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  1. #11
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    veda post sull'altro 3d "irakeno"

  2. #12
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    da www.gazzettino.it

    " Venerdì, 24 Settembre 2004





    Allawi: «Grazie America, l'Iraq vota a gennaio»
    Gli Usa: «Più truppe per garantire la sicurezza elettorale». Il premier iracheno: «No, servono più soldati nostri addestrati»

    Washington
    NOSTRO SERVIZIO

    Il presidente americano George W. Bush e il premier iracheno ad interim Iyad Allawi, in una conferenza stampa congiunta nel giardino della Casa Bianca, hanno ribadito che l'Iraq è il «fronte centrale» nella lotta al terrorismo e che una sconfitta qui avrebbe ripercussioni terribili per il resto del mondo. «Se smettessimo di combattere i terroristi in Iraq, questa gente sarebbe libera di progettare e portare a termine attacchi altrove, in America e in altre nazioni libere», ha ammonito Bush.Il presidente americano ha sottolineato che «la violenza potrebbe aumentare in Iraq con l'avvicinarsi delle elezioni del gennaio prossimo: i terroristi sanno che l'evoluzione della democrazia in Iraq ha raggiunto un momento decisivo».Allawi, che in mattinata aveva ricevuto il raro onore di un discorso al Congresso a camere congiunte, ha sottolineato che, «nonostante i dubbi espressi da qualcuno», le elezioni si terranno «puntualmente in gennaio in Iraq, perché questa è la volontà degli iracheni». Il premier ha accusato i media di concentrarsi sulle notizie negative dall'Iraq, sui limitati focolai di violenza. «Quindici dei diciotto distretti elettorali sono pronti fin da domani a tenere le elezioni», ha affermato.In mattinata il generale americano John Abizaid, responsabile delle forze Usa nella regione, aveva dichiarato che «occorrono più truppe di quelle attualmente disponibili» per garantire la sicurezza elettorale in Iraq. Allawi ha sfruttato l'occasione della conferenza stampa alla Casa Bianca, dopo il suo colloquio con Bush, per ribadire invece che «non servono più truppe americane in Iraq, ma piuttosto più truppe irachene addestrate».La divergenza, subito messa in evidenza dai giornalisti nelle domande della conferenza stampa, ha messo leggermente in difficoltà Bush: «Il generale Abizaid era qui questa mattina e non mi ha menzionato questa cosa. Se dovesse farlo, lo ascolterei. Quando i nostri comandanti militari hanno bisogno di qualcosa per il successo della missione sono accontentati».Il presidente americano ha illustrato il suo "piano in cinque punti" per ristabilire la democrazia e la sicurezza in Iraq.«Il primo passo è stato il trasferimento di poteri del 28 giugno scorso; il secondo è l'aiuto al nuovo governo ad addestrare le sue truppe; il terzo è il sostegno a migliorare le infrastrutture del paese; il quarto è l'ampliamento dell' aiuto internazionale; il quinto e più importante è l'aiuto per tenere elezioni nazionali libere entro il gennaio prossimo» ha detto Bush.In precedenza Allawi, nel suo discorso al Congresso, aveva sottolineato che «la stragrande maggioranza degli iracheni è grata per ciò che avete fatto per noi. Sono venuto a ringraziarvi e a promettervi che i vostri sacrifici non sono stati vani».Il premier, tra grandi applausi del Congresso (presieduto per l'occasione dal vicepresidente americano Dick Cheney), aveva affermato che «l'Iraq, l'America e il mondo sono diventati un posto migliore senza Saddam Hussein al potere. La vostra decisione di intervenire in Iraq non è stata facile da prendere, ma è stata la decisione giusta».

    Cristiano Del Riccio
    "


    Saluti liberali

  3. #13
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    Sì, soprattutto è appoggiato da TUTTI i partiti politici organizzati dell'Irak che si sono opposti, per anni e anni, al regime di Saddam Hussein: dai comunisti, ai partiti curdi, al partito della rivoluzione islamica (maggiore formazione POLITICA sciita), alle formazioni sunnite antisaddamite storiche.

    Shalom

  4. #14
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    " 23 Settembre 2004
    VATICANO - IRAQ
    La Santa Sede: comunità internazionale sostenga Allawi
    >
    Nei Paesi confinanti c'è timore per un Iraq democratico.

