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Discussione: Il Pacifismo in Guerra

  1. #1
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    Predefinito Il Pacifismo in Guerra

    Il pacifismo in guerra contro Bush (e la sua visita in Italia)
    di Fabrizio Gualco - 4 giugno 2004


    Il pacifismo estremo è una forma di nichilismo politico contemporaneo, data dall'interazione fra un moralismo sterile ed un attivismo irresponsabile Il primo vive di rendita speculando su buone intenzioni e sensi di colpa, il secondo su proclami retorici senza decenza verbale ed invettive prive di onestà intellettuale. Nei fatti, esso si traduce nell'eccesso di antagonismo politico e sociale che fonda le sue pratiche sulla confusione esplicita o implicita tra vittima e carnefice, democrazia e totalitarismo, forza e violenza.

    Le pratiche pacifiste, modulate all'estremo, sono le espressioni di chi vive in stato di guerra permanente nei confronti della realtà, ed in generale di tutto ciò che non rientra nei paramentri forniti da una percezione del mondo estremamente semplificata . I sedicenti pacifisti, troppo unilaterali per risultare credibili e troppo agitati per sembrare pacifici, manifestano con l'astio nel cuore, avendo la parola "pace" solamente sulle labbra o su qualche striscione.

    La solidarietà con l'America colpita dalla follia del fanatismo terrorista, espressa in forma pressoché corale nei giorni successivi all'11 settembre è durata poco. "Siamo tutti americani": il titolo che all'indomani della tragedia accomunava gli editoriali di Ferruccio de Bortoli sul Corsera e quello di Jean Marie Colombani su Le Monde, è contraddetto dai fatti in modo quotidiano ed inesorabile oggi come non mai. No, non siamo tutti americani. Nemmeno per idea, neppure di striscio.

    Chiedetelo agli esponenti della sinistra massimalista, amanti di Zapata e Zapatero. Chiedetelo ad intellettuali come Asor Rosa e Giorgio Agamben, a politici come Cossutta e Bertinotti, ad attivisti extraparlamentari terzomondisti come Strada e Agnoletto: a loro calza meglio l'assurda equazione che un filosofo francese non conformista, Alain Finkielkraut, ha proposto di recente in un suo articolo al fine di evidenziare quanto lo spirito critico del pacifismo ideologico sia labile: se tutto il male viene dall'America - questa l'equazione - vuol dire che tutto il bene può venire dalla lotta contro l'America.

    Se l'Europa ha potuto godere di un periodo di pace mai prima vissuto, attraverso cui realizzare e fruire di uno sviluppo economico e sociale di tutto rispetto, ciò in grandissima parte è dovuto all'intervento americano in terra europea La riconoscenza che dobbiamo all'America si determina, tra le altre cose, nel fatto evidente che l'Italia dal dopoguerra ad oggi ha potuto provare e sperimentare la libertà economica, sociale e politica: la libertà concreta avversata dai totalitarismi di ogni ordine e grado.

    Senza il sacrificio dei soldati americani saremmo finiti nelle fauci di Hitler o di Stalin. Oggi saremmo infinitamente più esposti ai colpi di ibn Laden & Co. Ieri gli Stati Uniti fornirono, anche in termini di vite umane un contributo fondamentale per la liberazione dell'Europa dal giogo totalitario aprendo la via ad uno sviluppo economico, democratico, civile senza precedenti. Oggi, gli Stati Uniti guidano la lotta contro il terrorismo fanatico, la guerra globale al totalitarismo del XXI secolo, mossa alla multinazionale del terrore che dispone non solo di corpi pronti a farsi saltare in aria, ma anche di cervelli che lavorano non solo per architettare attentati o stragi.

    In questa prospettiva, la visita italiana di George W. Bush non da pace ai pacifisti: in un call for action rintracciabile sulla Rete, viene descritto come «Signore dei signori della guerra e del terrore», «criminale contro l'umanità», «capo supremo dei bombardieri e dei torturatori»: per la moltitudine pacifista, il Presidente americano è peggio di Osama ibn Laden, di Saddam Hussein, di Fidel Castro. Più pericoloso degli assassini di Daniel Pearl, Nick Berg, Fabrizio Quattrocchi, Antonio Amato. Antiamericanismo assoluto, totale, senza se e senza ma: l'ennesimo esempio di quanto le pulsioni ideologiche possano oscurare l'intelligenza e produrre delirio.

