Questo riportato quì sotto è uno dei migliori resoconti sullo stato delle indagini - a trent'anni di distanza! - sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia attualmente disponibili in Rete.
Una lettura che, fatto il parallello con i nostri nomi e visti anche i nomi di certuni "protagonisti", non trovo altenative al definire INQUIETANTE.







Una memoria corta trent’anni
di "batman"

Piazza della Loggia, una storia che ogni anno esce da un cassetto, un po’ come quando si fa il cambio di stagione, portando con se un aroma come di naftalina che disturba l’olfatto, come un vecchio maglione, da secoli nell’armadio, che per motivi incomprensibili non si riesce a buttare anche se è infeltrito, orrendo o semplicemente fuori moda. Oggi è un buon giorno per riprovare a raccontarla.




28 Maggio 1974

Potrebbe cominciare con “era un bel mattino di maggio di trent’anni fa…”, ma non lo è: piove, fa freddo e la gente si accalca ancora di più per scaldarsi.

Intorno, anche in quell’uggiosa giornata di primavera, la piazza è bella: ad ovest, di fronte alla folla, si trova il palazzo del municipio costruito mentre Colombo raggiungeva l’America, alle spalle si trovano i portici con la torre dell’orologio e le sue statue di bronzo che da secoli non battono più la campana, sul lato meridionale si affacciano palazzi in stile veneziano sulle cui pareti sono murate antiche lapidi.

Piace pensare che i presenti contemplino anche questo insieme, ma l’attenzione è rivolta piuttosto verso il centro della piazza dove qualcuno, parlando dal palco, dà voce alla rabbia di quanti hanno assistito impotenti ad un’impressionante escalation di attentati dinamitardi contro sedi di partito, sindacati, supermercati e culminata - solo pochi giorni prima – con la grottesca morte di uno dei responsabili.

Si chiamava Silvio Ferrari, diciotto anni e una passione - si dice - per il lancio di bottiglie incendiarie sui cortei di operai. Probabilmente quel giorno le sospensioni della sua Vespa avevano reagito male ad una buca, peggio, molto peggio, l’aveva presa l’esplosivo che portava con se.

E’ già un anno difficile questo: il referendum sul divorzio, le polemiche sulla nazionale che andrà ai mondiali, il sequestro Sossi, qualche tentativo di colpo di Stato e poi c’è questa città di provincia, apparentemente lontana dai grandi eventi, che da qualche tempo respira un’atmosfera strana e tesa.

La gente si è radunata per ascoltare, per protestare o è solo di passaggio, ma piove e molti cercano riparo sotto i portici dove altrimenti ci sarebbe un cordone di carabinieri.

“Che ore sono?” - chiede qualcuno - ”le dieci e …”.

Chissà che odore lascia il tritolo, io non l’ho sentito, abitavo a qualche centinaio di metri e poi non avrei potuto ricordarlo perché all’epoca avevo solo quattro anni, ma neppure il magistrato che poche ore dopo arriva sul luogo dell’esplosione lo può sentire perché il vicequestore - sgombrati otto cadaveri straziati e un centinaio di feriti - ha appena chiamato i pompieri e fatto ripulire la piazza con le autopompe. Non sarà più ritrovata l’arma del delitto, come nei migliori gialli.



Quattro sentenze e un funerale

La circostanza all’inizio non sembra essere così rilevante giacché l’ufficiale dei carabinieri preposto alle indagini - il capitano Francesco Delfino – ha già imboccato un’unica e precisa direzione che porta ad un eccentrico balordo locale - Ermanno Buzzi - e all’eterogeneo ambiente neofascista a cui appartiene che comprende piccoli delinquenti e rampolli di buona famiglia.

Buzzi non è noto come un tortuoso stratega o una raffinata mente politica, bensì come pregiudicato per reati comuni, mitomane, persino informatore dell’Arma.

Nel suo entourage - oltre al defunto Silvio Ferrari - spiccano in particolare i nomi di due personaggi di varia umanità: Ugo Bonati – nessun lavoro e qualche precedente per furto- che si rende prontamente disponibile come testimone dell’accusa (per poi - finito anch’egli accusato - scomparire di scena) e Angelo Papa, un diciottenne disadattato che fino a quattordici anni frequentava ancora la quinta elementare (non è una battuta).