    Città del Vaticano (AsiaNews) - Autobombe e decapitazioni ed in genere una situazione di violenza che pare senza sbocchi hanno spinto il Vaticano a prendere posizione in modo finora inusuale a favore del governo Allawi.
    "Forse il giudizio della storia sull'intervento in Iraq sarà severo. Però va considerato un fatto: questo figlio è nato. Sarà anche illegittimo, ma ora c'è e ora bisogna educarlo ed allevarlo". La frase del cardinale segretario di Stato, Angelo Sodano, apparsa in un'intervista data alla Stampa dalla sede delle Nazioni Unite, è apparsa contemporaneamente ad una presa di posizione dell'Osservatore romano e ad un'altra intervista dello
    stesso segretario di Stato alla Radiovaticana. Una contemporaneità che difficilmente può essere casuale e che dovrebbe trovare la sua ragion d'essere proprio nelle affermazioni del giornale vaticano, che di fronte
    al dilagare della violenza che distrugge prima di tutto il popolo iracheno "non è il momento di dietrologie, dei 'se' e dei 'ma'. L'attuale situazione dell'Iraq richiede uno sforzo da parte di tutta la comunità internazionale". "Di fronte allo 'sconvolgente dilagare del terrorismo' - scrive oggi il quotidiano - è urgente individuare strumenti efficaci che facciano da argine alle violenze. È ora di dire 'basta' al ricatto; alla scellerata sequela di ultimatum e di decapitazioni; di attentati e di ritorsioni".
    Una situazione di instabilità a favore della quale la Santa Sede sembra vedere quanto meno l'interesse dei Paesi vicini. "I terroristi - ha detto infatti il card. Sodano - sanno che se una democrazia prendesse piede a Baghdad metterebbe in difficoltà i Paesi vicini, come l'Iran e l'Arabia Saudita, dove ancora si va in prigione per il possesso di un crocefisso".
    Di qui la scelta della Santa Sede di sostenere il governo Allawi, che trova conferma in una anticipazione data dallo stesso card. Sodano: il Vaticano accoglierà un ambasciatore di quel governo. "Ora bisogna aiutare il
    governo Allawi", ha detto Sodano. "L'attuale situazione dell'Iraq - si legge sull'Osservatore romano - richiede uno sforzo da parte di tutta la comunità internazionale. Il Paese ha quanto mai bisogno di stabilità. Di uno «spazio» libero dalla violenza in cui sia possibile attuare un reale processo di riconciliazione, dopo tanti anni di divisioni". "C'è bisogno di stabilità, in Iraq, perché solo nella sicurezza potrà essere avviato un autentico cammino di democratizzazione che sradichi il terrorismo, eliminandone le cause da cui trae pretesto per esistere".

    Ma se c'è bisogno di una stabilità, in Iraq, "evidentemente non può essere raggiunta con le bombe". Una frase, questa del quotidiano vaticano, che sembra potersi riferire non solo agli ordigni dei terroristi, ma anche a quelli degli americani. Ciò che serve davvero, insomma, è "accompagnare gli iracheni verso un futuro di autodeterminazione, di crescita nazionale.
    Verso un avvenire di pace e di sviluppo che superi le atrocità di questo presente". Ricordando anche ciò che dice sovente il Papa: "Senza perdono non c'è pace". (FP)
    "
    "


    Shalom

  5. #15
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    Le conseguenze di un ritiro affrettato dall'Iraq

    A pagina 6 di Corriere dell a Sera del 4 ottobre 2004, Ennio Caretto firma un articolo dal titolo «Ma un disimpegno prima del tempo destabilizzerebbe tutta la regione»

    "
    Richard Perle non vede gravi contraddizioni tra il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, secondo cui il ritiro delle truppe americane potrebbe cominciare prima che l'Iraq sia totalmente pacificato, e il presidente Bush, secondo cui avverrà solo «a missione compiuta», cioè quando il Paese sarà sicuro al cento per cento. Il consigliere del Pentagono, l'uomo che per anni premette per la destituzione di Saddam Hussein, ammonisce che «una uscita prematura dal campo» destabilizzerebbe non soltanto Bagdad ma anche il Medio Oriente. Perle, «il cavaliere nero» del presidente Ronald Reagan nella guerra fredda, l'architetto del disarmo nucleare con l'Urss, afferma che «le elezioni di gennaio segneranno un importante passo avanti verso la soluzione dei problemi dell'Iraq». Ma l'Amministrazione non dà segni d'incertezza? «Le posso dire che intende tenere le truppe in Iraq sino a quando gli iracheni non saranno in grado di difendersi da soli dagli insorti e dai terroristi. Ha investito troppo in questa guerra, e non cambierà strada. Certe dichiarazioni possono ingenerare confusione, ma la strategia è quella». Che cosa significa? Che l'Amministrazione non incomincerà a ritirare le truppe neppure alla fine dell'anno venturo? «E' molto difficile quantificare i tempi. Quando verrà il momento, ci sarà un ritiro lento e graduale non grosso e improvviso. E comunque le truppe Usa per l'addestramento degli iracheni dovranno rimanere in Iraq a lungo». Le critiche però aumentano. «Lei sa che io sono stato uno dei primi a muoverle: il potere andava trasmesso agli iracheni subito, non tre mesi fa. Le elezioni si sarebbero svolte in un clima meno teso e la resistenza sarebbe stata minore. Purtroppo il terrorismo si intensificherà in vista delle elezioni, ma non riuscirà a intimidire la maggioranza degli iracheni». Si aspetta che alleati come l'Italia restino al vostro fianco per anni? «Siamo grati all'Italia del suo appoggio, ma gli alleati sono liberi di prendere le loro decisioni. Tenga conto che la situazione in Iraq varia da regione a regione: qualcuno potrebbe disimpegnarsi prima di noi perché la sua regione è sotto controllo. E' impossibile fare previsioni». John Kerry, l'avversario elettorale di Bush, non esclude l'invio di rinforzi. «Non c'è bisogno di più truppe, c'è bisogno di gente che parli la lingua locale, conosca la cultura irachena, sappia trattare coi leader tribali. I nostri soldati non possono fare i poliziotti: è il motivo per cui la sicurezza deve essere affidata a poco a poco agli iracheni». Kerry promette anche di mobilitare l'Onu e la Nato. «Non so di che cosa parli, sarebbe una perdita di tempo. L'Onu, la Francia, la Germania, la Russia e altre nazioni non cambieranno posizione. La Nato potrebbe fare un gesto simbolico, ma non andrebbe oltre al modesto impegno assunto per l'addestramento degli iracheni». Le crede che il partito dell' ayatollah Moqtada al Sadr parteciperà alle elezioni come scrive il ? «Qualcuno tenta di fare dell' Iraq una teocrazia, l'Iran per esempio, che vuole un regime amico a Bagdad. Ma credo che il partito di Sadr verrebbe sconfitto, se andasse alle urne. Secondo me, la maggioranza degli iracheni vuole uno stato secolare, moderno e democratico». Prevede un successo del premier Allawi? «Non riesco a fare previsioni nemmeno sulle elezioni in America, immagini in Iraq. D'altronde l'incertezza fa parte del fascino della democrazia. Non saranno elezioni morbide, provocheranno polemiche. Ma, come in Afghanistan, sarà molto meglio tenerle che non rinunciarvi».
    "