    I pacifisti, siano essi parlamentari o piazzaioli, si dicono antifascisti.Ma al contempo dirsi antitotalitari?Il dubbio rimane.

  2. #2
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    da www.ragionepolitica.it

    dello stesso Gualco interessante questo altro articolo....

    " Pacifismo cattolico e antiamericanismo
    di Fabrizio Gualco - 28 febbraio 2003


    Il nichilista - dice Frossard - è colui che si tappa le orecchie quando sente nominare la parola "Dio". Molti cattolici se le tappano quando sentono parlare positivamente degli Stati Uniti. Ammorbidito durante il periodo che seguì il crollo dei sistemi politici totalitari e della "religione" ideologica che il comunismo per molti rappresentava, l'ingrediente dell'antiamericanismo torna prepotentemente di moda non solo nella sinistra antagonista ma anche in quella parte del mondo cattolico che esprime pacifismo a senso unico.

    La memoria storica rivela tutta la sua importanza anche e soprattutto quando si vive all'interno di una società che ha fatto della comunicazione mediatica e dell'abbondanza di informazione una delle sue caratteristiche portanti. Il Novecento ha segnato la vittoria della forma politica democratico-liberale su quella totalitaria. E gli Stati Uniti, la più antica democrazia del pianeta, hanno giocato in tal senso un ruolo fondamentale.

    Eppure, soprattutto dopo la tragedia dell'11 settembre, gradatamente ma inesorabilmente la memoria dell'evento pare sia stata narcotizzata dalla messe di opinioni relative all'evento stesso. Siamo passati dal Siamo tutti americani di Ferruccio De Bortoli (è il titolo del suo articolo sul Corsera del 12-09-2001) all'equiparazione fra Saddam Hussein e George W. Bush, più o meno velatamente operata da molti intellettuali "organici". Con il tempo, sulle pagine dei giornali ed nei salotti televisivi si è passati dalla solidarietà per le vittime di New York all'affermazione che, più o meno indirettamente, la responsabilità del terrorismo va ricondotta agli Stati Uniti, poiché essi ed essi soli sarebbero in ultima istanza i responsabili degli squilibri mondiali.

    Come ben evidenzia Massimo Teodori nelle pagine del suo Maledetti americani (Mondadori, Milano 2002), le considerazioni del cattopacifismo prendono le mosse da una visione alquanto schematica delle realtà economiche, geopolitiche e sociali del terzo millennio. Le motivazioni antiamericane denotano un'impostazione in cui le valenze negative sono preponderanti e decisive, direttamente o indirettamente incentrate sulla svalutazione dell'inscindibile binomio libertà personale - economia di mercato.

    Da questo punto di vista gli Stati Uniti incarnerebbero lo spirito di Faust, colui che cercando il bene provoca sempre e comunque il male. L'American Way of Life, lo stile di vita americano - in realtà più uno stereotipo che un concetto, poiché non esiste una "ricetta" americana per l'esistenza - viene giudicato effimero ed immorale. La superpotenza americana, soprattutto in materia di politica estera, è la madre di tutte le ingiustizie. Eloquente in tal senso il sondaggio stile "aut-aut" - o questo o quello, tertium non datur - recentemente promosso da Famiglia cristiana, ove si impone la scelta secca fra Giovanni Paolo II (un leader spirituale) e George W. Bush (un leader politico), dove pare riproporsi nel presente un passato medievale fatto di guelfi e ghibellini.

    A volte capita di trovarsi, in nome della pace, in guerra contro la guerra. Gli stati d'animo si arroventano al sole dei buoni sentimenti. Il vento delle passioni cresce d'intensità, si vorticizza, agita e rumoreggia. Nella confusione può capitare che princìpi nobilissimi vengano assolutizzati, esasperati, interpretati in modo tale da farli diventare dogmi ideologici. La bandiera multicolore della pace viene contrapposta a quella a stelle e strisce. In questo modo la ricerca della pace può assumere tonalità univoche, riduttive, intransigenti: pronunciare il no alla guerra senza il necessario corredo di se e di ma diviene espressione di un imperativo categorico che rivela uno spirito intransigente, e che disattende proprio quella testimonianza di pace che si vorrebbe dare.