Quest’ultimo dopo dieci minuti di interrogatorio di Delfino, confessa - salvo in seguito ritrattare - di essere stato lui a piazzare la bomba nel cestino dei rifiuti.

Insistendo un po’ forse avrebbe confessato anche di aver sparato a Kennedy (questa invece è una battuta).

Nel ricostruire questi fatti qualcuno scriveva pochi anni fa ad un giornale: “la prima scellerata istruttoria fu depistata dalle dichiarazioni di Ugo Bonati che, pur essendo reo confesso, era stato manipolato dall’allora capitano Delfino […] alla fine venne però perseguito come autore […] ma il Bonati divenne latitante dopo avere ricevuto in un campo di aviazione del meridione, da un distinto signore venuto da Milano, un milione di lire e forse anche documenti falsi di identificazione. E scomparve definitivamente.”

La persona che scrive è un giudice - Giovanni Arcai - il cui figlio figura inizialmente tra gli indagati e che nel 1974 sta da qualche tempo conducendo indagini sul Mar (Movimento azione rivoluzionaria) di Carlo Fumagalli, gruppo della destra eversiva con cui alcuni accusati avevano stretto rapporti: la situazione venutasi a creare fa sì che il magistrato sia trasferito per incompatibilità ambientale, evento che contribuirà a pregiudicare anche l’inchiesta da lui condotta.

La domanda - una delle troppe - che allora ed in seguito tanti si posero è perché lo stesso Delfino, che aveva prima condotto un’operazione (denominata - con discutibile fantasia - “stella del Mar”) culminata con numerosi arresti verso appartenenti all’organizzazione, avesse poi focalizzato le indagini sull’attentato esclusivamente su dei balordi locali omettendo di approfondire i collegamenti di questi non solo con i Mar, ma anche con esponenti del disciolto Ordine Nuovo, in particolare con il gruppo “La Fenice” di Milano.

Dopo cinque anni - nel 1979 - in Corte di Assise si arriva alla prima sentenza: dei sedici rinviati a giudizio per il reato di strage, vengono condannati all’ergastolo Buzzi e Papa, scagionati tutti gli altri.

Nel 1982- anno che tutti ricordano perché vinciamo finalmente un mondiale - in appello vengono assolti con formula dubitativa anche gli unici due condannati: peccato per Buzzi che non ne possa gioire perché, alla vigilia dell’inizio del dibattimento, viene trasferito nel carcere di Novara dove, sul giornale stampato dai detenuti neofascisti (direttore Sergio Latini), nella rubrica “Ecrasez l’infame” si legge la sua condanna a morte per essere stato informatore dei carabinieri. Passeggiando nel cortile del carcere viene macabramente assassinato dai terroristi neri Concutelli e Tuti: prima lo strangolano, poi - in sfregio - gli schiacciano gli occhi.

Nella sentenza Buzzi verrà definito “un cadavere da assolvere”.

Tirando le somme, di otto anni di indagini e processi (sorvolando - per brevità - sugli ulteriori gradi di giudizio) ci rimane un morto in più, un altro capo di imputazione per omicidio e nessun colpevole. La palla rotola mestamente al centro.



Insorgenze argentine

Si riparte da un nuovo filone d’inchiesta (poi diviso in due istruttorie): la testimonianza di un pentito - raccolta dai magistrati di Firenze che stanno indagando sugli attentati ferroviari avvenuti in Toscana negli stessi anni - indica nuovamente che la strage possa essere avvenuta sotto la supervisione operativa degli ordinovisti milanesi del gruppo “La Fenice” ed in particolare di Cesare Ferri, che già nel corso del primo procedimento era stato indicato da diversi testimoni come presente sul posto nei giorni immediatamente precedenti l’attentato.

La persona informata di questi fatti dall’ex compagno di carcere - ora defunto - Ermanno Buzzi, è Gianni Guido, evaso dal penitenziario di San Gimignano, ma detenuto a Buenos Aires per possesso di passaporto falso.

