione viene presupposta come un ambito di organica collaborazione fra lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione in chiara contro-tendenza rispetto alla realtà dei rapporti sociali tipici di un contesto moderno. In altre parole, il conflitto di classe è assente dal modello proposto e non viene visto neppure come forza interferente nei processi di produzione e di scambio.

    E' significativo che, proprio perché qualitativa, la teoria monetaria di Beveraggi Allende rinvii, sostanzialmente, a criteri di valutazione come il "bene comune" o come le "finalità" (sociali, si direbbe) della creazione di nuova moneta di matrice extra-economica, affermando con chiarezza che l'economia è un mezzo intenzionato ad altro (rispetto a sé stessa). Un altro, politico, una gestione politica dell'economia, una rottura del cosmo dell'"uomo economico". Ma è possibile una simile alterità nel regno dell'alienazione, dove il denaro è diventato fine del processo sociale- tanto da far dire a Georg Simmel, nel 1889 "Mai si è trasferito in modo tanto completo su di un oggetto un valore che l'oggetto stesso possiede solo grazie alla sua traducibilità in un altro dotato di un valore proprio?"4.

    E' possibile l'altro là dove il denaro è sintesi sociale astratta, "ed è l'astrattezza propria soltanto dell'azione di scambio e non della coscienza di coloro che scambiano, la quale, al contrario, si occupa del valore d'uso delle merci (o di qualsiasi altra cosa la spinga alla sua azione d'uso) e non partecipa in nessun modo all'astrazione"5 ?

    Come ogni forma di interazione sociale, il denaro educa collettivamente:abitua ad assumere atteggiamenti verso il mondo, la vita, i nostri simili, il tempo, lo spazio, l'ozio, il lavoro; prodotto dell'interazione sociale esso conforma a se stesso l'interazione sociale complessiva al modo di una "seconda natura". E' proprio il caso di dire con Marx: "Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza."6.

    Vi è, dunque, una sorta di "inconscio sociale" attraverso cui si affermano i meccanismi dell'astrazione conformando i nostri comportamenti, spesso contraddittori rispetto alle nostre idee di valore (morali, religiose o politiche). Questa è l'alienazione: la soggettività non è cosciente di sé perché ha perduto la cognizione di sé nei meccanismi astraenti dell'"inconscio sociale" ("coloro che scambiano si occupano del valore d'uso delle merci" inconsapevoli di ciò che realmente li spinge all'"azione d'uso").

    Portare l'inconscio sociale alla piena coscienza è il compito della critica dell'economia politica, la quale è preliminare rispetto a ogni teoria positiva della moneta. Soltanto la critica dell'economia politica può permettere di recuperare nozioni come quella di "bene comune" o di "finalità produttiva" che fondano la teoria qualitativa stessa della moneta.

    I processi di scambio, in generale, comportano la relazionalità dei valori delle cose scambiate:lo scambio avviene sulla base dell'equivalente; infatti cose incommensurabili non si possono scambiare: non c'è equivalenza possibile tra cose ugualmente "assolute". La relazionalità dei valori non è, tuttavia, la loro relatività; per il solo fatto di essere costruzioni simboliche- o, se si preferisce, "idee senza parole" tradotte in immagini e comportamenti - ciascun valore è in quanto si trova in relazione di implicazione o di esclusione rispetto ad altri, la sua essenza si definisce continuamente attraverso l'"alterità". Il "vero" stesso si definisce attraverso il processo di negazione del "falso" e, dunque, pur essendo relazionale, non è relativo. La relatività dei valori compare soltanto quando un dispositivo di equivalenza "pareggia" quantitativamente i valori; dunque, in un sistema nel quale la quantità matematicamente misurabile è assunta come tertium comparationis esclusivo. Ad esempio, la possibilità di esprimere il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre le merci attraverso la struttura simbolica del denaro costituisce il fondamento logico della possibilità della misura matematica dei valori delle merci stesse. Il requisito della misurabilità presuppone che ogni aspetto del valore sia stato ridotto a quantità; né la morale, né la religione, né la politica costituiscono ambiti di valori esenti da un simile processo. Per la loro stessa destinazione sono chiamati a normare la realtà sociale e ne devono amministrare caratteri che non sono essi a determinare e dai quali sono, al contrario, modellati, se non determinati. Se la realtà sociale vive se stessa sotto l'esclusivo profilo di una visione quantitativa del reale, anche i valori "non-economici" saranno sottoposti a una sorta di "traduzione"in termini quantitativi.

    L'abitudine a tradurre la qualità in quantità, come habitus mentale, crea le premesse psicologico-sociali perché non soltanto i valori d'uso ma anche i contenuti rappresentativi della coscienza vengano trattati come equivalenti, diventino, cioè, oggetti esterni di scelta e commisurabili. Tale abitudine, operante non soltanto nell'economia finanziaria, ma al tempo stesso, nella visione tecno-scientifica della realtà, riduce l'intero mondo vitale a quantità equivalenti e, dunque, relative l'una all'altra. L'economia finanziaria crea un tipo di vissuto sociale e personale che stimola, così, il relativismo e il nichilismo come aspetti indissolubili della coscienza dell'economia capitalistica avanzata. E come punti teoretici di "non-ritorno". Il declino della convinzione dell'assolutezza dei valori morali ha aperto la strada al criterio "extra-morale" della funzionalità economica (il profitto) e tecno-scientifica (l'efficacia, anche sganciata dal profitto) dalla quale si ritiene di poter ricavare il "bene comune". Al contrario, l'universalità del denaro è un'universalità nichilistica: nessun fine è razionale, oppure valido, in se stesso; alla fine, scegliere l'uno oppure l'altro è questione di punti di vista, a loro volta determinati sul piano storico-sociale.7

    E' possibile ricostruire l'"anamnesi della genesi" di tale nichilismo attraverso la critica dell'economia politica se quest'ultima parte dal dato dell'alienazione e della sua inscindibile connessione con l'evento della proprietà privata dei mezzi di produzione, per cogliere, nel presente, i segni che annunciano l'"altro-dall'-alienazione". In altri termini, porsi il problema di una finalità sociale della moneta equivale a mettere in discussione la forma-merce dal punto di vista dei suoi effetti antropologici, ma nella piena consapevolezza che non si tratta di ritornare a epoche passate, ma si tratta di costruire il futuro a partire dalla critica immanente del presente ai suoi livelli più avanzati. Non si tratta, neppure, di contrapporre un modello di "uomo nuovo" alla "decadenza" presente: il "nuovo" nasce dalla dialettica dell'"attuale" o non nasce affatto; nasce dal desiderio sociale di liberarsi dalle forme di espropriazione della soggettività che hanno capovolto il progetto di emancipazione della Modernità nel livellamento economico e tecno-scientifico e dai luoghi sociali in cui l'alienazione si manifesta con i caratteri più distruttivi. Per questi motivi la critica immanente di ciò che esiste non può che presentarsi come critica dell'economia politica.

    La nozione di "bene comune", nella sua generalità, diventa comprensibile soltanto alla luce dell'immagine del soggetto espropriato della sua soggettività, cioè alla luce dell'immagine del soggetto metropolitano sottoposto alle dinamiche probabilistiche dei mercati come un tempo lo era il contadino ai capricci delle stagioni. Il "bene comune" è il contrario di tale espropriazione.

    E' possibile che soltanto in questa prospettiva il contributo di Beveraggi Allende sia comprensibile nelle sue più profonde implicazioni. Ma ciò non potrà accadere fino a che non ci si sarà convinti che le dinamiche economiche globali non rispondono alla volontà di chicchessia, ma si sono del tutto autonomizzate dalla volontà dei singoli, come dalla volontà dei consigli d'amministrazione. La complessità del sistema mondiale, anche soltanto nelle sue "frazioni" locali, rende impossibili le strategie e molto ardue le tattiche. Il denaro comanda gli oligopoli, non già viceversa; l'astratto dirige le mosse del concreto. In fondo, la teoria quantitativa della moneta non fa che rispecchiare la realtà dell'economia finanziaria assecondandone la logica, una logica dietro la quale non c'è nessun "cattivo" che stia manovrando. Ed è proprio questo che fa del nostro un mondo profondamente alienato: l'astratto domina il concreto.



    1 Cfr. Walter Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta, (1982), Tr. it. di Fabrizio Sandrelli, Padova, Edizioni di Ar, 1993, p.21.

    2 Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta , cit., pp. 22-24.

    3 Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta, cit. , p. 37.

    4 Cfr. Georg Simmel, Psicologia del denaro, tr. it. di Paola Gheri in Georg Simmel, Il denaro nella cultura moderna, a cura di N. Squicciarino, Roma, Armando, 1998, p. 49.

    5 Cfr. Alfred Sohn Rethel, Il denaro. L'a priori in contanti , (1990), tr. it. di F. Coppellotti, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 26.

    6 Cfr. Karl Marx, Per la critica dell'economia politica (1859), tr. it. di Emma Cantimori Mezzamonti, in Karl Marx, Il Capitalismo. Critica dell'economia politica, libro primo. Appendici: Per la critica dell'economia politica, capitolo VI inedito e altri scritti, a cura di Giorgio Backhaus, Torino, Einaudi, 1978, p. 957.

    7 Cfr. Max Horkheimer, Eclissi della ragione (1947), tr. it. di Elena Spagnol, Torino, Einaudi, 1974, cap. I.


    L’Autore di questo scritto ha pubblicato, per le Edizioni di Ar, i segg. volumi:
    Nietzsche. Illuminista o illuminato?,
    L’automa della legge,
    La Teoria e le sue ombre.
    Ha curato, inoltre, la recente, quarta, edizione della "Disintegrazione del sistema", di Franco Freda.

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    A proposito del “Disastro di una Nazione”*

    S. Verde, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001

    Il silenzio dei grandi economisti di questo paese -non solo di quelli che fanno la spola fra la cattedra e gli incarichi politici, ma anche di quelli che si dicono professori ‘puri’, cioè privi
    di ambizioni politiche e di aspirazioni alle consulenze del settore pubblico- su un tema di fondamentale importanza qual è quello della
    eliminazione del settore pubblico (e di buona parte di quello privato) dall’‘ancoraggio’ nazionale (ossia dal mantenimento di buona parte dell’economia italiana in mano italiana), sarebbe sorprendente se il veleno liberista, che tanto colpisce oggi la classe politica e quella imprenditoriale, non fosse asceso all’empireo del dogma pseudoscientifico.
    Quell’empireo, che vanamente i vari Adam Smith e David Ricardo cercarono di scalare nel XVIII swecolo, allo scopo di permettere all’industria inglese di dominare il mondo e di impedire l’industrializzazione tanto dell’Europa continentale quanto dei neonati Stati Uniti d’America.
    Creatosi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il clima adatto, sulle basi gettate dalla ’scuola’ monetarista di Milton Friedman e da tutti i ragionieri-’economisti’ allevati nelle varie banche centrali di emissione, BRI, Banca Mondiale, oltre che nel FMI e nel GATT (1), era inevitabile che la classe politica si arrendesse a discrezione, se questo era (e lo era) il prezzo da pagare. Un prezzo che essa ha puntualmente pagato, o meglio, che ha pagato il popolo che bovinamente le aveva -e le ha- affidato il proprio avvenire.
    Si è tanto parlato, a proposito dell’industria di Stato, di “carrozzoni” di cui l’IRI rappresentava l’esempio maggiore.
    Nessuno discute la necessità di risanare quel pozzo senza fondo, in cui si scorgeva una gestione catastrofica sopra tutto di Finsider e Finmare. Ma una cosa è il risanamento, ben altra cosa, invece, è la liquidazione; Era possibile risanare?
    Riguardo all’Italsider, se si tiene conto che i deficit erano causati sopra tutto da gravosissimi oneri bancari, da approvvigionamenti a prezzi eccessivi e dalla pletora di mano d’opera, la risposta deve essere affermativa: certo, era possibile risanare.
    Per azzerare gli oneri bancari, sarebbe stato sufficiente fornire alla gestione i mezzi necessari al normale funzionamento, a interesse zero. Eventualmente -come già si usava praticare nei confronti degli Enti Locali- tramite la Cassa Depositi e Prestiti, dato che la grande liquidità (proveniente dal risparmio postale) di quest’ultima lo avrebbe facilmente consentito.
    Per ridurre fino al 50% gli oneri del personale, sarebbe bastato attrezzare con le ultime applicazioni tecnologiche gli impianti e la movimentazione, nonché eliminare le assunzioni clientelari e le assurde remore interne imposte da sindacati ebbri di demagogia.
    Per approvvigionarsi a prezzi di mercato, sarebbe stato opportuno operare mediante aste trasparenti, anziché agire sulla base di tangenti. Inoltre si sarebbe dovuto, da una parte, puntare maggiormente sui nuovi processi di produzione e sugli acciai speciali; dall’altra, diversificare ulteriormente le fonti, acquistando magari le migliori ‘maniere’ estere. (Giappone docet). Anche per quel che riguarda il gruppo Finmare la risposta non può che essere affermativa. Per riportare ordine nei suoi conti sarebbe bastato -in difetto di idee originali- copiare il “know how” e la tecnologia giapponesi -e/o quelli della cantieristica norvegese- tanto in materia di organizzazione del lavoro quanto in fatto di flessibilità di rotte, di gestione dei container, di riduzione dei tempi morti di permanenza nei porti o in navigazione; si sarebbe inoltre potuto curare una migliore dinamica nell’acquisizione degli ordinativi e nello sfruttamento dei volumi di carico. Tutto ciò, senza dimostrare alcuna sudditanza nei riguardi di committenti eccellenti o di clienti politicamente protetti.
    In entrambi i casi (Finsider e Finmare), una immediata messa in disponibilità dei fondi di dotazione avrebbe fatto risparmiare -con o senza il ricorso alla Cassa Depositi e Prestiti- migliaia di miliardi di interessi passivi.
    Il medesimo discorso vale, mutatis mutandis, per le altre imprese del Gruppo IRI.
    A quel punto, ovvero a risanamento ottenuto, si sarebbe anche potuto vendere -però, a imprese o a consorzi italiani (o a maggioranza nazionale), con notevoli ricavi per l’Erario e, quindi, per il contribuente, mantenendo così in Italia la “cabina di pilotaggio”. Ma tant’è... Attraverso Mario Sarcinelli (2), Bankitalia aveva evidentemente già promesso (3) agli uomini della Finanza internazionale la svendita del patrimonio degli Enti di Stato -quindi....bisognava ottemperare!
    Nel suo saggio, il Venier sintetizza alcuni aspetti del disastro dell’industria italiana, rivelando nella propria agile ricognizione una lucidità e una acutezza che di rado si riscontrano pure nelle rare analisi anticonformistiche di questo tema. Di ciò, tutti gli italiani -o meglio tutti gli italiani che, pensando, rimangono pensosi di fronte alla sorte di questa Nazione- debbono essergli grati.
    La materia, in realtà, meriterebbe un’analisi più vasta e articolata, attraverso uno studio complessivo, munito di tabelle a confronto e -elemento, questo, non meno importante- integrato da un ‘libro bianco’ (o ‘nero’?), redatto dai principali protagonisti della galassia IRI. Un ‘libro bianco’scritto sopra tutto da coloro che, fra questi ultimi, non furono pedissequi esecutori di ordini politici e di ‘ukase’ della Finanza.
    Certo, sarà vano attendersi un testo siffatto da uomini come Romano Prodi che, dopo aver rappresentato in Italia gli interessi della “Goldman & Sachs”, venne nominato presidente dello stesso
    IRI: con quei risultati -a suo dire- “straordinari”, che tuttavia non impedirono la liquidazione del Gruppo a condizioni catastrofiche non solo per l’erario ma anche per l’indipendenza industriale e navale nazionale, per le maestranze, e per una miriade di professionalità irrecuperabili.
    Possa quindi questo saggio di Antonio Venier essere il primo di una più ampia letteratura specializzata. E siano resi al medesimo autore la simpatia e l’omaggio che meritano i pionieri della ricerca, in campi dove chi si avventura deve combattere non solo contro i muri di gomma ma, sopra tutto, contro l’ostilità ostinata di chi sapendo non osa parlare.
    * Note al testo di Antonio Venier, Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione, presentazione di Bettino Craxi, collezione ‘Le due bestie’, pp. 160, Edizioni di Ar, 2000.

    (1) Tutte istituzioni, queste, agli ordini delle varie Lazard Bros, Lehman Bros, Goldman & Sachs, First Boston, Warburg & Co., Hong Kong ¦ Shanghai B. Corp., Rothschild etc., con contorno di Deutsche Bank, Parisbas, UBS, Mediobanca etc.
    (2) Universalmente noto, costui, peò non essersi mai opposto, nella sua qualità di vicepresidente della Banca europea di ricostruzione e sviluppo, alle follie del suo infausto presidente Jacques Attali.
    (3) Nei primi anni ’90, a bordo del panfilo reale “Britannia”?


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    Walter Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta. Contro il “monetarismo”, l'inflazione e la disoccupazione. Edizioni di Ar, Padova 1993.
    Traduzione di F. Sandrelli, con una postfazione di S. G. Verde. Collezione “L'Antibancor”, pp. 102, L. 15.000
    Solitamente il “mondialismo” viene criticato, da destra, in modo generico e superficiale, senza alcuna cognizione né delle diagnosi né, soprattutto, delle prognosi opportune. Si tratta, cioè, di una critica meramente ideologica e priva di qualsivoglia solidità analitica. Al contrario, la “teoria qualitativa della moneta” rappresenta uno dei pochi tentativi di delineare su base scientifica una alternativa al monetarismo “quantitativo” alla Friedman oggi imperante e strumento non ultimo del trionfo globale del neoliberismo. (L. Boffa, in 'Margini n. 31, luglio 2000)

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    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    - Negazione del disincanto e confisca della memoria. Note su La banalità del bene. Come nasce una predica critica, di Martin Walser".