    Chi è consapevole della sostanziale imperfezione delle cose umane - e il cristianesimo lo insegna - è il primo a non pretendere più di ciò che realisticamente può ottenere da se stesso e dagli altri. D'altro canto, proprio la persuasione sull'imperfezione propria ed altrui è fondata sulla coscienza di possedere, in quanto esseri umani, dei limiti costitutivi di ordine ontologico ed epistemologico. Questo esorta positivamente ad esercitare la virtù dell'attenzione, al fine di evitare che i nostri giudizi non decadano a pregiudizi, e che il nostro senso della realtà possa mantenersi tale e concretizzarsi attraverso intelligenza e buona volontà, senza involgere in atteggiamenti negativi o comunque sterili, determinati sull'esclusiva critica del reale.

    La mentalità ideologica che un certo antiamericanismo esprime, nasce e cresce sui pregiudizi nati dalla pretesa che l'essere umano sia infinitamente perfetto come il Dio che lo ha creato. E tali pregiudizi sono opinioni discutibili erette a verità indiscutibili. Non a caso i pregiudizi nascono, crescono, irrobustiscono su prese di posizione iniziali decretate, sin dall'inizio, come assolutamente vere ed irremovibili. La mentalità ideologica è una cultura della parzialità e della negazione del reale esistente. E come tale anticattolica.

    L'antiamericanismo presente nel mondo cattolico veicola un elemento che cattolico non è. L'atteggiamento ideologico presente nell'antiamericanismo dei cattopacifisti è infatti la negazione dell'universalità propria del cattolicesimo e la validità perenne di quella visione-del-mondo che Romano Guardini chiamò christliche-katholische Weltanschauung: la capacità personale di vedere le cose a trecentosessanta gradi propria dello "sguardo" cattolico. Uno sguardo che rimanda ad una prospettiva non parziale ma globale, intenta a ripristinare la cifra della verità trascendente che fonda e garantisce le verità parziali immanenti.

    Fabrizio Gualco
    gualco@ragionpolitica.it
    "


    Saluti liberali

  3. #3
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    del resto...

    " Il dopoguerra secondo il cardinale Camillo Ruini
    Il presidente della conferenza episcopale italiana critica pacifismo e antiamericanismo. Ed enuncia la sua visione di un mondo più libero, giusto e solidale

    di Sandro Magister ROMA –

    Il cardinale Camillo Ruini ha dedicato alla guerra in Iraq la prima parte del discorso con il quale ha aperto, la sera di lunedì 24 marzo, la riunione di primavera del direttivo della Conferenza episcopale italiana.

    Oltre che presidente della Cei, il cardinale Ruini è vicario del papa per la città di Roma. È quindi anche interprete autorevole del pensiero di Giovanni Paolo II.

    Ebbene, le cose che ha detto sulla guerra in Iraq si distanziano nettamente dal comune sentire pacifista che domina tra i cattolici e gli ecclesiastici, anche di alto rango.

    PACIFISMO SENZA PACE

    Sul pacifismo, Ruini richiama la necessità di un «costante discernimento» – ossia di una valutazione critica – «affinché l’impegno per la pace non sia confuso con finalità e interessi assai diversi, o inquinato da logiche che in realtà sono di scontro».

    E a questo scopo loda «la pedagogia della pace messa in atto da Giovanni Paolo II», perché, in quanto «incentrata sulla necessità della conversione anzitutto dei cuori e delle coscienze, e in ultima analisi sulla pace come dono di Dio - che ha il suo segno supremo nell’Eucaristia - prima che come opera nostra, libera la pace stessa dalla presa delle ideologie e pone ciascuno a diretto e responsabile confronto con essa, aiutandoci a comprendere che preservare la pace è sì a titolo speciale compito dei governanti ma è anche impegno e missione di ognuno di noi».

    PACE NELLA GIUSTIZIA

    La pace che Ruini invoca non è semplice assenza o interruzione della guerra, ma – sempre citando Giovanni Paolo II – è «la strada per costruire una società più giusta e solidale». Oggi che la guerra in Iraq è in corso, questa strada punta a che «il conflitto abbia termine al più presto, siano risparmiate vite umane e siano ristabiliti costruttivi rapporti internazionali». Di questi tre obiettivi, il cardinale sviluppa il terzo.