Quando il giudice istruttore Gianpaolo Zorzi predispone la trasferta oltreoceano per incontrarlo ed ottenerne l’estradizione, avviene un fatto singolare: gli inquirenti argentini vengono informati dall’ambasciata italiana che i magistrati hanno chiesto un rinvio dell’udienza di cui avevano già fissato la data e accettano in buona fede - come si dimostrò poi - di spostare l’interrogatorio il mese successivo.

Si può ben immaginare l’assoluto sconcerto dei magistrati bresciani nello scoprire - alla vigilia di questo incontro - non solo di non essere mai stati informati dall’ambasciata di quella prima udienza per la quale avrebbero – qui il condizionale è d’obbligo - chiesto il rinvio, ma anche che in quel lasso di tempo Gianni Guido è evaso: con il trucco della procurata infermità viene fatto fuggire dall’ospedale del carcere. Anche di lui non si saprà più nulla.

Scriverà il giudice istruttore a proposito dell’episodio: “nel meccanismo si iscrive qualcosa di fortemente "anomalo": un qualcosa che fa letteralmente venire i brividi (soprattutto di rabbia) in quanto si propone quale riprova (se mai ve ne fosse bisogno) dell'esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”.

La sentenza di primo grado del 1987 - relativa alla prima delle due istruttorie - e il successivo grado di giudizio, porteranno all’assoluzione per insufficienza di prove dei principali imputati (Ferri, Stepanoff, Latini): è il capolinea di una lunga vicenda di testimonianze svanite o ritrattate, reticenze, alibi costruiti e depistaggi, con l’ulteriore sberleffo per i giudici di un rimborso di cento milioni chiesto ed ottenuto da Ferri per ingiusta detenzione.

Analoga sorte avrà l’altra istruttoria, riguardante coimputati secondari e terminata nel 1993 , della quale però ci rimane la sentenza del giudice Zorzi che - nel dispositivo - fa per la prima volta intendere in modo inequivocabile come - man mano si sono cercati elementi di prova sugli esecutori del delitto - sia apparso sempre più chiaro un disegno finalizzato ad inquinare il procedimento con ogni mezzo.

Quello che prima era solo un mormorio è diventato una voce che sempre più apertamente parla di ”Strage di Stato”, un termine tanto ad effetto quanto forse impreciso nel descrivere quello che è sembrato piuttosto come un sistematico tentativo di nascondere rapporti fra esponenti del terrorismo di matrice neofascista ed apparati deviati dello Stato.



A cena è gradito il nero

Sono molti - oltre al citato episodio in Argentina – gli elementi che alimentano il sospetto di manovre di depistaggio, manifestatesi in alcuni casi anche con vistose omissioni: nella sentenza si parla anche della scoperta di un appunto recuperato dagli archivi del Sid che raccoglie la testimonianza di un informatore ben inserito nei gruppi di estrema destra (la fonte “tritone”, al secolo Maurizio Tramonte) e descrive una riunione avvenuta pochi giorni prima della strage in casa di Gastone Romani (all’epoca deputato Msi), in cui l’ospite d’onore è l’esponente più importante di Ordine Nuovo nel Triveneto, il dottor Carlo Maria Maggi.

Immaginiamo la situazione come se si trattasse di una cena fra amici: siamo all’antipasto e l’anfitrione comincia a parlare ai camerati dell’ingiusto scioglimento imposto dal ministro Taviani all’organizzazione per l’accusa di ricostruzione del partito fascista, i convenuti bevono un sorso di Valpolicella per sopire il ricordo, ma - assieme al passato di verdure - ricevono la buona novella che il movimento si è ricostituito sotto un’altra sigla dal nome fortemente evocativo: “Ordine nero” (un brindisi).

Quando arriva il baccalà vengono informati che l’organizzazione potrà contare su molti ex militanti di Ordine Nuovo e su appoggi politici fra cui quello dello stesso Romani e del fondatore del disciolto movimento, Pino Rauti (un’ovazione).