    Saluti liberali

  6. #16
    brescianofobo
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    IRAQ/ RAPPORTO: I COSTI DELLA TRANSIZIONE FALLITA

    Crescono violenza, insicurezza, attacchi alla coalizione


    Roma, 4 ott. (Apcom) - Lo stillicidio giorno per giorno di attentati, bombardamenti, uccisioni, rapimenti non dà l'esatta dimensione del fallimento della transizione irachena. Un quadro d'insieme, invece, lo si può avere mettendo uno dopo l'altra le cifre. Lo ha fatto l'Institute for Policy Studies, un think tank progressista americano, che ha pubblicato un rapporto, consultabile sul sito internet di Foreign Policy Focus.

    Il ritratto è a tinte foschissime. Non ci sono dubbi, secondo il rapporto: la transizione fallita irachena ha un costo enorme per l'Iraq, per gli Stati Uniti e per il mondo intero.

    LA GUERRA E' FINITA?

    In molti avevano celebrato il "Trasferimento di sovranità" del 29 luglio scorso come un toccasana che, oltre a riportare il potere nelle mani degli iracheni, avrebbe riportato sicurezza nel paese. E' successo? Il rapporto fornisce dati inequivoci: nel perioso dal 20 marzo al primo maggio 2003 la media mensile di vittime militari Usa (morti e feriti) era di 482, tra il 2 maggio 2003 e il 28 giugno 2004 era scesa a 417, ora è di 747.

    Sono aumentate le vittime (morti e feriti) anche tra i dipendenti stranieri di aziende private che operano in Iraq. In media erano 7,6 i "contractor" stranieri che morivano ogni mese durante i 14 mesi dell'occupazione. Dal "Trasferimento di sovranità" sono saliti a 17,5.

    Segno di una più attiva guerriglia. Un risultato ovvio, se si pensa che il numero dei ribelli è quadruplicato tra novembre 2003 e i primi di settembre 2004, secondo stime del Pentagono. Il vice comandante delle forze della coalizione, il brigadier generale britannico Andrew Graham ha affermato che il numero di 20mila guerriglieri è sottostimato. A sua convinzione è che la resistenza irachena annoveri tra i 40 e i 50mila uomini. A questi vanno poi aggiunti i 24mila combattenti anti coalizione che, secondo la Brookings Institution, sono stati arrestati o uccisi tra maggio 2003 e agosto 2004.

    Un'impasse che ha anche un costo politico per la coalizione. Se alla guerra si era voluta dare una parvenza di multilateralità, con la cosiddetta "Coalizione dei volenterosi", la transizione diventa sempre più unilaterale. Il 18 marzo 2003, all'inizio della guerra, i paesi che sostenevano la coalizione erano 30. Da allora, otto paesi si sono ritirati dall'Iraq e il Costarica ha chiesto di non essere più ufficialmente considerato membro della coalizione. Se all'inizio del conflitto la Coalizione rappresentava il 19,1 per cento della popolazione mondiale, i paesi rimanenti oggi ne rappresentano il 13,6 per cento.

    Tra i paesi che hanno deciso di ritirarsi, anche uno che dava un importante contributo alla forza militare della coalizione: la Spagna.

    I COSTI DELLA TRANSIZIONE

    1.I costi per gli Stati Uniti


    - Costi umani Tra il 19 marzo 2003 e il 22 settembre 2004 sono 1.040 i soldati americani uccisi (oggi sono arrivati a quota 1055, ndr). Di questi, oltre 800 sono morti dopo che il presidente Usa George W. Bush ha dichiarato la fine della guerra il primo maggio 2003 a bordo della portaerei Roosevelt. Oltre 7.400 soldati Usa sono stati feriti, il 94 per cento dei quali dopo la dichiarazione della fine del conflitto. I soldati della coalizione non americani uccisi sono 135, la gran parte dei quali morti dopo la fine della guerra guerreggiata. I contractor civili uccisi, entro il 22 settembre scorso, sono 154 dal primo maggio 2004, di cui 52 sono americani.


    - Costi per la sicurezza
    Se c'è un soggetto che si è avvantaggiato con la guerra, questo è il terrorismo internazionale. Secondo il prestigioso International Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra, i membri di al Qaida sono oggi 18mila, mille dei quali attivi in Iraq. Un rapporto del Dipartimento di Stato del 2003, "Pattern of Global Terrorism", ha documentato 635 morti e 3.646 feriti dovuti ad attentati terroristici nel 2003. Secondo il rapporto gli "incidenti significativi" sono aumentati dal 60 per cento del 2002 all'84 per cento del 2003.