    - Il caso Irving





    "Negazione del disincanto e confisca della memoria
    Note su La banalità del bene. Come nasce una predica critica,
    di Martin Walser".

    Giovanni Damiano, in Margini n. 30, Gennaio 2000

    Una delle massime "parole incantate" della modernità è disincanto. Non a caso proprio agli inizi dell'età moderna si ritrovano alcuni "gesti" fondamentali, incomprensibili senza il rimando a tale parola. Alludo, ad esempio, alla baconiana "distruzione degli idoli" e, ancor più, al dubbio cartesiano, radicale revoca d'ogni tradizione ad esso precedente. Dubbio, tra l'altro, non iperbolico bensì metodico, ossia parte ineliminabile del nuovo edificio del sapere, norma essenziale dalla quale, appunto metodicamente, prendere le mosse. Certo, dal dubbio scaturisce una rinnovata pretesa fondazionistica —l'io penso—, a testimonianza del fatto che ben più "moderno" è Hobbes con il suo convenzionalismo e la sua riduzione di quella che ancora per Cartesio era recta ratio, ossia ragione in grado di "afferrare" la verità, a ragione meramente strumentale. Però l'ego cogito sorge, alla lettera, dal nulla, da un nulla, si badi bene, non "sorvegliato" da alcun Dio (è l'ancora inconsapevole "ateismo" di Cartesio, "ateismo" destinato a giungere a compimento con Spinoza; cfr. K. Loewith, Spinoza. Deus sive natura, Roma, 1999). Insomma, il disincanto è a tal punto uno dei maggiori titoli di legittimità della modernità che si potrebbe agevolmente definire quest'ultima come un'epoca del sospetto, sempre attenta nello "stanare" ogni residuo sostanzialistico, ogni "mitologia", ogni verità non passata al vaglio, inquisitoriale e dissezionante, della "critica". Eppure, nell'oggi, si assiste ad un singolare fenomeno: qualsiasi tentativo "disincantante" nei confronti del nazionalsocialismo viene aspramente condannato e combattuto. In breve: si finisce per rinnegare proprio quel disincanto che è la stessa ragion d'essere della modernità. Il nazionalsocialismo viene, così, consegnato, paradossalmente, all'universo del mito. E ciò vale in modo particolare per quello che è considerato il centro simbolico e fattuale del nazionalsocialismo, vale a dire Auschwitz. Ed è evidente che tale atteggiamento ha ripercussioni decisive sulla memoria, in questo caso storica. Se il nazionalsocialismo, ed Auschwitz in particolare, assurgono a "mito", essi finiscono per costituire un esempio paradigmatico di ciò che E. Nolte ha definito"un passato che non passa" e, bisogna aggiungere, che non può passare, per sempre sottratto al "deterioramento" della storia, quasi la riproposizione, nel cuore del moderno, di una sorta di "eterno presente" parmenideo. Un passato, pertanto, dal quale non ci si distanzia ma che, al contrario, a conferma del suo carattere fondamentalmente mitico, va costantemente ri-attualizzato, affinché non "precipiti" nello scorrere usurante del tempo. Ovviamente tutto ciò non vuol dire che il passato vada considerato un mero "deposito" di episodi egualmente omogenei e vuoti (per dirla alla Benjamin), anzi: il passato resta "carico" di attualità. Ma è indubbio che basta dare uno sguardo anche distratto alle semplici cronache quotidiane per percepire che il nazionalsocialismo vi occupa un posto tutto speciale, e innanzitutto per l'enorme carica di affettività moralistica che l'investe. Non solo; per essere più precisi: la nostra epoca è sovente accusata di possedere scarso senso storico, il che è indubitabile e, al contempo, ovvio. Un'epoca incessantemente volta al futuro non è, di per sé, portata a "guardare indietro" ma, appunto, a ritenere il passato un cumulo indifferenziato di episodi, smentendo così ogni possibilità di ri-attualizzazione. Anzi, "vedere" il passato nel senso benjaminiano costituisce scandalo ed eresia, significa, è l'invariabile accusa, volgere le spalle al futuro per affidarsi ad una nostalgica e "passatista" concezione del mondo o, peggio, pensare che il passato possa imprevedibilmente irrompere nel presente per dar vita ad un nuovo inizio. Con una sola eccezione: appunto il nazionalsocialismo. » È questo l'unico passato che sembra sempre e in ogni dove in procinto di tornare, l'unico caso in cui la memoria è confiscata al tempo per essere sempre "a disposizione" del presente. La cosa non sorprende, essendo il nazionalsocialismo, in negativo, la fonte di legittimità dei nostri ultimi cinquant'anni e passa. La nostra epoca si è edificata in modo specularmente rovesciato rispetto al nazionalsocialismo. Ossia: tutto ciò che quest'ultimo era, la nostra epoca lo è di segno opposto. Il nazionalsocialismo come "teologia" negativa o anche come "teodicea secolarizzata", ovvero come male assoluto che, per contraccolpo, giustifica e rende possibile quel bene assoluto altrimenti non più raggiungibile. In altre parole: quel bene assoluto che il disincanto della modernità aveva azzerato è attingibile al solo prezzo di dichiarare previamente il nazionalsocialismo "male assoluto"; ma, così facendo, si è costretti a mitizzarlo. Di qui, l'impossibilità che il nazionalsocialismo diventi un evento disincantabile, con le conseguenze più sopra esaminate.Ed è proprio a questa costellazione problematica che si rivolgono le osservazioni svolte da Martin Walser, uno dei maggiori scrittori tedeschi contemporanei, nella "predica critica" da lui tenuta l'11 ottobre 1998 nella Paulskirche di Francoforte, in occasione del ricevimento del premio della pace dei librai tedeschi per il 1998. Martin Walser ha in quel giorno chiamato le cose col loro nome, ha svelato l'uso strumentale, ideologico e morale, in ultima analisi "mitico", del nazionalsocialismo e di Auschwitz. Gli lascio pertanto la parola: " nessuna persona degna di questo nome nega Auschwitz o cavilla intorno alla sua mostruosità; quando però i 'media' ogni giorno ripropongono questo passato, io noto in me qualcosa che si ribella contro questa permanente presentazione della nostra vergogna. Invece di ringraziare per la costante presentazione della nostra vergogna, comincio a guardare da un'altra parte. Mi piacerebbe sapere perché proprio in questo decennio questo passato viene presentato come non mai. Quando io noto che in me qualcosa si ribella contro tutto ciò, tento di comprendere i motivi della presentazione continua della nostra vergogna e sono quasi felice quando credo di poter scoprire che, il più delle volte, non si tratta della memoria, della necessità di non dimenticare, bensì della strumentalizzazione della nostra vergogna per scopi del presente" (p. 21). E ancora: "Auschwitz non deve diventare routine della minaccia, un mezzo sempre pronto di intimidazione, una clava morale, o soltanto un esercizio obbligato" (p. 23). Di poi: "nella discussione sul monumento all'olocausto a Berlino le generazioni future potranno leggere quello che 'costruirono' persone che si sentivano responsabili per la coscienza degli altri. La cementazione del centro della capitale tedesca con un incubo onirico grande come un campo di calcio. La monumentazione della vergogna. Oso supporre che questo ‘nazionalismo negativo’, come lo chiama lo storico Heinrich August Winkler, per quanto sembri mille volte meglio non sia certamente da preferire al suo contrario. Vi è in realtà anche una banalità del bene" (pp. 23-25). La denuncia di Walser non conosce infingimenti: Auschwitz è oramai un rito, con i suoi officianti, i luoghi di culto sparsi ovunque (i vari musei, memoriali), i "pellegrinaggi", le "giornate mondiali", ecc. Ed è, al contempo, una formidabile arma di intimidazione e, lo si è già detto, di legittimazione. Non a caso i pur timidi tentativi di "storicizzare Auschwitz" procedono con mille distinguo e con accortezza, ben sapendo di muoversi su un terreno minato. Una sola prova al riguardo: "storicizzare il tentativo di genocidio compiuto al centro del nostro secolo [...] non vuol dire affatto normalizzare il passato ma, al contrario, denormalizzare il presente" (G. Gozzini, Capire Auschwitz: la ricerca e l'insegnamento, in "Giano", 1997, n. 24, p. 86) e inoltre: "storicizzare il nazismo vuol dire abbattere la rassicurante barriera tra noi e il 'mostro' e aprire una crisi di fiducia sul mondo attuale che torna periodicamente a parlare la lingua della pulizia etnica" (ibidem). In breve: la storicizzazione viene piegata ad esiti totalmente "attualizzanti". Lungi dal creare distanza, lo sforzo storicizzante tende a vieppiù rafforzare "l'eterno presente" nazionalsocialista. Anzi, e Gozzini lo scrive senza reticenze, la storicizzazione deve contribuire ad annullare anche un possibile accenno di distanza, deve incessantemente "lavorare" in modo da far sì che il nazionalsocialismo sia sempre percepito come qualcosa che si "aggira" ancora tra noi (il richiamo alla pulizia etnica si commenta da solo). La storia al servizio dell'ideologia, "guardiana" e complice del mito, insomma. Di fronte, e di contro a tutto ciò, il testo di Walser rappresenta una delle poche voci dissonanti. Sarebbe un buon viatico se ad essa altre si affiancassero affinché non resti vox clamantis in deserto. Ultimo punto e davvero paradossale: proprio la riflessione più matura della destra radicale, ossia di quell'area che, secondo la vulgata contemporanea, sarebbe naturaliter "neonazista", si è da tempo liberata di ogni nostalgia verso il nazionalsocialismo, grazie ad un approccio, esso sì, genuinamente storico. Ad esempio, F. G. Freda, pur riconoscendosi genealogicamente nelle radici metapolitiche del "nazifascismo", scrive: "non conserviamo santini unti di patina agiografica, né proseguiamo le esperienze concluse e gli esperimenti esauriti dal movimento legionario rumeno, da quello nazionalsocialista tedesco e da quello fascista italiano. Rappresentiamo invece un nuovo segmento sulla medesima linea retta, punti successivi che subentrano ai precedenti nello stesso significato in loro racchiuso —provvisori quanto i precedenti negli atti e nelle opere, provvidenziali quanto i precedenti nelle opere e nelle funzioni" (F. G. Freda, "Professione d'identità", in Risguardo IV, Edizioni di Ar, Padova, 1985, p. 12). Ed infine, inequivocabilmente: "il fascismo e il nazionalsocialismo debbono considerarsi fenomeni storici esauriti" (Franco Freda, L'albero e le radici, Edizioni di Ar, Padova, 1996, p. 119).

    L'Autore di questo scritto, Giovanni Damiano, ha pubblicato per le Edizioni di Ar:
    - "La filosofia della libertà in Julius Evola",
    - "Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione".
    Ha, inoltre, curato la nuova edizione di "Imperialismo pagano", di Julius Evola; la postfazione al libro di Piero Di Vona "Metafisica e politica in Julis Evola"; Un suo saggio compare, pure, nella nuova, la quarta, edizione della "Disintegrazione del sistema", di Franco Freda.



    Il caso “Irving”

    Giovanni Damiano, in 'Margini' n. 31, aprile 2000

    E' bene sgombrare subito il campo da un equivoco: lo storico inglese David Irving, appellandosi a un tribunale del suo paese, non aveva, ovviamente, alcuna intenzione di far legittimare per via giudiziaria le sue tesi, essendo evidente che la validità o meno delle stesse potrebbe essere accertata esclusivamente in sede scientifica. Il punto essenziale è un altro. Ricapitolando i termini della questione: Irving aveva querelato Deborah Lipstadt, autrice di un volume (Denying the Olocaust. The Growing Assault on Truth and Memory, A Plume Book, New York, 1994) in cui lo studioso inglese veniva ripetutamente, meglio dire ossessivamente, accusato di neonazismo, razzismo, antisemitismo in quanto negatore dell'Olocausto. Ora, la mossa di Irving era comprensibile: si trattava di salvaguardare la sua onorabilità di storico e la credibilità dei suoi lavori da accuse infamanti. Lavori, quelli di Irving, che saranno pure contestabili ma, ed è lo snodo decisivo, solo sullo stretto terreno scientifico, senza ricorrere a squalifiche a priori, pesantemente moralistiche.
    Però, e qui si entra nel vivo della questione, l'intento della Lipsdadt non era affatto quello di discutere le tesi negazioniste di Irving (e, in primis, gli argomenti da quest'ultimo addotti a loro sostegno) ma di screditarle appunto a priori, in base alla semplice contestazione che chiunque metta in discussione l'Olocausto non potrà non essere un neonazista, ecc. Sta tutta qui la “regola aurea” della metodologia antinegazionista: non discutere con i negazionisti (o revisionisti), il che significherebbe l'implicito riconoscimento perlomeno del loro status di storici, ma limitarsi ad accusarli dei peggiori crimini ideologici. Questo metodo, inaugurato da Pierre Vidal-Naquet in Francia, ha trovato nella Lipstadt una solerte seguace. Non a caso l'autrice americana scrive: "Non bisogna perdere tempo a rispondere ad ognuna delle asserzioni dei negatori. Sarebbe un lavoro interminabile rispondere a coloro che falsificano conclusioni, citano fuori contesto e respingono risme di testimonianze poiché sono contrarie ai loro argomenti. E' la capziosità dei loro argomenti, non gli argomenti stessi, a richiedere una risposta. Il modo con cui essi confondono e travisano è ciò che voglio dimostrare; soprattutto, è essenziale esporre l'illusione di una indagine ragionata che nasconde le loro finalità estremistiche" (D. Lipstadt, op. cit., p. 28). Ora: queste parole della Lipstadt suonano oltremodo oscure. Da un lato si afferma che l'esame critico degli argomenti addotti dai negazionisti sarebbe una mera "perdita di tempo", dall'altro, però, si dedica un'intera opera alla confutazione del negazionismo. I conti non tornano, perché delle due l'una: o i negazionisti espongono tesi del tutto inconsistenti dal punto di vista storico (alla stregua di chi affermasse, ad esempio, che Napoleone non è mai esistito), e allora non si comprende affatto perché la Lipstadt si sia presa la briga di attaccarli, oppure le tesi negazioniste poggiano su fondamenta documentali e allora l'unico modo per liquidarle sarà il sottoporle al vaglio dell'esame critico. Tertium non datur. In breve: le tesi negazioniste sono, popperianamente, falsificabili, in quanto si basano su documenti e analisi tecniche rese di pubblico dominio e quindi facilmente verificabili. E dunque solo il ricorso all'impegno degli storici seri e all'impiego dei normali criteri metodologici garantirà la piena risoluzione della querelle. Ma di “storici” come la Lipstadt (e del tribunale che le ha dato incredibilmente ragione) davvero non si sa che cosa farne.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Storia antica e medievale



    Indice:

    - La religione degli antichi Germani;

    - Un cammino per le anime. Note sull’opera di V. Magnien, 'I Misteri di Eleusi';