    NUOVO MONDO

    Del quadro internazionale, egli dà una lettura tutt’altro che condivisa, sia alla base che ai vertici della Chiesa. All’opposto di chi ha una visione statica del mondo, padroneggiabile con gli attuali strumenti di diritto internazionale, Ruini crede che si è invece aperta un’epoca che pone nuovissime sfide a tutti: un’epoca «nella quale gli assetti mondiali appaiono destinati a subire straordinari rivolgimenti, forse ancora più profondi di quelli che hanno segnato il secolo XX».

    E quindi a queste sfide inedite le nazioni e gli organismi internazionali devono rispondere in forme anch’esse nuove.

    ONU

    Per le Nazioni Unite, il cui «deterioramento» ritiene innegabile, Ruini auspica un deciso rifacimento: «nuovi sviluppi che – senza mortificare le peculiarità di ogni singola nazione – rendano questa organizzazione meglio idonea ad affrontare con concreta efficacia e sicura autorevolezza le sfide della nuova epoca».

    Con la formula «concreta efficacia e sicura autorevolezza» il cardinale allude all’esigenza di coniugare diritto e forza, decisioni e sanzioni: tutto l'opposto di quello che anche autorevoli dirigenti vaticani sembrano sostenere, ogni volta che rivendicano la forza del diritto "contro" il diritto della forza.

    OCCIDENTE

    Circa i rapporti tra Europa e America, Ruini sostiene che ogni contrapposizione tra le due sponde dell’Atlantico non ha alcuna ragione d’essere. Anzi: «i motivi di solidarietà che legano tra loro le nazioni dell'Occidente conservano la loro profonda validità anche dopo che è venuta meno la minaccia della ‘guerra fredda’, affondando le proprie radici in un patrimonio di valori che rimane comune, pur nelle innegabili differenze, e trovando nuove ragioni nei grandi cambiamenti che si profilano sull'orizzonte mondiale e che richiederanno risposte costruttive e solidali dall'Occidente».

    Dell’antiamericanismo il cardinale non fa parola. Ma inequivocalmente lo sconfessa.

    EUROPA

    Quanto all’Europa, il cardinale richiama le nazioni del Vecchio Continente al dovere di ricavare dalle attuali loro divisioni «una lucida e sincera consapevolezza della necessità di superare le logiche particolaristiche, per dotare invece l'Unione Europea degli strumenti idonei ad esprimersi con una voce comune sulla scena del mondo».

    Non trapela da queste sue parole nessuna simpatia per la politica internazionale della Francia. Né tantomeno per il “partito francese” attivo in Vaticano, del quale si sono fatti espressione, in queste settimane, il ministro degli esteri Jean Louis Tauran, il cardinale Roger Etchegaray e l’arcivescovo Renato Martino.

    MEDIO ORIENTE

    Infine il dopoguerra. Ruini richiama l’attenzione sugli sviluppi positivi che la rimozione del regime di Saddam Hussein potrebbe avviare in Terra Santa e nei paesi islamici.

    Della Terra Santa dice che «fa parte del medesimo contesto di crisi, ed anzi è la fonte forse principale di quegli odii e contrapposizioni che rendono tanto temibili gli scenari di uno scontro di civiltà».

    Mentre con i paesi islamici sollecita a «stabilire nuovi e costruttivi rapporti, per aiutare lo sviluppo dei popoli più poveri e per favorire, in maniera pacifica ma non per questo meno stringente e concreta, i processi di democratizzazione nelle nazioni ancora oppresse da talvolta feroci dittature».