    La guerra ha inoltre danneggiato la credibilità degli Stati Uniti nel mondo. Sondaggi condotti in paesi europei e arabi mostrano che le opinioni pubbliche di questi paesi sono convinti che l'invasione irachena ha danneggiato piuttosto che aiutare la guerra al terrorismo. Secondo l'Annenberg Election Survey, il 52 per cento degli americani disapprova la politica di Bush in Iraq.

    Mal di pancia sono emersi anche sulla gestione militare del conglitto. Molti ex alti ufficiali delle forze armate americane, tra cui anche il generale dei Marines Anthony Zinni, hanno criticato le scelte militari Usa. Non è piaciuta la scelta di non cercare il sostegno di alleati tradizionali degli Stati Uniti, quella di puntare su un gruppo di esiliati iracheni dalla reputazione discutibile.

    Basso anche il morale delle truppe in Iraq. A marzo del 2004, secondo un rapporto dell'esercito Usa, il 52 per cento dei soldati era sfiduciato e i tre quarti mostrava poca fiducia negli ufficiali.

    Negativo anche il trend nel trasferimento della sicurezza nelle mani degli iracheni. La Guardia nazionale irachena rappresenta oggi un terzo delle truppe Usa presenti in Iraq. Troppo poco per garantire una "prima risposta" alle emergenze.

    Si è cercato di contribuire alla sicurezza esternalizzando alcuni dei compiti tradizionalmente assegnati ai militari. Sono 20mila i contractor privati attualmente presenti in Iraq e spesso mancano di addestramento sufficiente, oltre a seguire procedure diverse da quelle dei militari.


    - Costi economici
    Il Congresso degli Stati Uniti ha stanziato 151,1 miliardi di dollari per l'Iraq. Sono già stati promessi altri 60 miliardi di dollari a novembre, dopo le elezioni. Questo, secondo l'economista Doug Henwood, vuol dire una spesa suppletiva media di 3.415 dollari all'anno per ogni famiglia Usa. James Galbraith, economista presso l'Università del Texas, prevede un decennio di problemi economici, alto deficit della bilancia commerciale Usa e inflazione, dopo un breve periodo di crescita sostenuta dalle spese belliche

    Stupri, violenze, rapimenti: il Far West iracheno

    La questione irachena ha avuto un sensibile effetto anche sul prezzo del petrolio,che viaggia oggi ai livelli più alti degli ultimi 20 anni, attorno ai 50 dollari per barile. Secondo una stima, se il greggio si mantiene attorno ai 40 dollari per barile per un anno, il Pil Usa potrebbe perdere oltre 50 miliardi di dollari.

    C'è una categoria di cittadini americani che, più di altri, sta subendo i costi della transizione: i militari della Guardia nazionale. I 364mila riservisti sono stati costretti a chiamate di 20 mesi. Secondo alcune stime, tra il 30 e il 40 per cento dei riservisti il salario della Guardia nazionale è più basso di quello che ottengono nela vita civile. Tra il 2003 e il 2003 il numero delle famiglie dei riservisti che hanno fatto ricorso agli aiuti alimentari dello stato è cresciuto esponenzialmente.


    - Costi sociali Se servono soldi per la guerra, da qualche parte devono uscire. Il rapporto cita un memorandum della Casa Bianca, che doveva restare segreto, secondo il quale sono stati tagliati fondi per l'educazione, per la casa, per l'avviamento al lavoro, per la ricerca medica e, addirittura, per la sicurezza interna.

    Ovviamente, un costo sociale enorme viene dal numero enorme di soldati tornati dal teatro menomati. Circa il 64 per cento degli oltre 7mila soldati americani feriti non potrà tornare alla vita precedente. Soprattutto, dal momento che giubbotti protettivi e armature non proteggono gli arti, sono numerosissimi gli amputati. Insufficiente la ricettività dell'Amministrazione per la sanità dei reduci, mentre il Congresso ha approvato per il 2005 un finanzialemento per 2,6 miliardi di dollari. Pochi per le associazioni dei veterani.

    Da non sottovalutare anche i costi per le cure psicologiche e psichiatriche. Il New England Journal of Medicine ha riferito a luglio che un soldato su sei, al ritorno dalla guerra, ha mostrato segni di stress post-traumatico, depressione, ansia. Tra il 23 e il 40 per cento di questi hanno chiesto di accedere a cure psichiatriche pubbliche.


    2. Costi per l'Iraq


    - Costi umani
    I civili iracheni morti fino al 22 settembre a causa dell'occupazione sono tra i 12.800 e i 14.800. I feriti sono stimati attorno ai 40 mila. Durante i combattimenti soldati iracheni e i ribelli uccisi sono tra 4.895 e i 6.370.

    C'è poi un costo umano che potrebbe essere pagato negli anni a venire. Gli effetti dell'uranio impoverito che, pur non essendo ancora studiati con precisione, potrebbero provocare un aumento delle patologie tumorali. Il Pentagono stima che le forze Usa e britanniche hanno scaricato tra 1.100 e 2.200 tonnellate di artiglieria che contenevano materiale tossico e radiattivo durante la campagna di bombardamenti. Secondo studi, una quantità molto minore di uranio impoverito usato nella guerra del Golfo del 1991 ha provocato una moltiplicazione per sette delle malformazioni alla nascita di bambini nella zona di Bassora.