    - recensioni

    ---------------------------------------------------

    La religione degli antichi Germani

    Stefano Giuliano, in "Margini" n. 28, ottobre 1999

    Le principali fonti delle nostre conoscenze relative alla religione dei Germani sono: le cronache degli autori latini (soprattutto la "Germania" di Tacito, scritta nel 98 d.C.); le "Vitae" dei missionari, redatte a cavallo tra l'epoca del Basso Impero e l'Alto Medioevo; le composizioni islandesi denominate "Edda poetica" (raccolta anonima di carmi risalenti, probabilmente, al IV-V secolo, ma compilata nella seconda metà 88 del XIII secolo d.C.) e "Edda in prosa" (composta da Snorri Sturluson verso il 1220 circa); le poesie degli scaldi, basate sul patrimonio comune germanico e caratterizzate dall'uso delle così dette "kenningar" (1) (IX-XIV sec.); e, infine, le celebri saghe norrene (scritte nei secoli XII-XIII), racconti eroici, unici nel loro genere, che si pongono alla base del romanzo moderno. A questo elenco si può aggiungere le "Gesta Danorum" di Sassone Grammatico, opera stilata tra il XII e il XIII secolo, ma si tratta di materiale fortemente rielaborato e razionalizzato. Altre fonti sono le genealogie dei re norvegesi; le cronache degli insediamenti vichinghi in Islanda e Groenlandia; i reso conti di viaggiatori non scandinavi, come l'arabo Ibn Fadlan; gli autori cristiani, come Adamo di Brema; nonché i toponimi, la numismatica, le ballate popolari, l'iconografia.
    Le fonti classiche costituiscono un primo determinante approccio per lo studio della religione antico-germanica. Autori come Cesare, Plinio, Tacito si occuparono delle popolazioni abitanti al di là del Reno, che premevano sul limes imperiale. Nondimeno, tali fonti, quando elencano le divinità germaniche lo fanno per il tramite della così detta "interpretatio romana" , ossia sovrapponendo i nomi degli dei di Roma a quelli locali. Si genera, in tal modo, il problema dell'individuazione delle divinità locali "nascoste" sotto tale strato e che, spesso, è tutt'altro che certa. Il processo di identificazione si fonda sul confronto delle funzioni ascritte agli dei in questione, del materiale iconografico, nonché delle corrispondenze nella scelta dei nomi dei giorni della settimana(2).
    In un celebre passo, Tacito ("Germania", 9) indica quattro principali divinità: Mercurio, Ercole, Marte, Iside. Mercurio, scrive Tacito, è sopra tutti gli dei e a questi si immolano vittime umane. Egli, dunque, è identificabile con *"Wodanaz" (antico nordico Odhinn, antico inglese Woden, antico tedesco Wuotan). L'associazione tra Mercurio, che non è certo il più importante degli dei greco-romani, e Wodanaz nasce dal fatto che entrambi presentano un aspetto decisamente oltretombale. E' nota, infatti, la funzione di accompagnatore dei morti riservata a Mercurio, così come è altrettanto noto che a Wodanaz era affidata la cura dei guerrieri caduti in combattimento. Altre motivazioni per associare i due dei poggiano sull'iconografia: nelle raffigurazioni, a Wodanaz sono attribuiti la lancia e il cappellaccio, e a Mercurio il pètaso (cappello a falda larga) e il caduceo (bastone alato con due serpenti attorcigliati). Un'altra conferma si trova nella struttura dei giorni della settimana, cioè nella corrispondenza del "dies Mercurii" con il giorno di Wodanaz (inglese Wednesday, olandese Woensdag, antico scandinavo Odhinsdagr). I Germani, continua Tacito, placano Ercole e Marte immolando animali. Marte è, generalmente, identificato con il dio *"Teiwaz" (antico nordico Tyr), come prova la corrispondenza tra il giorno di Marte e il giorno di Teiwaz (inglese Tuesday, antico frisone Tiesdei, ecc.). Ercole, a sua volta, in un primo tempo, fu identificato con *"Thuranaz" (antico nordico Thórr, antico sassone Thunar) in forza delle armi, la clava e il martello, con le quali sono sempre raffigurati entrambi. Tuttavia, in seguito, Ercole sarà sostituito da Giove, in quanto il martello di Thuranaz simboleggia la folgore e, dunque, è più vicino all'arma per eccellenza del dio supremo dei greci e dei romani. La nuova relazione sarà ribadita dal collegamento tra il giovedì, giorno di Giove e il giorno di Thuranaz (inglese Thursday, tedesco Donnerstag, ecc.). L'ultima divinità citata dal grande storico romano è Iside la quale, ovviamente, non è una dea romana, (tanto è vero che lo stesso Tacito suppone che i Germani potessero averne appreso il culto da contatti con altri popoli). Essa potrebbe essere identificata con Nerthus, dea della fecondità, di cui Tacito parla in seguito ("Germania", 40), e alla quale, nella settimana germanica, era consacrato il venerdì (Friday in inglese, Freitag in tedesco), e, cioè il giorno di Venere appunto. Ma l'effettivo ruolo e la giusta collocazione di questa dea sono molto vaghe. I dati relativi alla religione germanica più antica si riducono a poche altre affermazioni: il mito delle origini dei Germani dal dio Tuistone, nato dalla terra, e di suo figlio Manno, dal quale sarebbero nate le stirpi degli Ingevoni, degli Erminioni e degli Istevoni ("Germania" , 2), mito in genere spiegato tramite la comparazione con modelli dell'India vedica(3); l'esistenza di una classe sacerdotale dedita all'esecuzione dei rituali, all'interpretazione dei presagi, alla persecuzione dei rei ("Germania" , 7), ma non avente di certo lo stesso peso che avevano, per esempio, i druidi in Gallia; il culto delle Madri, divinità femminili, concepite a gruppi di tre e mai separate, la cui funzione è di protezione e tutela, e le cui tracce si possono ancora scorgere nel folklore popolare (si pensi alle fate delle fiabe).
    Appare evidente che il quadro di riferimento della religione germanica arcaica sia piuttosto scarso. Occorre arrivare all'epoca medievale, e, specificamente, ad un ambito geografico più propriamente nordico (ma etnicamente affine) per avere testimonianze più sicure e più sostanziose, e cioè alla Scandinavia dei secoli XI-XII.

    Gli dei principali nordico-germanici
    I maggiori dei sono suddivisi in due grandi gruppi: gli Asi e i Vani, dove la distinzione segnala una differenza di carattere funzionale, essendo i primi associati alla sovranità, al diritto, alla guerra, i secondi alla fecondità , alla pace. Gli Asi sono gli dei sovrani. Essi dimorano in Asgard (recinto degli Asi), una fortezza celeste situata al centro del mondo cui si accede attraverso il ponte dell'arcobaleno, "Bifröst" , perennemente sotto la minaccia dell'assalto dei giganti, i nemici mortali degli dei, rappresentanti delle forze del male, del caos, dell'oscurità.
    Odino è il dio più importante fra gli Asi. Il suo nome è connesso alla radice indouropea *Wat, nella quale è espresso il concetto di ispirazione e furore e che si ritrova nel latino vates , nell'antico irlandese faith (veggente), nel gotico *wots (furente, posseduto). L'ispirazione si lega al suo rapporto specifico con l'arte poetica, la parola ispirata e la saggezza, mentre il furore si pone in relazione con la guerra. Egli è, contemporaneamente il dio dei vivi e dei morti e può essere benigno o malevolo, positivo o negativo. Nei miti della creazione è detto che Odino conferì agli uomini "spirito e vita", egli è pertanto il padre degli uomini e degli dei. Egli, in particolare, è il padre di tutti coloro che cadono in battaglia. Costoro vengono accolti nella Walhalla , la sala degli eroi, sono chiamati Einherjar (prescelti), e lo accompagneranno nella battaglia cosmica finale che porrà termine al mondo, dopo la quale ricomincerà un nuovo ciclo.
    Tyr appartiene anch'egli alla stirpe degli Asi. Si tratta di un dio di grande importanza del quale però si sa pochissimo. Il suo nome deriva dall'indoeuropeo *Déiwos , "dio", e, probabilmente, era identificato come la divinità suprema del cielo. Nell'"interpretatio" romana egli viene inteso come Mars . Suoi attributi sono il coraggio e la saggezza che lo mettono in relazione, rispettivamente con la guerra e con la pace di cui è garante. Egli, infatti era la divinità che presiedeva l'assemblea, il Thing . Tyr è monco, suoi paralleli indoeuropei sono, come ha dimostrato Dumézil, il celta Nuada e il romano Muzio Scevola.
    Heimdallr è il guardiano degli dei. Egli siede ai limiti del cielo, presso il ponte Bifröst. Heimdallr 6 dotato di vista e udito finissimi per poter scorgere gli attacchi dei giganti. Egli è il garante dell'equilibrio cosmico, tanto è vero che il suo avversario diretto è Loki, figura che, viceversa, incarna la costante minaccia all'ordine del mondo. Heimdallr sorveglia l'ordinato svolgersi del ciclo cosmico e conosce con esattezza quando verrà la fine del mondo. In quel drammatico frangente, egli si ergeràe soffierà nel corno "Giallarhorn", il cui suono si sente in tutti e nove i mondi della cosmologia nordica, chiamando gli dei alla battaglia.
    Thor è il dio del tuono e come tale antichissimo. La sua figura trova confronti indoeuropei in Indra per gli indiani, Taranis per i celti e Jupiter per i romani. La sua presenza si fa sentire attraverso il tuono e il lampo, rappresentando quest'ultimo sia il potere sovrano, creatore, legato alla fertilità, che il potere distruttore. Thor svolge una funzione di tutela degli dei e degli uomini.
    Baldr, figlio di Odino e di Frigg, sposo di Nanna. Snorri lo descrive come il migliore degli dei, bello e luminoso, saggio ed eloquente. La sua essenza è quella di un principio della luce. Baldr è destinato a morire in circostanze tragiche a causa della malizia di Loki, ma rinascerà per presiedere alla nuova era che seguirà il Ragnarokk .
    Loki è una figura singolare tra gli dei ed è dotato di una grande ambivalenza. Egli, in taluni miti è il compagno di Odino e Thor, e spesso gli dei si traggono d'impaccio grazie alla sua astuzia e alla sua abilit\à. In altri, invece, Loki è colui che attenta all'ordine cosmico, un ingannatore maligno e temibile. Sebbene appartenga agli Asi, egli genera creature mostruose. Dalla sua unione con la gigantessa Angrboda nascono tre figli: Hel, guardiana del regno dei morti, Fenrir, il grande lupo, e il serpente che giace nell'oceano, le cui spire avvolgono tutta la terra. Egli è presente nei miti più antichi per sottolineare come il male abbia origine al principio stesso del mondo. Il suo atto più efferato è aver provocato la morte di Baldr. Per tale colpa è catturato dagli dei e incatenato a tre massi mentre un serpe velenoso è legato sopra di lui, così che il veleno gli gocciola sul volto. Loki si libererà solo alla fine del mondo allorché capeggerà le forze del male nel Ragnarokk.
    Njordr fa parte dei Vani edè il padre di Freyr e di Freya. Egli governa il vento, il mare e il fuoco, ed è il protettore dei viaggi di mare e della pesca. Il suo nome risale alla radice *Nertu - che contiene l'idea della forza vivificante e procreatrice. Nell'"interpretatio" sarebbe dunque da intendere come la dea Nerthus ponendo il problema, che rimane tuttora aperto, dell'identità sessuale di questa divinità.
    Freyr è il dio della fecondità e ha potere sulla pioggia e sul sole. Inoltre governa le ricchezze degli uomini (tra i suoi appellativi vi sono: "dio dell'abbondanza" e "dispensatore di ricchezza"). Il suo nome significa "signore". Egli dimora in "Alfheimr", il paese degli elfi, uno dei nove mondi della geografia nordica. Freyr èstato identificato con Yngvi, il progenitore, secondo Tacito, della tribù degli "Ingaevones" da cui deriva, per Snorri, la grande stirpe dei re norvegesi degli "Ynglingar".
    Freya è la dea dell'amore, della fertilità e della lussuria. Ella è anche in relazione con la guerra e le spettano la metà di caduti in battaglia (l'altra metà tocca ad Odino). E' maestra di magia, arte che si lega a pratiche sessuali, e, per la sua bellezza, è oggetto del desiderio dei giganti.

    Il Ragnarokk (fato degli dei)
    Nella concezione germanico-nordica il tempo ha un carattere ciclico. Il presente si regge sul difficile bilanciamento di forze contrapposte (gli dei contro le forze del caos, cioè i Giganti e i mostri), destinate a scontrarsi in una lotta finale che darà anche origine a un nuovo ciclo di vita.
    La fine del mondo annuncia anche, inesorabile, il fato degli dei. Il mito racconta che dapprima vi sarà un inverno aspro e terribile. Faranno seguito altre tre lunghe stagioni fredde senza soluzione di continuità, durante le quali vi saranno guerre, assassinii, sacrilegi. Nel cielo si vedranno eventi inequivocabili: il lupo Sköll ingoierà il sole, il lupo Hati la luna, le stelle scompariranno, ecc. I mostri saranno liberi: Fenrir uscirà dalla sua tana con le fauci spalancate, sbuffando fiamme dalle narici e dagli occhi, e il serpente di Midgardr si leverà dall'oceano, provocando alluvioni e maremoti. Il cielo si spaccheràe le potenze del male daranno l'assalto alla dimora degli dei. Davanti a tutti vi sarà Surtr, il demone di fuoco, quindi Loki, i giganti di ghiaccio e i demoni infernali. Costoro oltrepasseranno Biföst , che si frantumerà al loro passaggio. Heimdallr soffierà il suo corno e gli dei indosseranno l'armatura, accingendosi alla battaglia, seguiti dagli "Einherjar". Un destino di morte attende gli dei; nondimeno essi, risolutamente, vi marceranno incontro ("fatalismo attivo"). Odino sarà davanti a tutti. Egli si scontrerà col lupo Fenrir che lo ingoierà, prima di soccombere a sua volta, ucciso da uno dei figli di Odino, Vi\darr, il quale gli conficcherà la spada in gola fino al cuore. Thor combatterà col serpente e riuscirà ad ucciderlo, ma morrà subito dopo a causa del veleno di questi. Freyr lotterà con Surtr e cadrà anch'egli. Il cane infernale, Garmr, affronterà il dio T yr e moriranno entrambi, così come Loki e Heimdallr. Quindi, Surtr appiccherà il fuoco, distruggendo tutto eccetto taluni luoghi dove saranno radunati i morti (da una parte i buoni e da un'altra i malvagi, secondo una concezione che ha, probabilmente, subito degli influssi cristiani). Quando il fuoco avrà arso ogni cosa, vi sarà un nuovo inizio. La terra riemergerà dalle acque, nuovamente verde e fiorente. Un nuovo sole splenderà nel cielo. Gli dei sopravvissuti, i figli di Odino Vidarr e Vali, i figli di Thor, Baldr tornato dagli inferi, daranno inizio ad una nuova stirpe divina e, da un uomo e una donna, avrà inizio una nuova generazione umana. Tuttavia il tenebroso drago Nidhöggr solcherà i cieli, segno che la rigenerazione del mondo non significa la rottura dell'equilibrio tra forze opposte né la definitiva scomparsa del male.

    Note:
    L'asterisco che accompagna alcune parole contenute nel testo indica i termini ricostruiti secondo le regole della filologia. (N.d.R).

    (1) Si tratta di metafore piuttosto elaborate, composte di due termini per cui, ad esempio, la nave è il "cavallo dell'onda", la battaglia è "la voce della spada" , il guerriero è "albero della battaglia", ecc.
    (2) La suddivisione dei giorni della settimana venne adottata in queste regioni nel IV secolo d.C. e si basava sulla ripartizione romana.
    (3) Tuistone contiene, etimologicamente, il numerale 2, \è interpretato come il Gemello e confrontato con il dio vedico Yama, che significa appunto "gemello", mentre Manno, che significa "Uomo", è equiparato a Purusa ("Uomo"), l'uomo primordiale da cui nacque l'umanità.

    L'Autore collabora con la cattedra di Storia delle Religioni dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha pubblicato saggi e recensioni su riviste specializzate.



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    Un cammino per le anime
    Note sull’opera di V. Magnien, I Misteri di Eleusi