Il meglio arriva però fra la bignolata e il caffè quando ai presenti - ormai piacevolmente inebriati - viene spiegata la doppia natura dell’organizzazione: da una parte clandestina - che deve operare nel campo dell’eversione violenta contro obiettivi scelti di volta in volta - e dall’altra palese, avente il compito di sfruttare politicamente le ripercussioni degli attentati operati dal gruppo clandestino allo scopo di aprire un conflitto risolvibile solo con lo scontro armato (un ammazzacaffè).

Un mese e qualche digestivo dopo il nostro oratore avrebbe così commentato quanto poi avvenuto: ”quell’attentato non deve rimanere un fatto isolato perché il sistema va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi”. Due mesi dopo ci sarà anche la strage dell’Italicus .

L’appunto risale al luglio 1974 e in vent’anni non era mai stato trasmesso alla magistratura dai servizi segreti.



Ultimo capitolo?

Facciamo un salto in avanti e torniamo al 1993, quando – chiuso un capitolo giudiziario – si apre un’ultima istruttoria oggi prossima alla conclusione: diversi stralci della precedente inchiesta vengono rinviati alla Procura collegandosi a notizie relative ad altre stragi di quel periodo ed in particolare alle indagini - e conseguenti condanne in primo grado - relative all’attentato di Piazza Fontana.

Il convergere delle testimonianze di Carlo Digilio (armiere di Ordine Nuovo ed ex referente della Cia) e Martino Siciliano (esponente di vertice di ON), sembra saldare numerosi tasselli riguardanti gli ideatori della strage, gli esecutori e i possibili responsabili dei ripetuti depistaggi.

Insieme al già citato Carlo Maria Maggi (condannato in primo grado all’ergastolo per le bombe di Milano e di recente prosciolto in appello) e ad altri personaggi indagati per favoreggiamento come Pino Rauti, Maurizio Tramonte e l’ex generale Francesco Delfino (la cui folgorante carriera è nel frattempo già stata spazzata via dalla vicenda Soffiantini), compare insistentemente - come colui che avrebbe materialmente fornito l’esplosivo - il nome di Delfo Zorzi.

L’uomo, gia salito agli onori della cronaca nell’inchiesta milanese per la quale ha già ricevuto una condanna all’ergastolo poi cassata, pochi mesi fa, per insufficienza di prove, è da anni divenuto un rispettabile cittadino e uomo d’affari giapponese di nome Hagen Roi (singolare – per gli amanti delle curiosità - l’omofonia con il tedesco hakenkreuz, croce uncinata).

Nonostante dieci anni di sforzi da parte di due procure per consegnarlo alla giustizia, si è giunti ad una situazione abbastanza paradossale: da una parte un governo che dovrebbe adoperarsi per ottenere una difficile estradizione (tra Italia e Giappone non esistono trattati in tal senso) e dall’altra l’avvocato difensore di Delfo Zorzi - Gaetano Pecorella - che non solo è presidente della Commissione giustizia della Camera (nonché legale di fiducia dello stesso Capo del Governo), ma è anche colui che viene ora inquisito per aver versato ingenti somme di denaro sui conti del pentito Martino Siciliano per ritrattare tutte le accuse verso il suo assistito e fuggire all’estero.



L’ignoto noto servizio

Ancora una volta, anche a distanza di anni, il caso giudiziario segue in parallelo la strada dello scontro politico e ad avvelenare ulteriormente il clima fra potere politico e magistratura, nel corso dell’ultima istruttoria emerge fra il materiale dell’archivio affari riservati del Viminale un documento di cui ancora non si conosce l’intero contenuto né l’esatto grado di attendibilità, ma che risulterebbe descrivere l’attività di una struttura clandestina e contigua ai servizi segreti, attivamente presente dal dopoguerra fino ai primi anni ’90 e chiamata con il nome in codice di Noto Servizio

Nei relativi atti - trasmessi alla fine del 2000 dalla Procura di Brescia alla Commissione Stragi e ancora secretati

- si parla esplicitamente di un “Sid parallelo” composto per lo più da imprenditori, da industriali, da ex ufficiali fascisti e repubblichini, persino da religiosi (tra cui Padre Zucca, famoso per aver trafugato la salma di Benito Mussolini) con notevoli disponibilità di denaro e con compiti che contemplavano svariate attività clandestine quali il predisporre piani per uccidere uomini politici od organizzare rapimenti, ma più in generale finalizzate ad impedire con qualunque mezzo un’eventuale vittoria comunista in Italia. Per i loro appoggi avrebbero contato su appartenenti ai carabinieri o al Sid, su referenti politici, su mafiosi come Luciano Liggio e si parla di numerosi collegamenti e coperture verso personaggi coinvolti a vario titolo in tutti gli eventi funesti che hanno percorso gli anni settanta, dalle stragi fino al caso Moro.