    - Costi per la sicurezza
    Non ci sono solo i combattimenti. L'Iraq del dopoguerra è un Far West in cui assassinii, stupri, rapimenti costringono la popolazione a tapparsi in casa con l'arrivo del buio e impediscono ai bambini di frequentare le scuole. Le morti violente sono aumentate da una media di 14 al mese nel 2002 a 357 al mese nel 2003.

    Un fatto devastante per la popolazione. Secondo il Centro iracheno per gli studi strategici, l'80 per cento dei cittadini del paese che fu di Saddam Hussein vorrebbero un ritiro immediato della coalizione.


    - Costi economici
    Non erano pochi neanche prima della guerra. Ma nel dopoguerra il 30 per cento dei disoccupati è raddoppiato arrivando al 60 per cento nell'estate del 2003. Secondo l'amministrazione Bush, i senza lavoro sono drasticamente diminuiti, impegnati nella ricostruzione. Solo che solo 120mila persone, su una forza lavoro di 7 miliani sono impegnati in progetti per la rinascita del paese.

    E' un fatto che la ricostruzione è una torta che si sono spartite le compagnie americane, piuttosto che le aziende irachene radicate sul luogo, a cui sono arrivate le briciole.

    Nazioni Unite delegittimate, diritti umani violati


    - Intanto, la principale risorsa del paese, il petrolio, è largamente sottoutilizzata. Da giugno 2003 si sono susseguiti almeno 118 attentati contro le infrastrutture petrolifere irachene. A settembre di quest'anno, ancora non si è arrivati a raggiungere la produzione dell'anteguerra.


    - Costi sociali Un decennio di embargo aveva già danneggiato le strutture sanitarie irachene. Ancora oggi ospedali e cliniche soffrono una drammatica penuria di farmaci e strumentazione, oltre a un forte sovraffollamento.

    Non va meglio nel settore dell'educazione. Secondo l'Unicef oltre 200 scuole sono state distrutte nel conflitto e migliaia sono state saccheggiate nel caos della caduta di Saddam. Il disagio, secondo il Dipartimento di Stato Usa, permane immutato oggi.

    Strutture idriche e fognarie hanno subito gravissimi danni durante il conflitto. Imponente anche il danno ambientale, con i pozzi di petrolio che sono andati a fuoco proiettando nell'atmosfera fumi tossici. Il paese è completamente da sminare, ogni mese in media saltano in aria 20 persone per gli ordigni inesplosi.


    - Costi per i diritti umani
    Abu Ghraib è emblematica. Anche dopo la caduta del regime, le violazioni dei diritti umani sono proseguite. Non si tratta solo delle torture ai prigionieri iracheni da parte dei soldati americani nel carcere di Baghdad. Dopo l'11 settembre, ci sono state oltre 300 accuse per abusi in Afghanistan, Iraq e a Guantanamo. Oltre 155 inchieste sono state completate.


    - Costi per la sovranità
    Quanto conta il governo ad interim iracheno? Secondo il rapporto poco. L'attuale esecutivo guidato da Ayad Allawi non può annullare 100 provvedimenti presi dall'Autorità provvisoria di coalizione (Cpa). Riguardano aspetti chiave per la ricostruzione: dalle privatizzazioni delle aziende di stato alle norme che impediscono di favorire le aziende irachene nei lavori di ricostruzione.


    3. Costi per il mondo



    - Costi umani
    Il 22 settembre erano 135 i soldati della coalizione non americani morti in Iraq. A questi, vanno aggiunte le persone che nei paesi più poveri, dove ci sono gravi crisi umanitarie, non hanno potuto usufruire delle risorse dirottate dagli umanitari alla guerra.


    - Effetti sul diritto internazionale
    La decisione unilaterale Usa di muovere guerra preventiva all'Iraq - scrive il rapporto - pone un grave precedente, violando la Carta delle Nazioni Unite. Inoltre, le violazioni delle Convenzioni di Ginevra potrebbero essere in futuro imitate da altri paesi.


    - Delegittimazione delle Nazioni Unite
    Una vittima di guerra, per il rapporto, è l'Onu. La guerra unilaterale mina le possibilità future del Palazzo di Vetro di diventare in futuro l'agone in cui si affrontano le diverse istanze nelle crisi internazinali.


    - Coalizioni
    La Coalizione dei volenterosi non annoverava le opinioni pubbliche di molti dei paesi che ne facevano parte. In alcuni di questi, il no alla guerra toccava il 90 per cento. Secondo il rapporto, si tratta di un grave danno alla democrazia.


    - Costi per l'economia globale
    I 151,1 miliardi di dollari usati dal governo Usa per la guerra, avrebbero dimezzato la fame mondiale, coperto per intero il fabbisogno di farmaci per l'Aids oppure avrebbero risposto al fabbisogno per due anni dei paesi in via di sviluppo di potabilizzazione dell'acqua. La corsa del prezzo del petrolio fa temere fenomeni di "stagflazione" (inflazione accompagnata a stagnazione economica) come negli anni '70. Le compagnie aeree si attendono una crescita dei costi di un miliardo di dollari o più al mese.