    Giovanni Damiano, in 'Margini' n. 19 del settembre 1997


    Nell’agosto 1796 Hegel dedica all’amico Holderlin una poesia dal titolo “Eleusi”. In essa vi è nostalgia (“le tue case, ahimé, sono divenute mute, o dea”) ma anche presagio di un nuovo inizio, comprensione per l’essenziale ineffabilità dei misteri (“al figlio dell’iniziazione la pienezza delle alte dottrine, la profondità del sentimento inesprimibile eran troppo sacre per considerarne degni gli aridi segni”) e per l’indigenza in cui le parole si trovano quando sono chiamate a dar nome a ciò che è per sua natura al di là del linguaggio (“chi mai volesse parlarne agli altri, parlerebbe con la lingua degli angeli”). Un’adesione totale. Ciò vale anche per il testo di V. Magnien, “I Misteri di Eleusi”. Non c’è in esso mera erudizione o il disincantato distacco del ricercatore, né la Grecia è trattata come una passione antiquaria ma con intima partecipazione.
    I misteri dell’antichità classica erano culti iniziatici tendenti ad assicurare una più diretta relazione col divino: “ogni iniziazione intende congiungerci al Mondo e agli Dei” afferma Sallustio (Sugli dei e il mondo, IV, 6) ed introdurre in un’esperienza straordinaria capace di trasfigurare l’esistenza all’iniziato era appunto lo scopo dei misteri, tra cui primi per importanza quelli di Eleusi, località dell’Attica non lontana da Atene. Questi ultimi erano dedicati a Demetra, la dea del grano, e a sua figlia Persefone, chiamata anche Kore, “la Fanciulla”. Questi misteri erano organizzati dalla polis ateniese e posti sotto il diretto controllo dell’archon basileus. Eleusi era il luogo in cui Kore era tornata dagli inferi dopo esservi stata condotta da Ade. E proprio ad Eleusi gli ateniesi celebravano la grande festa autunnale, i Mysteria; la processione andava da Atene ad Eleusi e culminava in un rito notturno nel Telesterion (una famiglia verbale, annota W. Burkert, largamente sovrappostasi a mysteria è proprio quella di telein, “compire”, “celebrare”, “iniziare”; telete, “festa”, “rito”, “iniziazione”; telestes, “sacerdote dell’iniziazione”; telesterion, “palazzo delle iniziazioni”. È poi ancora Burkert a ricordarci la traduzione latina di mysteria che è resa con initia, a indicare appunto la crucialità del momento iniziatico). Differenti dalle religioni monoteiste perché basati sul rituale e non su un libro sacro, perché non esclusivisti e non miranti a formare comunità di fedeli (nel senso dell’ecclesia), i misteri hanno costituito un’esperienza del sacro cruciale per il paganesimo. E davvero l’esperienza (il pathema) era il centro del culto misterico, reale e concreta esperienza che, come già ammoniva l’omerico Inno a Demetra (la dea “istitutrice” dei misteri eleusini), non era insegnabile. I misteri non insegnano nulla, permettono l’accesso ad un’esperienza (accesso però non destinato a tutti ma aperto solo ai meritevoli dell’iniziazione, vincolati per di più al silenzio sulle cerimonie sacre). Tale esperienza è perciò alogos, non discorsiva, non dicibile, come ci ricorda anche Aristotele: “gli iniziati non devono imparare qualcosa bensì subire un’emozione ed essere in un certo stato, evidentemente dopo di essere divenuti capaci di ciò”. Per Magnien il nucleo centrale del rituale iniziatico eleusino è rappresentato dalla discesa delle anime nel mondo del divenire e dalla loro risalita verso le regioni pleromatiche (stretta è quindi l’analogia con il mito che narra della discesa di Kore agli inferi e del suo ritorno). Si tratta cioè di una “peripezia” o, meglio, di una vera e propria odissea dell’anima. Le iniziazioni, infatti, dice Magnien, “hanno lo scopo di ristabilire l’anima sul trono di Zeus sia nel corso della sua vita quaggiù, sia quando essa avrà lasciato il soggiorno terreno: l’iniziato risale verso gli Dei mentre chi non lo è resta immerso nel fango”. L’iniziazione perciò rende possibile la liberazione già in vita. Magnien si discosta così dalle ricorrenti interpretazioni dei misteri eleusini come rituale salvifico tendente ad assicurare al defunto una vita beata nelle regioni dell’Ade.
    Daccapo: morte e rinascita, tipiche “stazioni” di ogni iniziazione, vengono quindi interpretate rispettivamente come caduta dell’anima e sua successiva risalita al divino. Si prospetta così una condizione esilica dell’anima e al contempo la capacità dell’uomo di ritornare alla Patria solo in quanto ha in sé la favilla del Principio perduto (quì emerge il significato più profondo di telein che non è tanto quello di “compiere il rito” quanto quello di “giungere a compimento”). Non a caso Magnien riprende anche il mito del Dioniso orfico fatto a pezzi dai Titani, leggendolo come rottura dell’unità, sua dispersione e sua successiva ricomposizione. I disiecta membra di Dioniso “rappresentano” le anime allontanatesi dall’Uno: “l’anima subisce la medesima sorte di Dioniso; al principio ha vissuto della vita indivisa; poi è stata suddivisa nella materia e rinchiusa nel corpo come in una prigione; dopo aver subito il castigo, essa si concentra in se stessa, ovvero prende coscienza del suo intimo e vero essere e ridiventa così un Dioniso”. Già Nietzsche l’aveva compreso tanto da scrivere che “il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione”. È qui all’opera lo schema Uno- molti-ritorno all’Uno (catastrofe ed epistrofe) tipico della civiltà greca. Ad esempio Plotino riprende il mito del Dioniso orfico per “narrare” la “venuta” delle anime nel mondo le quali, rimirando le loro immagini fallaci e illusorie (eidola) nello specchio di Dioniso, si slanciano quasi istintivamente nel mondo. In Platone invece ora l’anima viene biasimata per la sua unione col corpo ora viene, nel Timeo, elogiata perché è stata mandata dal Dio nel mondo per completarlo. Porfirio afferma che la causa della caduta risiede in una colpa originaria dell’anima. Per Stobeo la caduta è legata alla perdita di libertà dell’anima o al fatto che essa, naturaliter, è “consonante” con il mondo della generazione. Per Sallustio l’anima si rende colpevole perché mira al bene ma erra circa il bene stesso. Aristide Quintiliano ritiene che l’anima cada a causa di una inclinazione per il mondo “di quaggiù”, Macrobio parla invece di una discesa “indotta da una segreta brama” e Celso invece pensa che l’anima discenda o come sanzione di una sua colpa o perché appesantita dalle passioni. Magnien poi illustra anche il momento della psicanodia, della risalita dell’anima attraverso i vari gradi dell’iniziazione eleusina. Il viaggio dell’anima sino all’henosis col divino si compie “percorrendo” i Grandi Misteri (il cui culmine è l’epopteia, la visione delle cose sacre), l’iniziazione ierofantica o regale (in cui si ha la contemplazione del Dio) sino all’iniziazione suprema che è oltre la stessa visione, perché “vedere” il Dio significa essere ancora “altro” dal Dio stesso. L’unione col Dio infatti è un “aderire”, un con-tatto nel senso letterale del termine, un “toccare il Dio” come afferma anche Aristotele nell’”Eudemo”: “l’iniziazione è un toccare direttamente la verità pura”.
    Infine Magnien descrive i riti che presiedono ai diversi “livelli” iniziatici ognuno collegato ad una complessa simbologia. Per primi vengono i piccoli Misteri (celebrati sei mesi prima dei Grandi Misteri) che consistono soprattutto in purificazioni (sacrifici, lavacri, divieti alimentari e sessuali, ecc.) e nel sonno iniziatico in qualche modo preparatorio alla vera e propria morte iniziatica. Nei Grandi Misteri il candidato è sottoposto a svariate prove iniziatiche: innanzitutto la svestizione e la sepoltura simbolica a cui segue la catabasi, il viaggio agli inferi, durante il quale l’iniziato non deve mai voltarsi al fine di mostrare l’assoluta mancanza di nostalgia per la sua condizione precedente; il viaggio termina arrivando ad una fonte di luce e ricevendo nuove vesti. Dopo un intervallo di almeno un anno, secondo Magnien, avviene il completamento dei Grandi Misteri, l’iniziazione epoptica, il cui rituale consiste soprattutto in un viaggio dall’oscurità alla luce (discesa nell’antro, visione della luce in uno specchio, successiva visione delle “cose sacre”, la spiga di grano e il fallo; in più si assisterebbe ad una vera e propria ierogamia annunciata dallo ierofante). Le successive iniziazioni per Magnien riguardano soltanto i dignitari, ossia coloro che sono preposti al culto misterico. È chiaro perciò che l’unione col Dio in questa prospettiva era davvero ristretta ad un limitatissimo numero di persone mentre la maggior parte degli iniziati si fermava all’epopteia. In queste iniziazioni si moltiplicavano le prove alle quali sottoporre i candidati fino alla perfezione assoluta, al divenire tutt’uno col Dio.


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    Plutarco, Le virtù di Sparta, Adelphi.
    Di contro all’instancabile “andare” di Atene lo “stare” di Sparta, città severa (“quel gran convento” la definì, livoroso, Constant), immune dalla violenza affascinante della dialettica, chiusa alle suggestioni dell’insolito e del disarmonico, catafratta nell’immutabile costituzione di Licurgo, rispettosa del principio platonico di giustizia (“eguaglianza tra eguali, diseguaglianza tra diseguali”), incentrata sul totale spirito di servizio verso la comunità. E poi: le immagini di Sparta nella storia, la fortuna del suo mito. A caso: la Sparta modello, per monarcomachi quali Beza e Hotman, di perfetto equilibrio dei poteri, la Sparta virtuosa dei giacobini, che però avevano malamente equivocato sull’eguaglianza in vigore tra gli Spartiati. Per finire: “i loro ideali (degli spartani) sono allevamento selettivo ed eterna giovinezza, uguaglianza con gli dèi, grande volontà, fortissima fede aristocratica nella razza, cura, al di là di se stessi, per tutta la stirpe”. Queste parole, del 1934, sono di G. Benn. Il saggio da cui sono tratte non poteva non intitolarsi 'Mondo dorico'.


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    V. Magnien, I Misteri di Eleusi. Traduzione e nota introduttiva di Ezio d’Intra.
    Edizioni di Ar, Padova, 1996. Collezione Paganitas, pp. 416, con 28 ill., £. 60.000.
    Victor Magnien, professore all’università di Tolosa, scrisse i Misteri di Eleusi nel 1929, per poi approntarne nel 1938 una seconda edizione aumentata, su cui si basa la presente traduzione. L’opera è centrata soprattutto, come “recita” il sottotitolo, sulle origini e sul rituale delle iniziazioni eleusine e si segnala per la completezza della documentazione, la scrittura piana e comprensibile, l’intima “consonanza” col mondo dei misteri. Dopo due capitoli introduttivi sui misteri e sul “principio dell’iniziazione”, Magnien delinea le condizioni generali d’ammissione ai misteri e la gerarchia delle iniziazioni eleusine che vengono poi, una ad una, descritte e interpretate. In tal modo viene presentata al lettore un’opera completa ed organica che sicuramente costituisce una decisiva chiave d’accesso a uno dei fenomeni più “qualificati” del mondo greco.

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    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Le rivolte del Nord e quelle del Sud
    G. Savoini, V. Campagna

    in "Margini" n. 31, aprile 2000


    Il ritorno nella realtà politica e sociale dell'elemento “localistico” - dovuto non solo ad una reazione agli aspetti economici del processo di globalizzazione, ma anche al riaffiorare delle identità etniche - ci ha indotto a rivolgere alcune domande a esponenti di movimenti etnici: G. Savoini (giornalista della Padania) e V. Campagna (responsabile del Movimento Italia Meridionale; autore,per le Edizioni di Ar, della Rivolta di Battipaglia; direttore editoriale di Alburno).

    D. - Quanto è rilevante il fattore immigrazione nel processo delle trasformazioni globalizzanti?
    R. (Savoini) - Dietro il fenomeno dell'immigrazione extracomunitaria di massa si celano gli interessi più o meno occulti delle lobbies mondialiste. Il progetto di Governo Unico Mondiale verrà attuato soltanto dopo la distruzione, l'annichilimento, l'omologazione delle identità dei singoli popoli che compongono il continente europeo. Per questo motivo i potentati economici dell'Alta Finanza cosmopolita si servono dell'immigrazione come arma micidiale per sovvertire gli equilibri sociali, culturali ed etnici del nostro continente. L'Immigrazione non è un fenomeno inarrestabile, come propagandano gli scribacchini, i nani e le ballerine di regime. L'immigrazione può e deve essere fermata aiutando i popoli in via di sviluppo a casa loro.
    R. (Campagna) - L'immigrazione rappresenta l'atto finale di un processo livellatore delle differenze esistenti tra i popoli, condotto, inizialmente, nel far desiderare un mondo di eguali in cui la felicità è rappresentatadai beni di consumo prodotti dalle multinazionali. L'ultimo ingranaggio livellatore rischia, però, di incepparsi, in quanto moltissimi immigrati rifiutano la società occidentale, innalzando il vessillo della loro fede musulmana...ma ciò rappresenta il capitolo di un'altra lotta che noi dovremo sostenere, sia che abitiamo nell'Italia meridionale che nell'estrema punta Nord della Scandinavia, per difendere la nostra cultura di europei.

    D. - Il Nord e il Sud hanno dato risposte diverse, ma ugualmente significative, agli sconvolgimenti sociali degli ultimi decenni. Il Sud con le rivolte degli anni '60, il Nord con la creazione di un modo nuovo —etnico— di intendere la politica. Vi è possibilità che oggi il Nord e il Sud si battano assieme?
    R. (Savoini) - Sicuramente la possibilità di difendere al meglio le identità dei popoli padani e italiani passa attraverso una comunione di intenti tra le forze migliori del Mezzogiorno e della Padania. La Lega ha dimostrato di non voler perdersi nei rigagnoli di un anti-meridionalismo retorico e demagogico e auspica che il Sud possa realmente ribellarsi all'assistenzialismo e tornare orgogliosamente protagonista del suo destino. Altrimenti la Padania ha la forza di fare da sola. E lo farà.
    R. (Campagna) - Se si condivide che l'Italia è un piccolo satellite del pianeta mondialista, si condividerà anche che chiunque pensi di poter condurre da solo la lotta contro il processo di globalizzazione o è un illuso o appartiene a quel progetto mondialista che finge di voler combattere.
    Il settentrione e il meridione d'Italia non hanno alternative: devono organizzarsi autonomamente ma condurre uniti la lotta. Se per l'editore Franco Freda —imprigionato per aver previsto e denunciato, dieci anni fa, l'invasione della criminalità straniera— si fosse proceduto contestando tutt'insieme l'assurdità di processare le idee, invece di difendere i propri interessi politici di parte, oggi avremmo avuto una prima piccolissima vittoria contro il mondialismo.

    D. - In un libro di recente pubblicazione Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione (Edizioni di Ar), L'Autore chiarisce i molteplici aspetti attraverso i quali si svolge il processo di globalizzazione. Può darci un suo parere sintetico su queste tesi?
    R. (Savoini) - I veri razzisti sono coloro che negano le differenze etniche e culturali tra i popoli. Il “politically correct” che domina in Occidente è oggettivamente un pensiero razzista che non tiene conto del fallimento del “melting pot” negli Stati Uniti, ovvero nel quartier generale del mondialismo. I padanisti, così come tutti i movimenti identitari europei, elogiano le differenze e non vogliono, che in nome del mercato senza regole, alle radici tradizionali si sostituiscono i falsi miti materialistici e consumistici che trasformerebbero il territorio europeo in un degradato falansterio di meticci rimbecilliti dall'ideologia del benessere materiale (che peraltro sarà goduto solo dalle élites e dai miliardari). Viva le differenze, dunque. Abbasso l'egualitarismo che, dopo la sbornia marxista-leninista, miseramente evaporata, si è reincarnato negli esegeti del mondialismo e della società multirazziale.
    R. (Campagna) - Condivido, totalmente, l'analisi di Giovanni Damiano nella sua opera Elogio delle differenze. Infatti la globalizzazione economica è solo un aspetto di quella perversa logica volta ad imporre un modello generale unico per tutti e in tutti i vari aspetti della vita: culturale, polititca, sociale etc. Ritengo, comunque, difficile tradurre in pratica questi concetti, in quanto l'uomo moderno si illude di essere tanto più libero quanto più è schiavo del sistema materialista consumista. L'unica possibilità di evadere dalla gabbia della globalizzazione è di riscoprire la propria storia, la propria cultura, e di amare la propria Terra come elemento non causale della propria nascita.Tra i vari difetti , l'italiano meridionale ancora ha il pregio di essere legato alla propria Terra e di non aver accettato, del tutto, il dominio dell'economia sulla propria vita, come ben illustra Ulderico Nisticò nel suo Prontuario oscurantista (Edizioni di Ar).

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    A proposito del “Disastro di una Nazione”*

    S. Verde, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001

    Il silenzio dei grandi economisti di questo paese -non solo di quelli che fanno la spola fra la cattedra e gli incarichi politici, ma anche di quelli che si dicono professori ‘puri’, cioè privi
    di ambizioni politiche e di aspirazioni alle consulenze del settore pubblico- su un tema di fondamentale importanza qual è quello della
    eliminazione del settore pubblico (e di buona parte di quello privato) dall’‘ancoraggio’ nazionale (ossia dal mantenimento di buona parte dell’economia italiana in mano italiana), sarebbe sorprendente se il veleno liberista, che tanto colpisce oggi la classe politica e quella imprenditoriale, non fosse asceso all’empireo del dogma pseudoscientifico.
    Quell’empireo, che vanamente i vari Adam Smith e David Ricardo cercarono di scalare nel XVIII swecolo, allo scopo di permettere all’industria inglese di dominare il mondo e di impedire l’industrializzazione tanto dell’Europa continentale quanto dei neonati Stati Uniti d’America.
    Creatosi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il clima adatto, sulle basi gettate dalla ’scuola’ monetarista di Milton Friedman e da tutti i ragionieri-’economisti’ allevati nelle varie banche centrali di emissione, BRI, Banca Mondiale, oltre che nel FMI e nel GATT (1), era inevitabile che la classe politica si arrendesse a discrezione, se questo era (e lo era) il prezzo da pagare. Un prezzo che essa ha puntualmente pagato, o meglio, che ha pagato il popolo che bovinamente le aveva -e le ha- affidato il proprio avvenire.
    Si è tanto parlato, a proposito dell’industria di Stato, di “carrozzoni” di cui l’IRI rappresentava l’esempio maggiore.
    Nessuno discute la necessità di risanare quel pozzo senza fondo, in cui si scorgeva una gestione catastrofica sopra tutto di Finsider e Finmare. Ma una cosa è il risanamento, ben altra cosa, invece, è la liquidazione; Era possibile risanare?
    Riguardo all’Italsider, se si tiene conto che i deficit erano causati sopra tutto da gravosissimi oneri bancari, da approvvigionamenti a prezzi eccessivi e dalla pletora di mano d’opera, la risposta deve essere affermativa: certo, era possibile risanare.
    Per azzerare gli oneri bancari, sarebbe stato sufficiente fornire alla gestione i mezzi necessari al normale funzionamento, a interesse zero. Eventualmente -come già si usava praticare nei confronti degli Enti Locali- tramite la Cassa Depositi e Prestiti, dato che la grande liquidità (proveniente dal risparmio postale) di quest’ultima lo avrebbe facilmente consentito.
    Per ridurre fino al 50% gli oneri del personale, sarebbe bastato attrezzare con le ultime applicazioni tecnologiche gli impianti e la movimentazione, nonché eliminare le assunzioni clientelari e le assurde remore interne imposte da sindacati ebbri di demagogia.
    Per approvvigionarsi a prezzi di mercato, sarebbe stato opportuno operare mediante aste trasparenti, anziché agire sulla base di tangenti. Inoltre si sarebbe dovuto, da una parte, puntare maggiormente sui nuovi processi di produzione e sugli acciai speciali; dall’altra, diversificare ulteriormente le fonti, acquistando magari le migliori ‘maniere’ estere. (Giappone docet). Anche per quel che riguarda il gruppo Finmare la risposta non può che essere affermativa. Per riportare ordine nei suoi conti sarebbe bastato -in difetto di idee originali- copiare il “know how” e la tecnologia giapponesi -e/o quelli della cantieristica norvegese- tanto in materia di organizzazione del lavoro quanto in fatto di flessibilità di rotte, di gestione dei container, di riduzione dei tempi morti di permanenza nei porti o in navigazione; si sarebbe inoltre potuto curare una migliore dinamica nell’acquisizione degli ordinativi e nello sfruttamento dei volumi di carico. Tutto ciò, senza dimostrare alcuna sudditanza nei riguardi di committenti eccellenti o di clienti politicamente protetti.
    In entrambi i casi (Finsider e Finmare), una immediata messa in disponibilità dei fondi di dotazione avrebbe fatto risparmiare -con o senza il ricorso alla Cassa Depositi e Prestiti- migliaia di miliardi di interessi passivi.
    Il medesimo discorso vale, mutatis mutandis, per le altre imprese del Gruppo IRI.
    A quel punto, ovvero a risanamento ottenuto, si sarebbe anche potuto vendere -però, a imprese o a consorzi italiani (o a maggioranza nazionale), con notevoli ricavi per l’Erario e, quindi, per il contribuente, mantenendo così in Italia la “cabina di pilotaggio”. Ma tant’è... Attraverso Mario Sarcinelli (2), Bankitalia aveva evidentemente già promesso (3) agli uomini della Finanza internazionale la svendita del patrimonio degli Enti di Stato -quindi....bisognava ottemperare!
    Nel suo saggio, il Venier sintetizza alcuni aspetti del disastro dell’industria italiana, rivelando nella propria agile ricognizione una lucidità e una acutezza che di rado si riscontrano pure nelle rare analisi anticonformistiche di questo tema. Di ciò, tutti gli italiani -o meglio tutti gli italiani che, pensando, rimangono pensosi di fronte alla sorte di questa Nazione- debbono essergli grati.
    La materia, in realtà, meriterebbe un’analisi più vasta e articolata, attraverso uno studio complessivo, munito di tabelle a confronto e -elemento, questo, non meno importante- integrato da un ‘libro bianco’ (o ‘nero’?), redatto dai principali protagonisti della galassia IRI. Un ‘libro bianco’scritto sopra tutto da coloro che, fra questi ultimi, non furono pedissequi esecutori di ordini politici e di ‘ukase’ della Finanza.
    Certo, sarà vano attendersi un testo siffatto da uomini come Romano Prodi che, dopo aver rappresentato in Italia gli interessi della “Goldman & Sachs”, venne nominato presidente dello stesso
    IRI: con quei risultati -a suo dire- “straordinari”, che tuttavia non impedirono la liquidazione del Gruppo a condizioni catastrofiche non solo per l’erario ma anche per l’indipendenza industriale e navale nazionale, per le maestranze, e per una miriade di professionalità irrecuperabili.
    Possa quindi questo saggio di Antonio Venier essere il primo di una più ampia letteratura specializzata. E siano resi al medesimo autore la simpatia e l’omaggio che meritano i pionieri della ricerca, in campi dove chi si avventura deve combattere non solo contro i muri di gomma ma, sopra tutto, contro l’ostilità ostinata di chi sapendo non osa parlare.