    Si coglie un’affinità, in queste prospettive, con il programma di diffusione della libertà e della democrazia enunciato nella dottrina dell’attuale amministrazione americana.
    " http://213.92.16.98/ESW_articolo/0,2393,41154,00.html

    Saluti liberali
    __________

  4. #4
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    da www.avvenire.it

    " Indulgenze agghiaccianti sugli slogan della manifestazione

    Parole, soprattutto parole Ma incredibilmente feroci


    Marco Tarquinio

    Sono state soprattutto le parole a scandire con violenza le colorate e largamente pacifiche manifestazioni che - attraverso una capitale semideserta e intelligentemente presidiata dalle forze dell'ordine - hanno dato sostanza al «4 giugno anti-Bush» indetto da un nutrito gruppo di sigle dell'opposizione politica e del movimentismo antagonista. Davvero un male minore, se si considerano i timori della vigilia alimentati dai minacciosi annunci che - non sempre a volto scoperto e non solo con accenti pacifici - erano stati fatti da alcuni autoproclamati portavoce della galassia no-global e ultra-pacifista.
    Ma comunque un male che ha inquinato seriamente il «mare di gente» - decine e decine di migliaia di persone - che ieri aveva invaso vie e piazze del centro storico capitolino (agitandosi a più riprese per spingere ai margini coloro che, organizzati in gruppi numerosi e aggressivi, cercavano tenacemente lo scontro con poliziotti e carabinieri) e che aveva rumoreggiato a lungo ai bordi della visita ufficiale dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America, la grande democrazia che 60 anni fa contribuì più di ogni altra alla liberazione di Roma dai nazisti.
    Parole, soprattutto parole. Ma incredibilmente feroci. Pesanti e dure come pietre. «Dieci, cento, mille Nasiriyah!» hanno gridato in faccia ai carabinieri gruppi di manifestanti a volto coperto. Più o meno gli stessi che avevano già inscenato, con razzi e fumogeni, il "bombardamento" della scuola dell'Aeronautica militare. Più o meno gli stessi che più tardi (alla fine, per fortuna, inutilmente) hanno cercato di trasformare prima Via Cavour e Piazza Venezia e poi il Circo Massimo in teatro di aspre battaglie. E quel ripugnante slogan d'odio, quel terribile inno alla strage dei militari italiani in missione in Iraq ha finito per gettare sulla protesta anti-Bush più sangue di quanto fosse possibile immaginare, e sopportare.
    Raramente, infatti, abbiamo assistito a un'indignazione tanto vasta. A una condan na così condivisa, lucida e veemente di quell'invettiva atroce e della tragica cultura ideologica di cui è figlia, la stessa che - in anni bui e non così lontani - induceva nelle medesime piazze altri manifestanti a sentenziare che «ammazzare un "nemico del popolo" non è reato». Concetti ed esaltazioni rispetto ai quali la nostra vicenda nazionale ci ha insegnato che non si può essere in alcun modo ammiccanti e indulgenti. Mai, neanche per un momento.
    Eppure, ieri, in un coro pressoché unanime le stecche non sono mancate. Sconcertante quella di Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione comunista, deciso a snobbare la drammatica provocazione dei "duri" come una «pagliuzza» al cospetto della «trave» della mobilitazione di massa contro il capo della Casa Bianca. Stupefacente quella di Achille Occhetto, politico di lunghissima esperienza, che non ha esitato a definire «raccapricciante» lo slogan contro i carabinieri salvo poi dichiarare che sono gli «infiltrati mandati dal governo» a funestare le pacifiche manifestazioni di piazza.
    Peccato. Crediamo che, oggi come ieri e come sempre, sia profondamente sbagliato e assai rischioso non fare i conti con quello che viene predicato in privato e gridato nelle piazze dai portabandiera nostrani dell'anti-occidentalismo e con ciò che in effetti accade sotto agli occhi di tutti.
    Che sia semplicemente inconcepibile rifiutarsi di cogliere gli echi allarmanti scatenati da alcune ripetute e inquietanti coincidenze in questi giorni di tesa campagna elettorale. Che sia da stolti fingere di ignorare le pubbliche, assonanti, risposte che in piazza come sulle pagine dei giornali da qui arrivano ai terroristi iracheni (e magari non solo iracheni) che tengono ancora in pugno tre nostri connazionali e che periodicamente chiedono e danno "segnali" al nostro Paese. La pace si costruisce sempre a occhi aperti.
    "

    Saluti liberali

  5. #5
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    Sì un capolavoro di sciovinismo, come sempre. L'Europeismo della Francia è proporzionale alla sua volontà di egemonia.

    Shalom

  6. #6
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    In origine postato da Pieffebi
    Sì un capolavoro di sciovinismo, come sempre. L'Europeismo della Francia è proporzionale alla sua volontà di egemonia.

    Shalom
    Bisognerebbe avvertire di questo "l'amico George"...