    - Insicurezza globale
    Il 2003, secondo il Dipartimento di Stato Usa, è stato l'anno con più attentati da quando gli Stati Uniti hanno cominciato a raccogliere dati su questo argomento.


    - Costi per l'ambiente globale
    L'uranio impoverito ha contribuito all'inquinamento anche delle acque fluviali del Tigri. Inevitabili effetti anche su paesi vicini, come l'Iran e il Kuwait.


    - Diritti umani
    Le torture dei soldati americani sui prigionieri iracheni e l'atteggiamento lasco della Casa Bianca verso gli abusi di questo tipo, secondo il rapporto, danno una licenza per la tortura ai governi che nel resto del mondo tendono ad avere standard insufficienti per i diritti umani.

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  7. #17
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    In origine postato da brunik
    IRAQ/ RAPPORTO: I COSTI DELLA TRANSIZIONE FALLITA

    [...]

    2. Costi per l'Iraq


    - Costi umani
    I civili iracheni morti fino al 22 settembre a causa dell'occupazione sono tra i 12.800 e i 14.800. I feriti sono stimati attorno ai 40 mila. Durante i combattimenti soldati iracheni e i ribelli uccisi sono tra 4.895 e i 6.370.

    C'è poi un costo umano che potrebbe essere pagato negli anni a venire. Gli effetti dell'uranio impoverito che, pur non essendo ancora studiati con precisione, potrebbero provocare un aumento delle patologie tumorali. Il Pentagono stima che le forze Usa e britanniche hanno scaricato tra 1.100 e 2.200 tonnellate di artiglieria che contenevano materiale tossico e radiattivo durante la campagna di bombardamenti. Secondo studi, una quantità molto minore di uranio impoverito usato nella guerra del Golfo del 1991 ha provocato una moltiplicazione per sette delle malformazioni alla nascita di bambini nella zona di Bassora.

    - Costi per la sicurezza Non ci sono solo i combattimenti. L'Iraq del dopoguerra è un Far West in cui assassinii, stupri, rapimenti costringono la popolazione a tapparsi in casa con l'arrivo del buio e impediscono ai bambini di frequentare le scuole. Le morti violente sono aumentate da una media di 14 al mese nel 2002 a 357 al mese nel 2003.

    Un fatto devastante per la popolazione. Secondo il Centro iracheno per gli studi strategici, l'80 per cento dei cittadini del paese che fu di Saddam Hussein vorrebbero un ritiro immediato della coalizione.

    - Costi economici Non erano pochi neanche prima della guerra. Ma nel dopoguerra il 30 per cento dei disoccupati è raddoppiato arrivando al 60 per cento nell'estate del 2003. Secondo l'amministrazione Bush, i senza lavoro sono drasticamente diminuiti, impegnati nella ricostruzione. Solo che solo 120mila persone, su una forza lavoro di 7 miliani sono impegnati in progetti per la rinascita del paese.

    E' un fatto che la ricostruzione è una torta che si sono spartite le compagnie americane, piuttosto che le aziende irachene radicate sul luogo, a cui sono arrivate le briciole.

    [...]
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    e poi, per non infierire ulteriormente, hanno tralasciato la drammatica situazione dei semafori...

  8. #18
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    dal quotidiano IL FOGLIO

    " Per dotare di consenso la Guerra contro il terrore bisognerà ridurne il profilo preventivo



    Di Carlo Pelanda (14-9-2004)



    L’impostazione della “Guerra contro il terrore” fu calibrata dall’Amministrazione Bush per la difesa della fiducia globale e non solo contro un gruppo di criminali (dottrina Clinton). Per tale motivo la guerra in corso andrebbe più propriamente definita come una di tipo “ordinativo”. Contro: (a) qualsiasi gruppo che ricorre a mezzi terroristici; (a) Stati che direttamente o indirettamente li favoriscono; (c) o che sviluppano armi di distruzione di massa senza dare credibili garanzie di non aggressività. Il metodo preventivo e non solo di contenimento, nonché il raggio globale dell’azione, si sono basati su tre valutazioni. L’insorgenza islamica è pronta ad impiegare armi totali e non solo relative. Non è sensibile a messaggi di dissuasione o diplomatici. Un solo evento nucleare o biochimico pesante potrebbe indurre, per amplificazione comunicativa, una depressione mondiale forse irrecuperabile. Pertanto è necessario eliminare preventivamente la minaccia, dappertutto, piuttosto che gestirla con “contenimenti” che lascerebbero troppo elevato il rischio di destabilizzazione. Tale teoria ha ispirato i primi tre anni di guerra. Ma la sua scala, pur tecnicamente corretta, ha generato una serie di effetti controproducenti che ne mettono in dubbio la sostenibilità con tale megaformato. I costi della guerra sono pesanti e a solo carico statunitense. Altri Stati rilevanti non li condividono perché temono di più la formazione di un impero americano non bilanciabile che il rischio di instabilità. Le opinioni pubbliche non capiscono la connessione tra stabilizzazione preventiva, motivo del cambio di regime in Iraq, e sicurezza, e reagiscono con dissenso. In sintesi, la guerra ordinativa a guida Usa pretende risorse ed adesioni che eccedono le disponibilità. Quindi il punto tecnico è: come va modificata per darle più consenso? Le analisi indicano che la parte meno capita dal pubblico e più problematica sul piano delle relazioni tra Stati riguarda la “prevenzione” in assenza di minaccia evidente a tutti. Pertanto bisognerà lasciare che il pericolo sia più visibile per ottenere il consenso adeguato a combatterlo. E’ un paradosso: per non depotenziare la guerra devo aumentare la vulnerabilità. Ma il fatto che la Russia abbia deciso di combattere globalmente il terrore solo dopo un colpo devastante e che la divergenza francese si stia indebolendo solo dopo un attacco diretto ne mostra il realismo. Quindi, anche se Bush fosse riconfermato, probabilmente l’intensità degli atti preventivi verrà modulata in base ai requisiti di consenso o, dove non possibile, silenziata via operazioni segrete.