    * Note al testo di Antonio Venier, Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione, presentazione di Bettino Craxi, collezione ‘Le due bestie’, pp. 160, Edizioni di Ar, 2000.
    (1) Tutte istituzioni, queste, agli ordini delle varie Lazard Bros, Lehman Bros, Goldman & Sachs, First Boston, Warburg & Co., Hong Kong ¦ Shanghai B. Corp., Rothschild etc., con contorno di Deutsche Bank, Parisbas, UBS, Mediobanca etc.
    (2) Universalmente noto, costui, peò non essersi mai opposto, nella sua qualità di vicepresidente della Banca europea di ricostruzione e sviluppo, alle follie del suo infausto presidente Jacques Attali.
    (3) Nei primi anni ’90, a bordo del panfilo reale “Britannia”?


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    Trent'anni fa un libro di Franco Freda


    Tra gli scritti che hanno segnato la generazione che si disse neo-fascista, o come fu altrimenti detta, appartenente alla destra radicale negli anni immediatamente seguenti il '68, una speciale importanza riveste quello che Franco Freda pubblicò trent'anni fa con il titolo "La disintegrazione del sistema".
    Il testo, scritto con innegabile stile e qualitativamente di molto superiore a quanto mediamente caratterizzava la letteratura politica dell'estrema destra dell'epoca, appartiene alla fase utopica e sostanzialmente impolitica di questo medesimo ambiente, così come si espresse all'indomani del '68. Il sistema del quale Freda predicava e intendeva perseguire la distruzione era il sistema borghese. Si trattava di un progetto talmente ambizioso che l'autore non esitò a divulgarlo in forma di percorribile progetto operativo, ma che all'epoca destò ben pochi consensi e, semmai, rimediò invece qualche sarcasmo. Secondo quel progetto, veniva avanzata, nei confronti di certi settori della sinistra "rivoluzionaria", un'esplicita richiesta di alleanza tattica, al fine di creare un unico fronte comune antiborghese. Ho detto tattica, perché in termini strategici il "vero Stato" a cui faceva riferimento Freda - già allora coerente discepolo di Platone - per il suo carattere comunistico-aristocratico, non poteva certo essere confuso con gli obbiettivi di una sinistra anarcoide e collettivistica. Si trattava di un'ipotesi di lavoro assolutamente utopica e certamente provocatoria. Servì, se non altro, a chiarire chi veramente a destra e a sinistra faceva una politica antisistema nei fatti e non solo a livello retorico. Inutile ricordare l'accoglienza che una simile proposta ebbe a sinistra, in quegli anni di iper-antifascismo militante.
    La superiorità e l'ulteriorità del discorso e della prospettiva a cui faceva riferimento Freda, rispetto ai tentativi di disintegrare il sistema borghese perseguiti da sinistra, dopo trent'anni risultano evidenti e acquisiti una volta per tutte. Sarebbe interessante e istruttivo il confronto tra i percorsi paralleli di un Toni Negri e di Freda; ne emergerebbe l'insufficienza dell'analisi sociologica e filosofica intrapresa dalla sinistra più o meno marxiana. Questo perché il sistema borghese non si disintegra modificando la struttura economico-produttiva della società, come pretende e presumeva il marxismo al quale faceva riferimento la "Contestazione" di sinistra; il problema andava indagato andando alle radici di esso. E' a quest'indagine che si prestò Freda. Ora tutti abbiamo capito che il sistema borghese, come dimostrato da un'ampia letteratura che prende le mosse anche in ambito scientifico con i nomi di Weber e Sombart, è soprattutto e prima di tutto un sistema di vita, un'etica, un certo ordine di principi e di valori; in una parola, una concezione del mondo.
    La superiorità delle analisi di Freda, che rappresentarono - peraltro - uno dei tentativi più interessanti di oltrepassare Evola - L'Evola de "Gli uomini e le rovine" e di "Cavalcare la tigre", in particolare - rispetto alle analisi della sinistra cosiddetta rivoluzionaria, spiegano, almeno in parte, la ragione per la quale, mentre nei confronti degli ex terroristi rossi, anche se omicidi confessi, il sistema da anni manifesta indulgenza e comprensione, nulla di lontanamente simile, invece, nei confronti dell'Autore di "Disintegrazione". Anzi, al contrario, perché nei confronti di Freda la più recente repressione ha assunto toni e aspetti, se possibile, ancora più odiosi, inaccettabili, nei confronti dei quali anche qualche benpensante democratico e liberale ha finito per reagire. Il sistema ha riconosciuto che il discorso di Freda era più pericoloso dei vari terroristi alla Curcio; ben più radicale dell'analisi di un Toni Negri, proprio perché andava al cuore della concezione del mondo borghese, solo modificando la quale sarebbe ipotizzabile l'evocazione di un'altra forma di società. Da qui l'autodifesa violenta, inaudita sferrata dal Sistema, attraverso la servizievole opera dei solerti "Custodi" togati della sua ortodossia.
    A tutto ciò si aggiunga il fatto che dopo il 1990 Freda, con il suo Sodalizio denominato Fronte Nazionale, si è avventurato in quel terreno minato che è la questione dell'immigrazione. Non sono bastate agli inquisitori tutte le precisazioni intorno al significato che dal Sodalizio veniva attribuito al concetto di razza; Freda andava a contrastare il progetto perseguito dalle forze del mondialismo di trasformare l'Europa in una società multirazziale e multietnica. Ancora una volta il sistema si è sentito toccato nel punto nevralgico e ha reagito. Nei confronti del Fronte Nazionale e soprattutto di Freda la più ortodossa delle procure d'Italia, quella di Verona, si è resa protagonista di uno dei più arroganti processi alle idee di quest'Italia cosiddetta democratica e liberale. Utilizzando la consulenza dello storico comunista Enzo Santarelli, questa Procura è riuscita a far condannare Freda in nome della Legge Scelba e del famigerato Decreto Mancino. Si è trattato di un processo alle idee in grande stile e orchestrato secondo una regia ancora più subdola, perché questa volta mancavano i riflettori della grande informazione.
    Siamo così arrivati alle cronache di questi ultimi anni e alla verità che esse ci insegnano: il sistema non si è disintegrato affatto. Quasi tutti coloro che a vent'anni ne volevano la distruzione, ora in esso sono perfettamente integrati e omogenei. Avrebbe detto Nietzsche che "nella vita si diventa sempre ciò che si è". Non è questione di moralismo, la mia: è semplicemente una constatazione. Il borghese come "tipo", nel senso attribuito alla parola da JUEnger, ha vinto e ora predomina ovunque. La grande utopia di Freda si è dissolta o si è solo eclissata? Impossibile dare una risposta. Nonostante tutto ancora esistono uomini capaci di sottrarsi alle lusinghe del sistema borghese. Ricordare oggi quel libriccino di trent'anni fa non può avere nulla di intellettualistico; non si tratta di un divertissement, di un nostalgico tuffo nel proprio passato di aspirante rivoluzionario, per chi, ormai, è alle soglie dei cinquant'anni. Deve valere ancora una volta la regola già indicata da Evola secondo la quale: ciò su cui non posso nulla, nulla possa su di me. Se non sarà possibile disintegrare il sistema, quanto meno, si cerchi di non vedere disintegrato il nostro io, radice metafisica dell'uomo integrale.

    G. Perez, in Linea

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    Pierre Drieu La Rochelle, Eresie, Edizioni di Ar, Padova 1988, pp. 70. E. 6,20
    Cercare di comprendere Drieu La Rochelle è un pò come cercare di afferrare una meteora: sfavillante di luce, essa percorre il suo cammino bruciando se stessa nell'immane sforzo del suo tragitto. Così Drieu attraversa la scena politica e culturale del XX secolo: è difficile riuscire a cogliere la totalità del suo pensiero, aperto a tante letture trasgressive ed a volte contraddittorie, senza farsi prendere da una vertigine profonda - la vertigine di chi percepisce l'aspetto più profondo del pensiero di Drieu: la lotta alla decadenza, sia essa umana che culturale e politica. La decadenza... Nella estrema tensione di condurre una battaglia contro questo male che avviluppa la civiltà europea, indicando le possibili -ma mai definitive- alternative, Drieu sacrifica se stesso: in una testimonianza che non lascia insensibile un lettore alla cerca anch'egli di una stella polare che ne illumini il cammino nelle tortuose (e mal frequentate...) contrade della modernità.
    "Ebbene, la solitudine è la via del suicidio o, almeno, la via della morte. Certo, nella solitudine, si può godere del mondo e della vita più di quanto non si possa fare altrimenti; si può apprezzare molto di più un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli stessi uomini che passano al largo e le donne. Comunque, la solitudine è già la discesa attraverso cui ci si perde nel mondo". Questo breve passo tratto dal Récit secret, è una chiave di lettura importantissima per gli scritti di Drieu: è la testimonianza vivissima del suo travaglio interiore, Drieu "attraversa" il mondo, come un Viandante medievale, ne svela i più reconditi aspetti -ma tende continuamente ad un obiettivo ben delineato, che nella sua sfera esistenziale si trasfigurerà nella scelta del suicidio come ultimo monito e testimonianza di fedeltà e coerenza.
    In tutti gli scritti di Drieu troviamo presente questa ansia inespressa, questa cerca continua di fede e destino: così è, per esempio, anche nel protagonista dello stupendo romanzo di Drieu pubblicato da Ar, L'uomo a cavallo. La decadenza... "Sono diventato fascista perché ho misurato i passi della decadenza". Così scrive Drieu, mostrando la sua adesione a una parte politica e la fedeltà che lo condurrà nell'angusto mondo dei vinti fino alla morte. Ma l'adesione di Drieu al fascismo fu l'adesione di coglieva in questo movimento non l'aspetto contingente, spesso contraddittorio e a volte assai discutibile, bensì la dimensione metapolitica, anzi metastorica: quella della lotta alla decadenza in nome di valori forti, radicati nel profondo della stirpe.
    Nella antologia curata da Francesco Campanella per le edizioni di Ar, v'è concentrato tutto Drieu. Gli scritti raccolti furono composti negli ultimi anni della guerra, quando ormai l'esito dello scontro titanico fra democrazia e fascismo stava giungendo al tragico epilogo. Troviamo in queste pagine un Drieu tutt'altro che scoraggiato, che pur non si arrende sul futuro dell'Europa e tenta di avvertire disperatamente i segni di una possibile rinascita proprio nel momento più cupo, più buio. Nel far questo, Drieu scandaglia a fondo, quasi con disperazione, la propria anima per ritrovare i motivi che avevano provocato la sua scelta ideale e per coglierne l'intemporalità e il valore perenne.
    In questa opera, quasi di testimonianza, Drieu non usa il fioretto, ma la sua spada. Per cogliere l'immutabile, frantuma molti idoli politici del tempo: anche fra quelli appartenenti alla sua parte politica, che forse fraintese il suo generoso sforzo - dal momento che vari articoli oggi pubblicati da Ar vennero a suo tempo censurati dalle autorità tedesche. Le critiche di Drieu e le sue esaltazioni creative hanno un punto focale in cui convergono: un punto "sopra e fuori" della terra, un punto al quale l'autore può proporre le sue interpretazioni, dimostrando la sua volontà di mantenersi distaccato da preconcetti e schematismi. Le interpretazioni e le analisi di Drieu sono frutto di una mente libera, dimostrandosi raramente in linea con quelle dei regimi politici ai quali egli si affiliò. Interpretazioni eretiche, certo: ma esse colgono nel segno i motivi più profondi delle scelte di una generazione.
    Dalle pagine di questa raccolta emergono numerose diagnosi che hanno poi trovato il consenso della storiografia più attenta. Ad esempio, per Drieu il nazionalsocialismo fu una rivoluzione del nichilismo: ci sono voluti quarant'anni perché la politologia ufficiale si rendesse finalmente conto dell'importanza trasgressiva e rivoluzionaria del movimento crociuncinato: né di destra, né di sinistra. L'opzione di Drieu fu radicalmente rivoluzionaria: "Ho pensato di diventare comunista, per spingere verso la decadenza, verso la fine di tutto, per mettere tutti al muro - soprattutto il popolo [...]. E ad un tratto, c'è stato il fascismo. Tutto ridiventava possibile, povero il mio cuore!".
    Se questa fu la tensione che animò Drieu fino alla fine non possiamo dimenticare il lascito che il tormentato scrittore francese ci ha lasciato in alcune fra le pagine più belle e drammatiche di questa antologia. Pagine, queste, che subivano la censura proprio perché Drieu vedeva più in là dei suoi contemporanei. "La Germania poteva suscitare l'interesse dei popoli alla sua presenza, permettere loro di vederla da un'angolazione diversa da quella dell'occupante, solo facendo di questa presenza una presenza rivoluzionaria. I tedeschi non interessavano in quanto tedeschi, non più degli inglesi, americani o russi: ciò che interessa è ciò che gli uni e gli altri possono apportare. Gli uni il comunismo, gli altri la democrazia capitalista; i tedeschi dovevano imporre il socialismo. [...] C'è un'invocazione in quel terrore che, nel 1940, aveva preceduto l'arrivo della armate tedesche: si credeva che fossero armate rivoluzionarie. Purtroppo non è successo niente: erano solo armate di altri tempi. [...] Ora è tempo che i tedeschi non solo proclamino, ma realizzino il socialismo europeo sulle rovine d'Europa. Perché in mezzo a queste rovine c'è ancora la nostra anima da difendere. Il momento peggiore è quello migliore".
    Drieu vedeva lontano. Anche noi oggi viviamo nel "momento peggiore". La testimonianza di Drieu ci è preziosa nel nostro cammino: solo chi conosce il passato più lontano potrà conquistare il futuro.


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    G. Brandes. Friedrich Nietzsche o del radicalismo aristocratico. Traduzione dall’inglese a cura di Antonio Ingravalle; nota introduttiva di Francesco Ingravalle. Edizioni di Ar, Padova 1995. Collezione Consonanze, pp. 132, con 3 ill., £. 20.000.
    Brandes fu, di Nietzsche, attento lettore e interlocutore, come tra l’altro dimostra l’epistolario, qui integralmente riportato. Non è quindi un caso che Brandes sia stato anche il destinatario di uno di quei “biglietti della follia” che rappresentano l’estremo congedo di Nietzsche. Ma merito indiscutibile di Brandes fu l’essere stato uno dei primi a diffondere l’opera nicciana attraverso corsi universitari, conferenze e studi critici. Questi ultimi, qui tradotti per la prima volta in italiano, inaugurarono la letteratura critica su Nietzsche, in un periodo in cui l’opera del filosofo tedesco era pressocché sconosciuta al grande pubblico. Infine: il titolo del libro. Come ebbe a dire Nietzsche (lettera a Brandes del 2 dicembre 1887): “l’espressione radicalismo aristocratico che Lei impiega è ottima: mi permetta di dirlo, è la cosa più intelligente che abbia letto sinora sul mio conto”.