    Bush da Chirac apre all’Europa anti-guerra

    DALL'INVIATO PARIGI Cordialità e gentilezze, rimandi storici e impegni futuri, strette di mano (tre al solo momento dell'arrivo dell'ospite all'Eliseo) e larghi sorrisi, ma che fatica mettere il coperchio, in mezz'ora di conferenza stampa comune, su di un anno passato su fronti diversi, a volte opposti, ad esibirsi reciprocamente abissali diversità di approccio, di analisi, di politiche. George W. Bush è venuto ieri a Parigi con un obiettivo assai preciso: rimettersi in tasca la filosofia unilateralista, dopo averla utilizzata per dare l'assalto all'Iraq.
    Cedere all'improrogabile necessità di condividere con altri, che non siano dei semplici signorsì, il percorso politico dell'uscita dalla crisi. Ritrovare amici antichi e non servili in quell'Europa che la sua amministrazione, solo un anno fa, liquidava come «vecchia» e superata. Quale occasione migliore di questo inizio di giugno, sessantesimo anniversario dello sbarco in Normandia? Un ombrello protettore perfetto: Bush rappresenta l'America al massimo del suo splendore e della sua generosità, quella del '44. Arriva da storico vincitore, ma ha bisogno urgentissimo, oggi 2004, della «madre di tutte le risoluzioni», quella che in queste ore stanno mettendo a punto i membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu. E in quel Consiglio siedono la Francia e la Russia: Bush è ospite di Chirac, e oggi vedrà anche Putin, invitato - «in omaggio al ruolo giocato sul fronte est dall'Unione Sovietica nella lotta contro il nazismo» - alle cerimonie a Omaha Beach e Arromanches. Ed eccoli l'uno accanto all'altro, ieri sera all'Eliseo, l'uomo che partì lancia in resta contro Saddam e l'altro che gli disse no, è una pazzia. Gli disse anche che il terrorismo da quell'avventura avrebbe tratto linfa e giovamento, e che l'Europa sarebbe stata la prima a pagarne il prezzo. Gli disse varie cose che sono regolarmente accadute, come Madrid e Baghdad dimostrano.
    Faticosa ricucitura, dicevamo, malgrado i sorrisi. Oggi in Normandia Chirac ripeterà il «grazie» pronunciato ieri per quanto accadde nel '44, e non lo sfregerà certo con considerazioni sulla spinosa attualità. Non l'ha fatto neanche ieri sera, anche se ha tenuto a far emergere una certa diversità di linguaggio e di intenti. Se Bush ha ribadito l'obiettivo della «piena sovranità» da restituire all'Iraq - senza tuttavia fornire dettagli precisi sul ruolo, sullo statuto e sulla data del ritiro delle truppe occupanti - Chirac ha preferito accentuare il tratto politico dell'azione da intraprendere in Iraq: «Non sono tanto importanti i dettagli tecnici, quanto di fare in modo che il popolo iracheno abbia il sentimento di riscoprire la sua indipendenza e soprattutto la padronanza del suo destino». E ha aggiunto, riferendosi al negoziato in corso sulla risoluzione Onu: «Per questo dobbiamo stare molto attenti: che non vengano mandati segnali negativi, capaci di minare la fiducia». Per Bush l'Iraq è una maledetta trappola dalla quale uscire, ma anche Chirac cammina sulle uova: nel momento in cui ritiene gli americani unici responsabili, con i britannici, della sicurezza in quel paese, non può neanche salire in cattedra ad amministrare lezioni su come garantirla.
    Del passato hanno parlato poco. Bush ha dato atto ai francesi di «aver dato ottimi consigli: hanno annullato il debito iracheno nei loro confronti, collaborano per la risoluzione del Consiglio di sicurezza. Sì, sono molto riconoscente alla Francia». Chirac ha incassato il riconoscimento con un sorriso. Ma ha ricordato anche di non aver mai detto che in Iraq non ci fossero le armi di distruzione di massa: «Ho sempre detto a Bush che ero nell'incapacità di pronunciarmi sulla loro esistenza o meno». Sottinteso: nel dubbio, valeva meglio astenersi e continuare ad usare gli ispettori e la diplomazia. E a chi gli chiedeva se ritiene che l'Iraq stia meglio oggi di ieri, ha risposto così: «C'è un punto acquisito: Saddam Hussein non c'è più.