Difficile oggi dare una valutazione di questo materiale: per qualcuno - come il Senatore Cossiga - si tratterebbe del solito "feulleiton rosso", per altri invece l’esistenza di una simile struttura non solo appare possibile, ma presenta inquietanti analogie con altri casi e fa pensare - senza un grande sforzo di fantasia - ad un’altra organizzazione segreta e irregolare già nota come Gladio.

Da citare al riguardo l’inizio dell’articolo di Giovanni Maria Bellu che su Repubblica ne diede per la prima volta notizia: ”Nel 1990 Andreotti svelò l'esistenza della rete Gladio per "gettare in qualche modo un osso all'opinione pubblica". Osso che serviva a "coprire qualcosa di più segreto, di più occulto e probabilmente anche di più antico". Sono passate tre settimane da questa dichiarazione di Giovanni Pellegrino, senatore ds e presidente della commissione Stragi.

Tre settimane di silenzio: nessuna reazione da parte di Andreotti, nessun commento né dalla maggioranza, né dall'opposizione. Repubblica è ora in grado di rivelare a cosa si riferiva Pellegrino in quelle poche righe: allo sviluppo, effettivamente clamoroso, dell'unica inchiesta giudiziaria ancora aperta sulla "strategia della tensione", quella sulla strage avvenuta il 31 maggio (vabbè, era il 28.Ndb) del 1974 a Brescia”

Di questa storia - attorno alla quale ora è calato il silenzio - ne sapremo certo di più quando si arriverà – fra breve - al prossimo processo e, forse, rimarrà anch’essa solo una fra le tante possibili chiavi di lettura per capire, una volta individuati mandanti ed esecutori della strage, anche il perché questi avrebbero potuto godere di protezioni e impunità.

Una delle poche certezze ormai acquisite rimane invece quella di aver finora assistito ad una partita platealmente truccata per impedire la ricerca della verità e anche adesso - pur in un generale disinteresse che coinvolge ormai anche gli organi d’informazione - questa verità fa ancora paura.

Come spiegare altrimenti il dover oggi assistere (a destra come a sinistra) ad un fenomeno di sconcertante pragmatismo da parte di chi vede in una ricostruzione storica condivisa la condizione sufficiente perché vi sia anche giustizia: una sorta di perverso scambio alla pari fra verità e impunità per quella che è stata definita - per la peculiarità del contesto - come la strage dal più alto tasso di politicizzazione nella storia della Repubblica.
Complimenti davvero.



L’anniversario: per molti, ma non per tutti

Oggi, 28 maggio 2004, ossia trent’anni-otto morti-otto processi-nessun colpevole dopo, in quella piazza, crocevia della nostra storia, poche cose sono cambiate.

Dopo un lungo restauro l’orologio cinquecentesco ha ripreso a funzionare e le due statue, con grande fastidio dei residenti, hanno ricominciato a battere sonoramente la campana, ma quando si scorre lo sguardo più in basso si può notare anche una sorta di discromia: in una piazza fatta con le lapidi, una lapide più scura e più brutta delle altre vi appare come una nota stonata. Guardatela se volete, o provate soltanto ad immaginarla, non solo perché commemora nomi di sconosciuti, martiri involontari per aver manifestato un sacrosanto impegno politico e civile nel posto e nel momento sbagliati, ma soprattutto perché è stata, e forse resterà per sempre, il solo tributo che un Paese ha saputo offrire per riparare all’oltraggio delle sue stesse menzogne e all’offesa di una memoria troppo corta.