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    Alfred Baeumler, L'Innocenza del divenire, Edizioni di Ar, euro 25,00

    La Germania dionisiaca di Alfred Baeumler

    Il profeta del ritorno alle radici della Grecia presocratica, quando valeva la prima devozione agli dei dell’Europa

    Alfred Baeumler fu il primo filosofo tedesco a dare di Nietzsche un'interpretazione politica. Prima di Jaspers e di Heidegger, che ne furono influenzati, egli vide nella Germania "ellenica" pensata da Nietzsche la raffigurazione eroica di una rivoluzione dei valori primordiali incarnati dalla Grecia arcaica, il cui perno filosofico e ideologico veniva ravvisato nel controverso testo sulla Volontà di potenza. Asistematico nella forma, ma coerentissimo nella sostanza.
    In una serie di scritti che vanno dal 1929 al 1964, Baeumler ingaggiò una lotta culturale per ricondurre Nietzsche nel suo alveo naturale di pensatore storico e politico, sottraendolo ai tentativi di quanti - allora come oggi -, insistendo su interpretazioni metafisiche o psicologizzanti, avevano inteso e intendono disinnescare le potenzialità dirompenti della visione del mondo nietzscheana, al fine di ridurla a un innocuo caso intellettuale.
    Ora questi scritti di Baeul1Ùer vengono riuniti e pubblicati dalle Edizioni di Ar sotto il titolo L'innocenza del divenire, in un'edizione di alto valore filologico e documentale, ma soprattutto filosofico e storico-politico. Un evento culturale più unico che raro nel panorama dell'editoria colta italiana, così spesso dedita alle rimasticature piuttosto che allo scientifico lavoro di scavo in profondità.
    Inoltre, l'edizione in parola reca in appendice Una postilla di Marianne Baeumler, consorte del filosofo, in cui si chiariscono i temi della famosa polemica innescata da Mazzino Montinari, il curatore di un'edizione italiana delle opere di Nietzsche rimasto famoso per i suoi tenacissimi sforzi di edu1corarne il pensiero, sovente deformandone i passaggi culminali.
    La polemica, vecchia di decenni (data dall'insano innamoramento della "sinistra" per Nietzsche, tra le pieghe dei cui aforismi cercò invano consolazione per l'insuperabile dissesto culturale e ideologico, precipitato nella sindrome del "pensiero debole"), è tuttavia ancora di attualità, stante il mai superato stallo del progressismo, non ancora pervenuto ad un' onesta analisi del proprio fallimento epocale e quindi dedito da anni a operazioni di strumentale verniciatura della cultura europea del Novecento. È anche per questo che il breve scritto di Marianne Baeumler acquista un particolare significato, anche simbolico, di raddrizzamento dell' esegesi nietzscheana, dopo lunghe stagioni di incontrollate manomissioni interpretative.
    Effettivamente, una falsificazione di Nietzsche è esistita - soprattutto in relazione alla Volontà di potenza ma non dalla parte di Elisabeth Nietzsche, bensì proprio di coloro che, come Montinari e Colli, si studiarono di trasformare l'eroismo tragico espresso da Nietzsche con ruggiti leonini nel belato di un agnello buonista: uno sguardo alla postfazione del curatore e traduttore Luigi Alessandro Terzuolo, basterà per rendersi conto, testi alla mano, della volontà di mistificazione ideologica lucidamente perseguita dai soliti noti, con esiti di aperta e democratica contraffazione.
    Negli scritti (studi, postfazioni, saggi estratti da altre opere) raccolti in L'innocenza del divenire, Alfred Baeumler misura la forza concettuale di Nietzsche in relazione alla storia, al carattere culturale germanico e al destino della cultura europea. Egli individua come ultimo elemento di scissione lo spirito borghese, che si è inserito sotto la dialettica hegeliana per operare una sciagurata sovrammissione tra mondo classico antico e cristianesimo, ottenendo così un nefasto obnubilamento tanto del primo quanto del secondo. Un procedimento, questo, che Nietzsche riteneva decisivo per la perdita di contatto tra cultura europea e identità originaria. Una catastrofe del pensiero che si sarebbe riverberata sul destino europeo, consegnato al moralismo e sottratto all’autenticità, per cie prima speculative e poi politiche. Solo in quella nuova Ellade che doveva essere la Germania; preconizzata prima dalla cultura romantica e dalla sua sensibilità per le tradizioni mitiche popolari, poi da Holderlin e infine da Nietzsche, si sarebbe realizzata, secondo Baeumler, la riconquista dell'unità dell'uomo, finalmente liberato dalle intellettualizzazioni razionaliste e ricondotto alla verità primaria fatta di mente, di corpo, di volontà, di lotta ordinatrice, di eroismo dionisiaco, di legami di storia e di natura, di verginità di istinti e di slanci, di serena convivenza con la tragicità del destino, di oltrepassamenti verso una visione del mito come anima religiosa primordiale, come superumana volontà di potenza. Col suo duro lavoro di studioso, è come se Baeumler ci restituisse, insomma, il vero Nietzsche. II profeta del ritorno alle radici di popolo della Grecia pre-socratica, quando valeva la prima devozione agli dèi dell'Europa, secondo quanto cantò HolderIin, in un brano ripreso non a caso da Baeumler nel suo Hellas und Gennanien uscito nel 1937: "Solo al cospetto dei Celesti i popoli / ubbidiscono al sacro ordine gerarchico / erigendo templi e città.. .".
    La pubblicazione degli scritti di Baeumler - dovuta all'unica casa editrice italiana che si stia metodicamente interessando al filosofo tedesco, volutamente occultato in omaggio ai perduranti blocchi mentali - si inquadra nello sforzo culturale di porre termine, per quanto possibile, alla stagione delle dogmatiche falsificatorie. Un decisivo documento che va in questa stessa direzione è, tra l'altro, il recente lavoro di Domenico Losurdo su Nietzsche come ribelle aristocratico. Pubblicare Baeumler - come le Ar hanno fatto anche coi precedenti Estetica. e Nietzsche filosofo e politico - significa lasciare tracce eloquenti di quel contro-pensiero intimamente radicato nell'anima europea e incardinato sulla denuncia del modernismo progrossista come finale maschera del caos, che oggi o viene semplicemente ignorato per deficienza di mezzi intellettuali, o viene piegato alle esigenze del potere censorio, oppure viene relegato tra le voci della dissonanza. Il che, nella logica del pensiero unico, significa condanna e diffamazione.
    (Luca Lionello Rimbotti, in Linea, 1/12/03)


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    G. Compagno, L'identità del nemico. Drieu La Rochelle e il pensiero della collaborazione, Liguori. Euro 12,39.
    Com'è noto il “collaborazionismo” fu un fenomeno tipicamente francese non solo per la sua estensione - si calcola che circa quattro milioni di persone cooperarono con i tedeschi - , ma anche per la qualità delle adesioni, contemplando intellettuali e scrittori di fama ( Céline, Brasillach, Chateaubriand, Benoist - Méchin, Giono, ecc.). Gli odi, i rancori, le vendette private che seguirono l'entrata degli Alleati a Parigi, sortirono i propri effetti anche nel dopoguerra (carcere, condanne a morte, emarginazione culturale, ecc.), perpetuandosi sino ai nostri giorni. Basta pensare alle abituali levate di scudi che accolgono la riedizione dei libri di questi scrittori “maledetti” o l'eventuale organizzazione di convegni che li riguardino. Non si può dunque non salutare con sollievo ogni serio tentativo di riflessione che, scevra da tensioni di parte, tenti quantomeno di approfondire anche le ragioni dei vinti. Lo studio di Giuliano Compagno, avvalendosi di un notevole apparato critico che spazia da Schmitt ad Heidegger, da Girard a Bataille, da Kunnas a Sternhell, si pone l'obiettivo di valutare in tutta la sua complessità la figura e le scelte politiche di uno dei più noti scrittori francesi dell'entre-deux-guerres: Drieu La Rochelle, morto suicida il 16 marzo 1945.
    (S. Giuliano, in 'Margini n. 23)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Mondialismo


    Indice:

    - Il mondialismo e la fine della storia dei popoli. Note a: "Mondialismo e resistenza etnica", di Alberto Lembo.

    - Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità.

    - Mondialismo e resitenza etnica.

    - Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione

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    Il mondialismo e la fine della storia dei popoli.
    Note a: "Mondialismo e resistenza etnica", di Alberto Lembo,
    Edizioni di Ar.

    Massimo Pacilio, in "Margini" n. 27, luglio 1999.

    Tra le poche certezze che definiscono il nostro senso della vita c'è il sicuro convincimento che la "società" multietnica rappresenti il capitolo terminale della storia dei popoli. Nella indistinzione delle molteplici etnie che vengono riversate sull'Italia e sull'Europa, risulterà infatti progressivamente smarrita la differenza tra i popoli che ne costituiscono l'essenza: quel complesso irripetibile di qualità che rendono visibile e riconoscibile l'appartenenza, e da cui prende forma l'impianto del carattere individuale in sintonia con la cultura etnica di ciascuno. Quest'ultimo elemento genera la differenza, , senza la quale gli attributi del singolo verrebbero ridotti ad uno soltanto: la quantità. Se ancora non siamo entità semplicemente quantificabili ci è dovuto alla persistenza delle differenze etniche. Queste, seppure col loro inevitabile carico di luoghi comuni alla superficie, ma con il vigore delle loro radici in profondità, sono l'ultima forma, l'ultima qualità, oltre la quale, abolite le distinzioni di sesso, di razza , di lingua, di religione, di opinioni politiche e di nazionalità, rimarrà la produttività come unica differenza tra gli individui.La fine della storia dei popoli, le cui forme si delineano in questa fase di passaggio tra due millenni, rappresenta il segno inequivocabile della fine del concetto di progresso. Dalle stesse categorie della modernità possibile comprendere, infatti, la portata nichilistica del moderno, il suo inevitabile destino: quello di essere una fase finale. Punto conclusivo della storia, la modernità, impedendo la dialettica tra i popoli mediante la loro omologazione, impedisce che il confronto tra le diversità arricchisca reciprocamente le differenti culture.Non è un caso, quindi, che l'assioma fondante dell'attuale civiltà sia quello dell'integrazione. Esso implica, necessariamente, un presupposto meramente ideologico, ma che in seguito, grazie ad un processo indefinito di integrazione costante, non potrà che trasformarsi nell'unico valore esistente. Si realizza, per questa via, la creazione di un'umanità senza distinzioni culturali, linguistiche, religiose, in una parola: etniche. Ma se proprio dal confronto tra i popoli si è reso possibile quel fertile scambio da cui, secondo gli stessi principi della modernità, prende l'avvio ogni fase del progresso, azzerare le differenze vuol dire porre termine a questo progresso. La dialettica tra le culture, con l'apertura alle differenze che tale confronto richiede, non potrà che essere sepolta sotto una umanità amorfa e inerte, isolata dal resto, sospesa nel nulla, ricurva sulla propria sostanza materiale, in perenne contrapposizione col tutto. Lo scritto di Alberto Lembo rappresenta un contributo pregevole sulla questione fondamentale della difesa delle differenti culture europee. Per quanto il trattato di Maastricht venga considerato l'evento risolutore di tutti i problemi nazionali da una Amministrazione euro-occidentale che si è assunta l'onere di stravolgere la fisionomia delle culture esistenti in Europa, nonostante questo desolato panorama crepuscolare vi è ancora, tra i politici di 'professione', chi riesce a conservare la capacità di discernere, per restituire al discorso politico temi davvero centrali.La questione etnica doveva essere forse l'ultima delle questioni da porsi in un contesto globalmente "evoluto" come quello europeo, ma a buon diritto l'Autore ne ha fatto l'argomento portante di Mondialismo e resistenza etnica, pubblicato dalle Edizioni di Ar (impegnate su questo fronte fin dalla loro stessa fondazione). Com'è evidente dalla lettura del testo, l'Autore non prende l'avvio dalla "mozione dei sentimenti", ma circoscrive la sua rappresentazione in un ambito ben definito: quello della difesa del patrimonio culturale, la cui perdita ha sempre un carattere di definitività. Il binomio cultura-intellettualità, che esprime in s¦ la pretesa della mediazione necessaria degli 'intellettuali' per la configurazione 'della' cultura, viene nel libro validamente sostituito dal binomio cultura-tradizione, che indica la necessità della mediazione degli Autori tradizionali di una comunità etnica per la continuità della 'sua' cultura. Proprio contro l'omologazione dei concreti caratteri europei agli astratti parametri di Maastricht, contro l'uniformità di pensiero e il conformismo moralistico, lo scritto di Lembo intende condurre il discorso sul piano tradizionale ed etnico, con la comprensibile difficoltà di chi sa quanto pochi siano gli interlocutori che ne comprendano le caratteristiche oggettive. I più infatti sviano di fronte all'imbarazzo di doversi porre la questione sulle proprie origini etniche, dal momento che il nostro 'stampo' sembra ridotto ad un incubo da rimuovere, un peso da scrollarsi di dosso, una colpa da espiare. Colpevoli di non essere kurdi o kossovari, ancora più colpevoli di non essere asiatici o africani, puniamo chi di noi rivendichi un'appartenenza ad una delle nostre comunità euro-occidentali. E il senso di colpa per essere bianchi si è gi trasformato in un'insana voluttà di suicidio etnico...Il parlare della nostra necessaria appartenenza di natura e di cultura genera dunque un sentimento, se non altro, di 'rimorso': di disagio, di imbarazzo; ci ricorda un tempo in cui, nella dinamica della nostra storia, tutte le azioni erano riprovevoli, le idee false, le guerre ingiuste... Adesso che le idee sono tutte corrette, è tempo di guerre giuste e di azioni lodevoli... E si comprende meglio la smorfia implorante perdono che contrae il viso di un europeo odierno quando gli viene ricordato di 'essere un bianco: è solo un caso se sono nato in Italia nel XX secolo. Invece, sarebbe non un caso, ma la suprema delle colpe, se non condividessi la ricchezza che ingiustamente possiedo con qualsiasi straniero che intenda stanziarsi nella 'mia' terra.Come non riflettere, quindi, sull'azzeramento della natalità nelle comunità etniche della Penisola, che si manifesta quale conseguenza non di un normale processo di riequilibrio, ma di un desiderio diffuso di non-essere più? Un pragmatismo assurdo induce taluni a ritenere questo fenomeno della morte di un popolo non un evento terribile, ma un fatto meccanico di ordinaria sostituzione di esseri individuali, fungibili nel tempo e nello spazio. Un'ipotesi che verrebbe rigettata come forma latente di genocidio, se fatta valere presso altre etnie, è invece valutata addirittura come l'unica possibilità, in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici, dai quali si determinano, nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi irreversibili che conducono allo sfiguramento delle nazioni per rendere più velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso costo. Lembo avverte chiaramente quanto risulti artificiale la sostituzione di un popolo ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità di questo progetto, molti lo accettino in beata incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche 'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo accettare il mercato globale, il villaggio globale, la "società" multietnica... ma da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"? La nostra risposta è: dalla mentalità materialistica, a cui nemmeno è estraneo il mondo cristiano modernista, ossessionato dal sentimento della 'rimozione delle frontiere' e dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato dalla propria comunità di sangue e di vita storica, di altre comunità. L'Amministrazione euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine all'esistenza delle nostre identità culturali, ha deciso che nel futuro non debbano più esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli. Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento di individui 'a disposizione', flessibili, esterni a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente realizzato quel proletariato internazionale il cui avvento viene profetizzato nei testi sacri del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario internazionale, infine, saranno risolti i problemi di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto, si sarà delineata l'oligarchia mondiale, con le sue regole di conservazione. In una sorta di rinnovato determinismo storico l'omologazione etnica viene imposta come l'unica via da percorrere. L'Autore del libro "Mondialismo e resistenza etnica", mette in risalto questa falsa necessità secondo cui dovremmo supinamente accettare la nuova "società" multietnica. Intrisa del più vetusto determinismo, la mentalità materialistica vede ancora gli sviluppi economici come rispondenti ad una legge immutabile (laddove sarebbe più "moderno" dedurre che le scelte economiche non sono che l'espressione della volontà di chi, a diversi livelli, detiene il potere finanziario reale). Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato, che proprio per questo viene continuamente ripetuto come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica. L'Europa è un complesso originario di significati che ha attraversato diverse epoche; la nostra epoca ha la possibilità di dissolvere i tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando sotto il peso di faglie etniche estranee slittate sulla piattaforma continentale europea. Disegnando il panorama che caratterizzerà il prossimo quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore è la stessa del Lettore. In chi scrive, la consapevolezza della decisione è perciò avvertita con tale intensità da riflettersi con eguale impressione in chi comprende questo interrogativo così essenziale nella sua crucialità: continuare a trasmettere le forme etniche delle nostre culture o deciderne la soppressione disperdendole in una massa di culture-amebe che si confonderanno le une nelle altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio amletico tra il continuare ad essere e il non-essere, riguardando questa volta il destino delle generazioni si fa sentire in questa opposizione: o sostenere la parte affidataci dall in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici, dai quali si determinano, nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi irreversibili che conducono allo sfiguramento delle nazioni per rendere più velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso costo.Lembo avverte chiaramente quanto risulti artificiale la sostituzione di un popolo ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità di questo progetto, molti lo accettino in beata incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche 'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo accettare il mercato globale, il villaggio globale, la "società" multietnica... ma da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"? La nostra risposta è: dalla mentalità materialistica, a cui nemmeno è estraneo il mondo cristiano modernista, ossessionato dal sentimento della 'rimozione delle frontiere' e dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato dalla propria comunità di sangue e di vita storica, di altre comunità. L'Amministrazione euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine all'esistenza delle nostre identità culturali, ha deciso che nel futuro non debbano più esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli. Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento di individui 'a disposizione', flessibili, esterni a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente realizzato quel proletariato internazionale il cui avvento viene profetizzato nei testi sacri del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario internazionale, infine, saranno risolti i problemi di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto, si sarà delineata l'oligarchia mondiale, con le sue regole di conservazione. In una sorta di rinnovato determinismo storico l'omologazione etnica viene imposta come l'unica via da percorrere. L'Autore del libro Mondialismo e resistenza etnica, mette in risalto questa falsa necessità secondo cui dovremmo supinamente accettare la nuova "società" multietnica. Intrisa del più vetusto determinismo, la mentalità materialistica vede ancora gli sviluppi economici come rispondenti ad una legge immutabile (laddove sarebbe più "moderno" dedurre che le scelte economiche non sono che l'espressione della volontà di chi, a diversi livelli, detiene il potere finanziario reale). Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato, che proprio per questo viene continuamente ripetuto come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica. L'Europa è un complesso originario di significati che ha attraversato diverse epoche; la nostra epoca ha la possibilità di dissolvere i tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando sotto il peso di faglie etniche estranee slittate sulla piattaforma continentale europea. Disegnando il panorama che caratterizzerà il prossimo quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore è la stessa del Lettore. In chi scrive, la consapevolezza della decisione è perciò avvertita con tale intensità da riflettersi con eguale impressione in chi comprende questo interrogativo così essenziale nella sua crucialità: continuare a trasmettere le forme etniche delle nostre culture o deciderne la soppressione disperdendole in una massa di culture-amebe che si confonderanno le une nelle altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio amletico tra il continuare ad essere e il non-essere, riguardando questa volta il destino delle generazioni si fa sentire in questa opposizione: o sostenere la parte affidataci dalla nostra migliore tradizione, e imparata dalla nostra natura originaria e dalla nostra cultura storica, o calare il sipario, una volta e per tutte, sulla nostra rappresentazione. Alla nostra generazione è data questa decisione, i cui connotati prefigurano la nostra vita o la nostra morte in quanto organismi etnici nel dramma della storia mondiale.