    Carlo Pelanda
    "


    Saluti liberali

  9. #19
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    dal quotidiano LIBERO di oggi

    " LA VERITÀ SULL’IRAQ E L’IMBROGLIO DEI PACIFISTI

    di MATTIA FELTRI


    «Sento spesso altri giornalisti parlare di “resistenza irachena”. Anche giornalisti del Tg1, il servizio pubblico per eccellenza. Ma io in Iraq ho visto altri resistenti. Chi ha fatto la resistenza, in Iraq, è Fabrizio Quattrocchi. È per questo che non ci hanno mai mostrato il video della sua esecuzione: perché lui, morendo, ha fatto la resistenza. Quello scatto di orgoglio, quel gesto di ribellione, quel saper affrontare la morte dignitosamente erano una sconfitta per i suoi boia. I terroristi vogliono sempre esibirci codardi e piagnucolosi, meschinamente attaccati alla vita. Quattrocchi li ha annichiliti, ha fatto la resistenza, li ha battuti». Toni Capuozzo , 56 anni, inviato del Tg5, da mesi racconta una guerra diversa da quella raccontata dalla Rai e da gran parte dei giornali. Nella sua trasmissione, “Terra”, se la prende con il pacifismo, svela le zone d’ombra di un “Ponte per...”, denuncia la cecità e la cedevolezza occidenta - le, ricorda la condizione delle donne, dei civili. Rifiuta il concetto di resistenza applicato non soltanto al terrorismo stragista, ma anche alle bande armate in guerra con gli americani. A Libero ha spiegato il perché: «Perché io sono un uomo di sinistra. Non ho mai nascosto né rinnegato le mie origini, la mia attività in Lotta continua. Per me la Resistenza è un’altra cosa. In Iraq non esiste un’attività di resistenza». Che cosa c’è? « Un terrorismo straniero, quello di Al Zarqawi per intenderci, che ha messo radici in un terreno fertile; e un terrorismo costituito da ciò che resta del vecchio regime di Saddam. È un terrorismo che funziona. Se ammazzano gli interpreti perché lavorano per gli americani, la gente non fa più l’interprete. Poi ci sono bande armate - io le chiamerei bande di ribelli, di insorti - che non rapiscono e non mettono le autobombe, ma si oppongono con la guerriglia alla presenza degli americani». Considerano gli americani invasori. Non uccidono i civili. Tecnicamente sono resistenti. « No, non lo sono. Sono conservatori, sono prevaricatori, vogliono le donne sottomesse, rifiutano l’idea di un Iraq democratico. Vogliono essere la nuova oligarchia dittator iale ». Dunque solo Quattrocchi è un resistente? «Lui. I dodici nepalesi che aspettavano coraggiosamente e in silenzio la pallottola alla nuca. I cinquemila iracheni in divisa uccisi dai loro connazionali perché collaboravano con gli Usa nel tentativo di dare un futuro al paese. Gli iracheni ammazzati con le bombe mentre erano in fila per reclutarsi. Questi hanno fatto la resistenza, non gli altri. Anche l’inglese in gabbia, in lacrime e terrorizzato, fa la sua resistenza, perché nella sua paura c’è tutta l’umanità che manca ai suoi sequestratori». Sono pochi in Italia a pensarla così. «In Italia si giustifica il terrorismo con la fame. Si dice che è la miseria a produrre l’orrore. E la fame dei camionisti turchi assassinati? E la fame di chi si arruola? La fame degli iracheni che lavorano per l’esercito americano? È una fame minore? Più ignobile?». Sono obiezioni poco affascinanti in Europa. « L’atteggiamento dell’Europa è incomprensibile. Sembra non abbia altro obiettivo che di godere di un eventuale fallimento di Bush. È un’Europa confusa da quando è caduto il comunismo, pervasa da una grande corrente ideologica fatta di figli di papà, di pauperisti, sia religiosa sia laica, che ha perso la sua bandiera. E allora ha sostituito il vecchio modello del comunismo con un modello alternativo, e sempre a sognare il paradiso. Quando c’era il comunismo si diceva, disillusione dopo disillusione, che il comunismo poteva essere qualcosa di diverso da Stalin, poi da Mao, poi da Pol Pot. Ma il comunismo diverso non è mai arrivato. Ora si sogna un mondo ancora più indefinito, ancora più inesistente ». Beh, l’Islam è un mondo molto concreto. «Certo, un mondo nel quale è stato proiettato incredibilmente il sogno di una terra promessa. Ma dove? Nella tirannide talebana? Nelle donne seppellite nel burqa? E questo sarebbe l’altro mondo possibile predicato dai no global? Stando in Iraq mi sono ripromesso, come sempre, di raccontare fatti. Penso che prima di farsi un’opinione si debbano conoscere i fatti. Invece molti incasellano fatti partendo dalle opinioni. Della terribile vicenda del povero Baldoni, per esempio, o di quella delle due Simone si è discusso per giorni delle dinamiche del sequestro, delle anomalie, come