    L'Autore di questo scritto, Massimo Pacilio, ha pubblicato per le Edizioni di Ar
    "Conoscenza tradizionale e sapere profano. René Guénon crititco delle scienze moderne."

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    Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità

    Adriano Segatori, in 'Margini' n. 33, Gennaio 2001

    E’ da tempo che le forze non omologate, antagoniste ad una idea per ora vincente del mondo e contrastanti l’imperante ideologia di un benessere indefinito e di una visione ottimistica in un progresso appagante, si occupano di quel problema emergente etichettato correntemente come <<globalizzazione>>.
    L’opposizione, però, appare sfrangiata e per molti versi confusa: da un lato, una puntualizzazione ed un approfondimento costante di alcune tematiche particolarmente evidenti e per molti versi scontate (politica sovranazionale, economia <<turbocapitalistica>>, manipolazione umana e ambientale, ecc.) e dall’altro, la totale assenza di un impianto dottrinale che possa chiarire le linee di partenza di questa operazione globalizzatrice e, con ciò, suggerire spunti di discussione e di convergenza di intervento per le opposizioni. Fa eccezione il lavoro di G. Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione, Edizioni di Ar, Padova, 1999, testo che, con ricchezza argomentativa, coglie la complessa multidimensionalità della dinamica globale.
    Resta il fatto che, in generale, senza una lunga, subliminale, minuziosa operazione preparatoria di vasta e capillare portata, che ha portato l’uomo a diventare un docile suddito e un malleabile fantoccio attraverso un’ammaliante anestesia, tutto ciò non sarebbe accaduto e ogni manovra si sarebbe sfaldata di fronte ad una consapevole e decisa resistenza. Invece la trasformazione è avvenuta e la caduta è tuttora precipitosamente in atto. Pertanto, pur essendo impossibile ridurre in poche righe l’analisi di questo processo, tanto complesso nel suo sviluppo quanto subliminale e anestetizzante nella sua progressione, è però possibile definirne gli indirizzi attraverso l’indicazione delle tracce.
    Con Francesco Bacone (1561-1626) e i suoi studi sul rimaneggiamento della natura attraverso l’uso di mezzi tecnici sempre più sofisticati, la scienza passa dal versante della comprensione a quello della manipolazione. L’uomo, e lo scienziato in particolare, non è più colui che attraverso l’umile studio dei segni naturali tende alla comprensione della grandezza del cosmo e della sua stessa trascendenza, ma diventa, con arroganza prometeica, il manipolatore della natura per piegarla alla sua volontà e ai suoi inesauribili desideri. La scienza diventa profana, scade a tecnologia, e nella caduta si trascina anche colui che della sua degenerazione ne era stato l’artefice e il propugnatore.
    Per mia competenza professionale è dell’uomo che mi occupo, ed è proprio a lui che intendo riferirmi quale esempio eclatante di degradazione; quella degradazione che ha permesso, e tuttora permette, e che senza un adeguato esame di realtà ed un conseguente slancio di ribellione interiore continuerà a permettere, l’operazione di livellamento omologante e di sedazione globalizzata. Innanzitutto, la prima mossa è consistita nel ridurre l’uomo da creazione divina, con l’innata tendenza a trascendere le limitazioni oggettive dell’umano, a semplice animale naturale e nell’esaltarne, conseguentemente, proprio le attitudini troppo umane, le esigenze più terrene, i bisogni più profani. Mistificando il concetto di libertà e sostituendolo con quello di liberazione, si è fatto credere all’uomo di essersi riscattato da legami che lo coartavano, quando invece quegli stessi legami erano i supporti che lo sorreggevano: con una operazione anestetizzante si è creato una suggestione esilarante, un’atmosfera psicologica che Evola definisce <<euforia da naufraghi>>. Subito dopo, c’è stato un ulteriore attacco dottrinale e pratico all’uomo come essere vivente: il Leib, corpo essenziale, con le specificità proprie date dalla biografia, dalle peculiarità familiari, dalle prerogative etniche, dal sentimento dell’essere, dall’intenzionalità dell’agire, dalla praxis in vista di uno scopo, dallo slancio progettuale, dalla memoria archetipica, è stato ridotto a Korper, corpo meccanico, strumento esistenziale, senza storia, senza biografia, senza differenziazione, senza memoria di passato né slancio al futuro, pulsionato al fare indifferente ad ogni obiettivo, senza il senso della forma dato dall’ Io sono e soltanto con l’impressione dell’ Io devo, al massimo dell’Io voglio.
    Questa impostazione è nata senza dubbio all’interno del contesto e della prassi medica e delle discipline cosiddette scientifiche (secondo la pianificazione profana) ma ha influenzato ed inquinato lo stesso concetto di <<uomo>> negli insegnamenti più disparati. L’apoteosi si è raggiunta con l’impianto teorico della psicoanalisi freudiana che ha portato all’invenzione, e al succube quanto mistificatorio accoglimento, di un inesistente uomo universale: “Il concetto di essere umano <<universale>>, certamente in grado di acquisire una cultura, considerata però come un semplice vestito – o addirittura come un ornamento – è evidentemente una pura astrazione”(Tobie Nathan). Se già da un punto di vista strettamente sanitario, organicistico, considerare l’uomo da questa prospettiva iatromeccanica è una aberrazione che si ripercuote in maniera fallimentare nel rapporto medico-paziente, immaginiamo il potere devastante che tale impostazione ha quando l’oggetto dell’analisi è la componente psichica della persona. La Psiche è sempre stata considerata l’essenza dell’uomo, quella componente non materiale che lo rende peculiare, unico, irripetibile, nei suoi rapporti con la Divinità e con la Natura; Psiche come rappresentazione immanente dello Spirito che, invece, porta alla distanza e alla trascendenza; Psiche come esperienza esclusiva del mito e dei simboli archetipici.
    Ad un certo momento, questa specificità, questa differenziazione, non erano più tollerabili per la manovra universalista; si doveva, in qualunque modo, ridurre in basso ogni diversità, ogni singolarità: l’unico modo per intervenire era, con un stratagemma particolarmente astuto, intromettersi in maniera insensibile a livello del costume e dell’idea totale della vita. L’attacco è stato concentrico: contenimento della cultura ad istruzione, abbassamento della Tradizione a folklore, semplificazione della Psiche a cervello. Sono state soffocate, in altre parole, le fonti di vita della Psiche stessa: la cultura vera e superiore è stata ridotta a semplice istruzione profana dei mezzi utili ad una produzione lavorativa finalizzata, la Tradizione quale trasmissione essenziale delle valenze di appartenenza a rappresentazione di costume da sagra paesana, la comprensione psichica a semplicistica modalità per capire i meccanismi cerebrali. Ed è lo stesso Tobie Nathan a denunciare in maniera inequivocabile questa manovra indifferenzialista quando afferma: “(...) nessuno ha mai incontrato questo ipotetico <<uomo universale>> che ci è mostrato dal pensiero psicoanalitico”, e in una nota dichiara anche: “Non sono lontano dal pensare che tutte le istituzioni che concepiscono l’altro come un <<soggetto universale>> - in Francia: la Scuola e la Medicina – siano autentiche macchine da guerra contro le culture tradizionali”.
    Una delle macchine da guerra è stata proprio la psichiatria nordamericana attraverso un Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali. Attraverso il varco creato dalle problematiche psichiatriche, essa è riuscita, con una manovra tanto abile quanto seduttiva, ad intervenire fino al limite più avanzato della cosiddetta normalità: è riuscita a far passare nell’immaginario e nella coscienza(?) collettiva il sentimento di normalità di ogni pensiero catalogato, condiviso, universalizzato; in altre parole, tutto ciò che è diverso dal sentire comune e costituito assume, ora, la dignità di un giudizio criminale oppure l’onta della considerazione psicopatologica, pansorveglianza e panpunizione, secondo l’accusa di Foucault. Con metodo e costanza, si è creata, e in una qualche misura si è diffusa, quella che Evola ha profeticamente definito razza dell’uomo sfuggente. Una componente grandemente estesa e profondamente indifferenziata, una etnia informe e elusiva che ha rivendicato i disvalori più eclatanti: senso di irresponsabilità, scadente o nulla coscienza di Sé, passività di azione sotto la copertura dei distinguo <<a chi giova?>>, <<a che pro?>>, <<mi conviene?>>, delega ad altri della soluzione dei propri problemi, superficialità e fuga costante di fronte al minimo approfondimento, attitudine all’assorbimento di ogni novità per incapacità di leggere tra le righe delle proposte, indisponibilità al minimo sacrificio e spontanea auto-offerta alla sedazione. In una parola, per rubare una definizione di Ouspensky, un <<uomo-macchina>> che anodinamente rappresenta una società senza essenza, senza stile e senza forma e, con ciò, disponibile ad ogni aberrazione e ad ogni influenza negativa.
    La manovra della psichiatria nordamericana, per giungere ad una uguaglianza di patologia, e con essa ad una altrettanto paradossale uniformità di linguaggio nella normalità, ha dovuto necessariamente partire dal presupposto che tutti gli uomini sono psichicamente uguali; contemporaneamente ha cortocircuitato il concetto di psiche a quello di cervello, a quello di un meccanismo il quale, nel momento in cui non funziona secondo una norma statistica condivisa, necessita di una manutenzione specialistica. Linguaggio, tecnica, uguaglianza: tre strumenti e tre obiettivi. Opportunamente si chiede Hillman: “Che cosa è accaduto al linguaggio della psicologia in questa epoca di superbe tecnologie della comunicazione e di istruzione democratica?”. E’ accaduto che per una omologazione completa e un sentire collettivo – la comprensione comune è tutt’altra cosa! – il linguaggio è stato ridotto a basso attrezzo di informazione, castrato della sua potenza e funzione evocativa. E l’Anima, sia essa individuale che quella che permea i destini di una comunità, parallelamente a questa caduta, ha subìto una trasformazione degenerata proprio come conseguenza del fatto che: “Quando l’anima cade sotto il controllo delle università, dello spirito laico illuministico, essa perde ogni realtà, ogni sostanza e qualsiasi rilevanza per la vita”(Hillman).
    Un uomo universale, per altri versi un uomo indifferenziato, non può che essere un uomo- macchina: tre sinonimi che indicano l’uomo della caduta, colui che ha rinnegato la propria storia, che ha delegato il proprio destino, e che vive all’insegna dell’immanente e della gestione del quotidiano. Nella negazione della propria storia, l’uomo della caduta ha demolito la propria memoria di appartenenza, memoria che non è semplice ricordo di fatti di vita o di eventi di cronaca, ma thesaurus inscrutabilis secondo l’indicazione di Sant’Agostino, vestigia dell’anima in rapporto alle divinità; molto più prosaicamente, se vogliamo, segni indelebili del proprio percorso nella scia del tempo e del fato. All’uomo-macchina non sono rimaste che date, profani segni cronologici di avvenimenti opportunamente manipolati e distorti, abilmente alterati con la finalità di spogliarlo di ogni retaggio antico e renderlo più permeabile alle influenze moderne. Con la delega della propria sorte, l’uomo della caduta ha ceduto ad altre mani e ad altri luoghi le scelte e le decisioni del proprio futuro: nessun passato lo lega alla Tradizione e nessun futuro lo lega ad un Destino; per lui rimane solo una presentificazione di bisogni indotti e di modalità per gratificarli: la ricerca di un soddisfacimento strenuamente più pressante e sofisticato all’insegna del naturalismo biologico, ancora meno – sempre che ciò sia possibile – dello scontato darwinismo.
    Psiche e Spirito, le due essenze dell’uomo: la prima che abbraccia il sovramateriale, il secondo che anela al trascendente. Cacciati dalla natura dall’umanizzazione del giudeo-cristianesimo, soffocati nell’uomo dalle istanze terrene e meccanicistiche, hanno lasciato alla realtà concreta il nucleo vuoto di quello che è stato il vir delle comunità organiche. Un nucleo vuoto genericamente definibile come homo: homo faber, homo oeconomicus, homo consumans, ecc.; un essere vivente in balia degli eventi e delle circostanze, trascinato dalle pulsioni e dalle necessità spesso inconsce, agito dai desideri e dalle insoddisfazioni.
    Questo è l’uomo globalizzato: servo dell’economia parassitaria, succube del mercato del lavoro, plagiato dalle induzioni pubblicitarie, dominato da necessità incontrollate, prigioniero di volontà estranee, anestetizzato per la genuflessione e addestrato allo sguardo basso. Un uomo che dopo lunghi anni di ammaestramento – del quale, per altro, è stato complice e compiacente – ha rifiutato il platonico signore dentro di sé, per diventare schiavo di altri liberti frustrati.
    Il massimo – sempre che un massimo possa esistere - di questa degenerazione si è manifestato negli ultimi anni e negli ultimi fatti di cronaca. Un inutile vociare, una afinalistica convulsione, una farsesca alzata di tono da parte dei tenutari del potere, una serietà tragicamente ridicola da parte degli intellettuali del sistema: tutti a commentare fatti di cronaca quotidiana e a trovare soluzioni estemporanee in nome, e sotto gli auspici, di quella <<stupidità intelligente>> così definita da Schuon ed efficacemente commentata da Evola.
    Aumento delle morti sul lavoro, espansione del fenomeno detto burn-out, disgregazione della famiglia, crescita delle nascite indesiderate, salita degli aborti clandestini e non, espansione dell’uso di sostanze psicotrope, diffusione del consumo di psicofarmaci, allargamento della patologia psichiatrica, dilatazione del fenomeno suicidario, esplosione dell’aberrazione della pedofilia, emergenza del problema della violenza sessuale e non, e molti altri quadri di deformità sociale, vengono passati al vaglio dei tecnici del sistema.
    Tutto ciò, secondo la stretta logica dell’impostazione psichiatrica e politica nordamericana nell’affrontare il disturbo psichico individuale, non viene compreso e affrontato nei termini simbolici di un significato da decodificare, ma come una disfunzione meccanica da correggere con mezzi e modalità altrettanto meccaniche. Niente di più inutile e penoso nella sua teorizzazione e nella sua pratica.
    Quello che quotidianamente accade altro non è che la manifestazione concreta, visibile, tangibile, di un decadimento complessivo: un uomo-macchina, facente parte di una <<megamacchina>> definita società, non può che comportarsi in maniera meccanicistica. Senza idea di sacralità, senza rispetto di sé, senza un nucleo interiore, senza una dirittura esistenziale, senza un <<al di sopra>> e un <<altrove>>, non può che comportarsi in modo naturale. Per decenni, gli <<stupidi intelligenti>> hanno fatto leva sugli istinti inferiori dell’uomo in nome di una libertà da ogni sovrastruttura tradizionale, incentivando una libertà per soddisfacimenti e tolleranze: il vaso di Pandora è stato scoperchiato! Ciò che è davanti agli occhi di tutti non può essere inteso e concepito come una disfunzione dalla norma declamata, ma è il risultato della norma declamata.
    Il mondialismo nelle sue varie sfaccettature altro non è che il risultato di una indifferenziazione mondiale: è stato creato un uomo nuovo, un essere privo di ogni regola e di ogni controllo che fosse minimamente sovraumano, un individuo aperto ad ogni istinto e ad ogni compulsione. Il male è la stessa condizione degenerata.
    Naturalmente, è impossibile per una macchina, e per una megamacchina di appartenenza, avere coscienza di sé e di ciò che avviene: “Di quale psicologia (...) si può parlare quando non si tratta che di macchine? E’ la meccanica che è necessaria per lo studio delle macchine e non la psicologia. Ecco perché noi cominciamo con la meccanica. Siamo molto lontani dalla psicologia” (Ouspensky).
    Questo si è voluto, questo si è ottenuto. Il sistema e le sue organizzazioni di appartenenza e di supporto (sociologia, magistratura, medicina, psicologia, educazione, ecc.) agiscono in termini meccanici: di fronte ad un guasto è indispensabile una riparazione, senza curarsi delle cause profonde e della prognosi futura. Domina il contingente e con esso l’approccio tecnico ai problemi.
    Del resto l’opinione pubblica, le “ululanti orde della civiltà”(J. Améry), viene assalita dai convulsi forcaioli o psicogiustificazionisti quando si sente urtata nella sua sensibilità da episodi di cronaca nera, da fatti di abiezioni sessuali e non, da fenomeni di abbandono o di maltrattamento, da casi macabri e politicamente scorretti, ma sempre risulta mancante della minima analisi di ciò che viene passata per norma.
    La norma è che il bambino viene, dai primi momenti, delegato ad altri nella cura e nell’educazione; la famiglia è un guscio vuoto contenitore di disagio e fruitore di correttivi consultoriali; la nascita, atto naturale e spontaneo, rientra nelle disposizioni di tempo e di modalità legate a fattori esterni (denaro, lavoro, tempo libero) e quando essa è naturalmente impossibile si affittano gli uteri con improponibili e immondi legami di parentela o scelte di carattere estetico-pratico; la morte, avvenimento ineluttabile ed essenziale della vita, evento di trasformazione con ogni possibile implicazione di carattere etico, religioso, psicologico, affettivo, storico, trascendente, è stata delegata ai tanatocrati, con l’elevata specializzazione di stabilire il momento cruciale in base a parametri tecnico-scientifici e medico legali: solo perché il corpo deve essere rottamato e i suoi componenti immediatamente riutilizzati in altre macchine malfunzionanti; il lavoro, mezzo di sostentamento, è stato reso mistico dall’efficientismo, dalla produttività, dal consumo.
    Questa è la norma globalizzante e da questa norma tutti gli avvenimenti che seguono non possono essere considerati come abominevoli, ma come conseguenza logica e corretta di uno stile di vita e di una visione del mondo che sono spregevoli e indegni.
    L’uomo è diventato quello che un progetto di generale e diffusa degenerazione aveva stabilito che diventasse: un essere de-sacralizzato, de-psichizzato, de-spiritualizzato, un marchingegno vivente che può essere trattato da macchina e che di conseguenza si comporta con il suo prossimo de-sacralizzato, de-psichizzato, de-spiritualizzato come tratta se stesso, come una semplice macchina, come un essere de-forme.
    Da un ordine platonico che si rifà alla cosmogonia iperuranica, eterna, trascendente, immutabile, ad una organizzazione profana, mutevole, mondana: l’uomo un essere malleabile, influenzabile, suggestionabile. Siamo al fondo, forse non ancora visibile, della ulteriore degenerazione della massa, concetto descritto in maniera pregnante da Galimberti: “(...) la sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli (...) Nascono da qui quei processi di deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa tipiche delle società omologate e conformiste”.
    Di fronte a questo spettacolo non resta, almeno per quanto mi riguarda e per quanto è riferito alla mia attività, che affrontare in termini molto pragmatici i problemi individuali e collettivi che quotidianamente si presentano nella istituzione in cui opero, fermo restando il criterio evoliano di agire all’interno dello modernità cercando di mantenersi il più saldamente possibile – fosse solo per testimonianza – nei canoni e negli indirizzi prescritti dalla Tradizione.