se l’unico obiettivo fosse quello di dimostrare che erano stati gli americani, i servizi deviati, la Cia. Per dimostrare che tutto il male del mondo è roba loro». Siamo al solito antiamericanismo? « Certo, non è cambiato nulla. Sei sei antiamericano va bene qualsiasi cosa tu faccia. Anche se sgozzi, sequestri, metti a fuoco Bagdad e Gerusalemme. Magari non ti giustifiano ma ti capiscono. A parte il fatto che poi, se arriva un americano che corrisponde al loro ideale, lo idolatrano. Michael Moore è stato trasformato in un nuovo Orson Welles, Kerry in una specie di Kennedy » . Spesso il terrorismo viene equiparato ai bombardamenti americani. «È così. Se gli americani bombardano un covo di estremisti fanatici, le tv ci mostrano i civili e ci dicono che questo è l’orrore. Non ci dicono che i terroristi non vivono nelle caserme, ma in mezzo alla gente, in una palude in cui è impossibile muoversi con certezza. Non mi piacciono i cosiddetti “danni collaterali”. Ma non sono ter ror ismo ». Il terrorismo paga? « Arafat ha vinto il Nobel per la Pace con il terrorismo . Della questione palestinese nessuno sapeva nulla sinché i palestinesi non cominciarono a rapire, dirottare, uccidere. Allora in Europa siamo diventati tutti tifosi della Palestina e di Arafat». Che cosa ha di diverso la protesta no global da quella vostra, degli anni Settanta? «Beh, la nostra contestazione aveva in sé una carica di violenza che, per fortuna, non vedo oggi. Però le battaglie della sinistra ora sono simboliche, evanescenti, vacue. Dicono no al rimpatrio di seicento clandestini sbarcati a Lampedusa ed è una cosa insensata, contraddittoria. Secondo questo ragionamento, dovremmo organizzare noi dei ponti aerei e portare in Italia non seicento clandestini, ma seimila. E perché non sei milioni? O sessanta? Ins e n s at o » . Lei dice che non si deve prendersela con le due Simone. «Perché sono due militanti. Lo sapevamo e non dovevamo dimenticarlo. Perché poi si resta delusi. Dovremmo anzi essere felici che un’esperienza simile non le abbia cambiate». Però è stato molto più severo con «Un ponte per...», l’organizzazione che le ha mandate in Iraq. «Semplicemente mi sono chiesto dov’erano quando Saddam sterminava a migliaia gli sciiti e i curdi. Dov’erano quando Saddam utilizzava ghigliottine a sei posti per decapitare sei oppositori contemporaneamente. Non sono mai stati campioni di libertà. Per lavarsi la coscienza portavano le medicine ai bambini, che era come aprire una farmacia ad Auschwitz. Hanno sceso i gradini di un abisso morale. Sono brava gente con la doppia morale». Che cosa pensa dei suoi colleghi che raccontano un’altra guerra? «Non penso niente. Io penso a me. Certo,mi rendo conto di suscitare scandalo, perché ho una storia di sinistra e vedo e racconto cose diverse da quelle che raccontano i Giulietto Chiesa o le Gruber. Sono stato criticato anche per come ho reso i fatti del G8 a Genova, ma pazienza. Del resto non l’ho inventata io la foto con il povero Giuliani che sollevava l’estintore, con il povero Placanica armato e con gli occhi terrorizzati, e con le travi buttate dentro alla sua camionetta». Lilli Gruber ha mollato il giornalismo e il giorno dopo era candidata per l’Ulivo. «Sono d’accordo con il suo ex direttore, Clemente Mimum: avrebbe fatto bene quantomeno a lasciar passare un po’ di tempo». Comunque si è candidata dopo averci parlato per mesi, da Bagdad, della guerra. È legittimo dubitare della genuinità del suo lavoro? «Sì, lo è. Ma non ne farei un dramma. Purtroppo la gente ascolta soltanto quello che vuole sentirsi dire. Se viviamo di pregiudizi la colpa non è soltanto della stampa. Tutta l’Europa è molle e impreparata. Il pensiero ribelle è diventato il conformismo più totale. Quando un grande anticonformista come Montanelli si è adagiato, per una volta, al pensiero corretto dominante, si è guadagnato gli applausi di tutti i suoi vecchi avversari». Un’ultima domanda. Che sarà dell’Iraq? «Io rimango ottimista. Se andrà bene, come penso, il processo sarà lunghissimo e doloroso ma in Iraq si produrrà un circolo virtuoso che fa paura a molti. Una democrazia in Medio Oriente è qualcosa di straordinariamente eversivo». Sembra un neoconservatore, un consigliere di Bush. «Non ragiono su basi di appartenenza. Ragiono sui fatti. I fatti dicono che in Iraq sono nati più di cento giornali. La gente ha la libertà di manifestare e di bruciare le bandiere in piazza. E quando si assaggia la libertà, poi è molto difficile tornare indietro e rinunciarvi ».
    "

    Saluti liberali

 

 
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