    L’Autore, Adriano Segatori, svolge la professione di psichiatra. Ha pubblicato per Le Edizioni di Ar: 'La comunità vivente. Organismo comunitario e organizzazione sociale'.
    Ha scritto diversi articoli sul problema del controllo sociale, dell’abuso farmacologico, della liberalizzazione della droga come volontà di sedazione da parte del Sistema; ha pubblicato, insieme ad altri due colleghi, Marco Bertali e Fabrizio Bertini, Il Manifesto di Psiche. Per una psichiatria ed una società senza psicofarmaci e, da solo, Il suicidio. Eventi e comportamenti entrambi per “Sensibili alle foglie”.



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    Alberto Lembo, Mondialismo e resitenza etnica, presentazione di Carlo Taormina, Edizioni di Ar.
    Libri come questo di Alberto Lembo contengono, da quella prospettiva chiaramente antimodernista che è la prospettiva etnica, il tentativo di rappresentare forme politiche che non si possono certo collocare tra le figure dell'ordinario, labile paesaggio politico odierno, perché ne rimangono per loro essenza estranee. La loro estraneità essenziale significa che quelle forme sono indipendenti da queste figure che si rivelano invasive e petulanti, ma rimangono in realtà sterili e improduttive. Da qui l'Autore delinea senza incertezze l'antitesi fondamentale: da una parte il mondialismo, le oligarchie dell'alta finanza internazionale che, mediante la riduzione del mondo a mercato totale, mirano al controllo totalitario del “villaggio globale” attraverso un governo unico planetario; dall'altra l'etnicità, la tradizione etnica, le forze della natura e della storia dei popoli, che intendono custodire e sviluppare le identità, le particolarità, le libertà dei loro organismi. Ossia: da una parte il compimento del processo di alienazione e dissoluzione —la morte della comunità etnica—; dall'altra il compimento di reintegrazione e di riconnessione —la vita della comunità etnica.
    I due tipi dell'homo ideologicus e dell'homo ethnicus — considerati, per semplicità espositiva, allo stato ‘puro’—debbono ritenersi incarnazione di questa antitesi. Il primo —scrive Lembo— permeato di “mediazione, derivazione, soggettività, individualità, apertura (quindi inclusione di ciò che è eterogeneo), perfezionamento, integrazione”; il secondo —che non rinnega la propria forma razziale e la cultura dei padri— animato da “immediatezza, originarietà, oggettività, tipicità, conclusione (quindi esclusione di ciò che è eterogeneo), compiutezza, integrità”. L'homo ethnicus riassume il mondo stabile e disteso dell'essere; l'homo ideologicus quello del divenire, della febbre e del dubbio —in altri termini, quest'ultimo si manifesta nelle sembianze progressiste e nell'ideologia dello sviluppo razionale ed emancipativo della “Storia”.
    Lembo denuncia con chiarezza l'impiego, da parte del mondialismo, dell'arma dell'immigrazione, ossia di una sorta di deportazione di schiavi, complici spesso inconsapevoli e vittime di un fatto disgregativo della nostra e della loro identità: la cosiddetta “società” multirazziale (o, forzatamente, unirazziale?). E prefigura “un universo in cui, protetti da eserciti privati, i megaricchi —il denaro come valore assoluto, equivalente astratto di qualsiasi concreta valenza etnica...— condurranno l'esistenza in clausure lussuose, circondate da bidonville sterminate in cui individui senza razza, senza religione, senza famiglia, senza lavoro, si riveleranno troppo ottusi e troppo incapaci per sapersi ribellare”.
    Lo spostamento di enormi masse umane, la destituzione della distanza e la rimozione del ‘distante’ dalle loro funzioni, la conseguente contrazione del mondo sono fattori di quella ‘messa in forma’ del mercato unico globale, in cui non esistono più nature e culture di uomini bianchi, neri, gialli, rossi ma solo mode di consumo e consumatori. Ed è in questa prospettiva — afferma l'Autore— che va considerata, in una strategia di resistenza opposta da tutte le comunità etniche, la necessità di omogenee forme territoriali, di spazi etnici sicuri e capaci di difendersi dalla aggregazione nello spazio mondiale.
    “In questo ‘tempo della decisione’ —conclude Lembo— occorre ascoltare il proprio dèmone etnico e ‘decidersi a decidere’: tra le libertà etniche delle diverse comunità e i ‘diritti umani’degli individui, tra la terra delle tribù e l'asfalto della citta mondiale”.
    Il volume, arricchito da numerosi disegni e piantine di carattere documentale (insediamenti etnici, lingue e dialetti, migrazioni storiche ecc.), comprende una pregevole presentazione introduttiva del prof. Carlo Taormina: una lettura, la sua, ‘illuministicamente’ostile alle tesi esposte da Lembo, ma attenta a fissarne con precisione semantica i lineamenti essenziali. (In 'Margini' n. 31)

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    Giovanni Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione, Edizioni di Ar.
    Elogio delle differenze è un autentico manifesto del differenzialismo o –comunque la si voglia chiamare- dell’unica concezione metapolitica radicalmente alternativa nei confronti della globalizzazione. I (dis)valori della modernità occidentale, i suoi presupposti ideologici e giuridici, la sua prepotenza assimilatrice sono analizzati e presentati in relazione alla effettive e concrete risposte che una comunità organica tradizionale -o quanto ne rimane- deve dare in termini di difesa della propria (e altrui) identità. Damiano osserva giustamente che la modernità “si fonda su un cumulo di macerie”, perché non può sopportare la compresenza di differenze che prescindano da mode di massa, da aspettative effimere e da diktàt livellatori. Con le buone o con le cattive -con la “persuasione” sottile e il consumismo o con le operazioni di “polizia internazionale”- la tendenza è quella di eliminare ogni radicamento, ogni specificità culturale, religiosa ed etnica, presentata come espressione fastidiosa di intolleranza ed egoismo. Il differenzialismo riconosce, di contro, l’esistenza di forme oggettive -etnie, religioni, tradizioni- nelle quali il singolo si situa secondo modalità e gradazioni, nonché attitudini, diverse. La relazione fra tali forme si instaura non secondo un principio di superiorità/inferiorità dell’una rispetto all’altra, e nemmeno di eguaglianza, ma viene scandita dalla diversità (non – equivalenza) di ogni forma, dalla loro capacità di connettersi e di separarsi a seconda della situazione.
    Sono, invece, i processi di assimilazione e di integrazione –ideologicamente determinati- a colpire mortalmente tali diversità, secondo una logica giacobina di falsa tolleranza. (A. Braccio, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Gli Scritti politici di Oswald Spengler





    Giovanni Damiano, In "Margini" n. 15

    Gli Scritti politici di Oswald Spengler, apparsi nel 1933, raccolgono una serie di testi già precedentemente pubblicati (nel 1919 ´Prussianesimo e socialismo', nel 1924 ´La rigenerazione del Reich', ´I doveri politici della gioventù tedesca', ´Forme della politica mondiale') in cui si riassumono le analisi dedicate dall'autore alla crisi della Germania weimariana e alla situazione internazionale. In quest'opera si fa, così, pressante il richiamo dell'attualità politico-concreta e l'urgenza costruttiva di affrontare da un lato gli irrisolti problemi dell'economia e dall'altro di delineare una sorta di "via regia" della politica imperniata sull'ethos prussiano e sulla capacità decisionale dell'uomo di governo. Sono questi i poli intorno cui si condensa l'analisi spengleriana attraverso il tentativo di armonizzare concetti ed esperienze a prima vista irriducibilmente confliggenti: socialismo e prussianesimo, spirito di servizio e libertà decisionale, capitalismo e dominio politico sull'economia.

    Nella ´Rigenerazione del Reich' Spengler sottopone a critica demolitrice il parlamentarismo di Weimar, dominato dai partiti visti come i veri artefici della dissoluzione dell'unità statuale, in ciò vicino alle analisi che, nello stesso torno di tempo, andava sviluppando anche Schmitt (ad esempio nel ´Custode della costituzione' Schmitt si sofferma sul "potere indiretto" esercitato dai partiti e sui guasti del pluralismo che tende a dar vita a un sistema "poliarchico" la cui ovvia conseguenza non puù che essere la frantumazione della coesione unitaria dello Stato). Per Spengler il parlamento è ridotto ad essere il luogo della decisione eternamente differita e del libero gioco degli interessi particolari dei partiti costitutivamente portati, quindi, a sacrificare l'interesse generale dello Stato (è significativo sottolineare la lontananza di queste posizioni dalle tesi coeve di Kelsen, tutte centrate sull'essenzialità del parlamento e dei partiti per una corretta procedura democratica). Si spiega, allora, perchè Spengler chiede ´uno straordinario rafforzamento del potere del governo con l'attribuzione di un'ampia responsabilità legislativa ed esecutiva', riducendo così il parlamento alle funzioni meramente consultive e di periodico controllo dell'operato governativo, e la necessità di formare un ceto dirigenziale improntato al pi severo spirito di servizio prussiano e, insieme, capace ´di rapide decisioni personali e intelligenza nel cogliere le situazioni'. In tal modo, facendo perno sulla ´libertà del volere' che porta l'uomo germanico a sottomettersi liberamente al dovere ´svolgendo con disinteresse e impersonalità il suo servizio', è anche possibile conciliare prussianesimo e socialismo, attraverso la sostituzione dell'"Io" con il "Noi" in modo da dar vita a un ´sentire comune del quale ognuno è pervaso in tutto il suo essere. Qui ognuno non sta per sé, ma tutti per tutti, con quella interiore libertà, in un senso grandioso del termine, quello cioé di libertas oboedientiae, libertà nell'ubbidienza, che ha sempre distinto i migliori esemplari allevati dalla stirpe prussiana'. L'autentica comunità, l'"Io nazionale" per dirla con Costamagna, si costruisce proprio a partire dal rispetto e dalla valorizzazione piena dell'individuo nella sua singolarità. E' questa la strada attraverso cui è possibile innalzare l'individuale al sovra-individuale e cioè giungere al socialismo prussiano come sintesi appunto dell'indipendenza personale e della comunità sovra-personale intesa quest'ultima come destino comune e nesso solidaristico intercorrente tra coloro che la "abitano". Per cui lo stesso lavoro ´non è una merce bensì un dovere di fronte alla comunitઠe la proprietà´non è bottino privato' ma ´affidamento da parte della comunità', è un ´bene dato in custodia della cui amministrazione il proprietario risponde di fronte allo Stato'. Lo Stato quindi non solo come forma politica che la comunità si è data ma anche come principio d'autorità che pervade e piega ai sui scopi la vita economica di cui non a caso viene proposta la ´statalizzazione integrale'. In questa visione però Spengler privilegia solo le attività economiche produttive, ossia quelle in grado di fornire beni utili destinati alla comunità, di contro al capitalismo finanziario e speculativo che non solo depaupera lo Stato, asservito com'è a interessi strettamente privatistici, ma ancor pi, data la sua internazionalizzazione, è potente strumento di sradicamento dell'ethos specificatamente tedesco. Per cui se è vero che ´ l'esistenza degli Stati ha un aspetto economico' è fuor di dubbio che ´l'aspetto politico resta sempre determinante' e che l'economia non è altro che uno dei mezzi atti a favorire la potenza dello Stato.

    E' quindi lo Stato, e i politici chiamati a guidarlo (dove echeggia, weberianamente, il concetto di "Beruf " ossia di vocazione), il vero leit- motiv dell'opera spengleriana, al di là perfino di un socialismo biologisticamente inteso (non a caso Spengler polemizzerà duramente con il riduzionismo biologistico-razziale proprio del nazionalsocialismo). Lo Stato e non il "volk "è l'elemento decisivo della politica in quanto solo nello Stato la comunità trova una sua forma, intendendo ovviamente lo Stato come principio metagiuridico e non certo equiparandolo, alla Kelsen, con lo stesso ordinamento giuridico. Questa preminenza della statualità avvicina Spengler alle posizioni sostenute e sviluppate nello stesso periodo da Schmitt in Germania e da Costamagna in Italia. Costamagna, altro "difensore" dello Stato, riteneva necessario riporlo al centro del politico al di là delle dissoluzioni liberal-partitiche e marxiste e fondare così una nuova "dottrina dello Stato". Contro le astrazioni tipiche del liberalismo individualistico, del normativismo (il bersaglio polemico è ovviamente Kelsen), del marxismo, lo Stato riacquista ´l'ambito concreto, quale è quello appunto determinato dalla singola comunità nazionale' chiamata infatti a realizzarsi proprio nello Stato; vi è qui una ripresa, in generale, di tutta la polemica contro l'ideale astratto-universalistico: ritornano le parole heideggeriane sull'"essere assieme storico" che, lungi dal rimandare ad un significato universalistico, rinviano ad una comunità determinata e intrascendibile, con la sua storicità particolare e quindi con la sua peculiare tradizione destinate ad incarnarsi nella specifica forma statuale che si sono date.

    Di poi emerge in Spengler il risalto dato all'uomo di governo come colui che è il pi lontano da ogni romanticismo politico (di nuovo forte è l'affinità con Schmitt), completamente asservito, com'è, alla durezza della potenza e al dominio delle passioni, "feroce" apologeta del "tempo debito".

    In definitiva , questa sommaria e certo insufficiente presentazione degli ´Scritti politici' ci restituisce l'immagine di uno Spengler più legato ai circoli della rivoluzione conservatrice che non affascinato dal movimento hitleriano, più arroccato su posizioni reazionario-aristocratiche che non aperto alla "nazionalizzazione delle masse"; anche se emerge, credo con forza, la ricerca di una "terza via" tra comunismo e capitalismo e tra comunismo e regime liberal-democratico, ricerca che ha connotato buona parte delle esperienze politiche della prima metà del Novecento.


    L'Autore di questo scritto, Giovanni Damiano, ha pubblicato per le Edizioni di Ar le seguenti opere:

    - La filosofia della libertà in Julius Evola;
    - Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione.

    Ha curato inoltre la nuova edizione di "Imperialismo pagano", di Julius Evola e la postafazione al libro di P. Di Vona "Metafisica e politica in Julius Evola" (i due libri sono pubblicati dalle Edizioni di Ar).


    Gli Scritti politici di Oswal d Spengler sono stati pubblicati in Italia, dalle Edizioni di Ar, con il seguente ordine:

    O. Spengler, La rigenerazione del Reich, 1992
    (contiene: La rigenerazione del Reich e I doveri politici della giovent tedesca ).
    O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, 1994
    O. Spengler, Forme della politica mondiale, 1994.
    O. Spengler, Anni della decisione, 1994.
    O. Spengler, Per un soldato, 1995
    O. Spengler, Albori della storia mondiale, volume I, 1996
    O. Spengler, Albori della storia mondiale, volume II, 1999
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 

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