    Ma nel paese regna il disordine…e guardate che non siamo usciti dalle difficoltà, la situazione resta precaria». L'analisi, almeno in pubblico, resta diversa. Bush vede rosa: un percorso che di qui a un anno e mezzo porterà ad un Iraq sovrano e democratico. Chirac ha molti dubbi. In verità l'analisi non dev'essere così difforme, se ambedue lavorano per trovare un modo di uscirne. Vero è che in Francia quest'anno non ci sono elezioni presidenziali, negli Stati Uniti invece sì. E cosa pensa, signor presidente, del paragone fatto da Bush tra il '44 e il 2004, e dello stesso ruolo liberatorio che nelle due occasioni avrebbe svolto l'esercito statunitense? «Capisco bene quel che ha portato Bush a fare questo paragone, ma io credo che la storia non si ripeta». Bush ha sorriso, incassando in silenzio.
    La sacralità del D-Day resta tutta intera, e oggi se ne avrà la prova toccante con le sedici cerimonie che punteggeranno quei sessanta chilometri di spiaggia dove sbarcarono i liberatori. Bush parlerà per mezz'ora, e Chirac non sarà da meno. Si fa sapere che i discorsi saranno commemorativi, che non toccheranno certo un tema come l'Iraq. Ha detto ieri Bush: «La forza più profonda di ogni esercito sono i valori in nome dei quali ci si batte». Si riferiva ai GI del '44, ma ne applicava la filosofia ai ragazzi che ha mandato in Iraq. La divergenza di fondo con Chirac, Schröder, Putin rimane sottotraccia. Questi tre non credono che in Iraq siano stati portati «valori». Ma da pragmatici capi di Stato e di governo sanno di dover fare i conti con il principio di realtà, che oggi vede l'esercito americano laggiù con 150mila uomini e un Paese in fiamme. Non è difficile, per esempio, raccogliere i veri umori della diplomazia francese: per uscire dal ginepraio iracheno una buona risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu è importante, ma l'uscita di scena di George W. Bush nel prossimo novembre è fondamentale.
    Jacques Chirac rivendica un dialogo con Bush basato su «fiducia e sincerità». Ma l'altro, a chi gli ricordava come Kennedy considerasse che ciascuno avesse due patrie - la sua e la Francia - ha risposto secco secco: «Parafrasando Kennedy, potrei dire che anch'io ne ho due: gli Stati Uniti e il Texas». Che l'uomo sia un po' rustico si sa. Alla vigilia del suo arrivo in Francia Bush aveva concesso un'intervista a «Paris Match», nella quale a chi gli faceva notare che non aveva mai invitato nel suo ranch il presidente francese - contrariamente a Berlusconi o Aznar - aveva risposto che sì, che se lo desiderava poteva venire «a vedere un po' di vacche». Le vacche, in Francia lo sanno tutti, sono la passione di Chirac, che ogni anno compie il suo pellegrinaggio al Salone dell'Agricoltura e ne palpeggia i migliori esemplari. Ma è lecito dubitare che Bush lo sappia, e che quindi abbia voluto fare dello spirito. Per dire che tra i due, Iraq a parte, sarà difficile che nasca una solida amicizia.
    Gianni Marsilli

    (dal quotidiano libero e ghettizzato: L'Unità, 06 giugno 2004)

  7. #7
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    dal sito di IDEAZIONE

    " Pacifismo, il trionfo della Moralpolitik
    di Luciano Priori Friggi

    I venti di guerra che spirano di nuovo in questo inizio di secolo, dall'Afghanistan all'Irak, impongono una riflessione sul tema della pace. L'argomento è complesso da trattare in quanto se si facesse un sondaggio in cui si chiedesse tout court se si è favorevoli o contrari alla guerra avremmo un 99,9% di contrari, ma se si chiedesse se si è favorevoli o contrari a una delle guerre che si sono combattute in passato o che, forse, sono da combattere in futuro le proporzioni cambierebbero radicalmente. Anche nell'antichità l'argomento fu al centro della riflessione di filosofi e storici. La pax romana viveva su un preciso presupposto. Ce lo ricorda Tito Livio quando afferma “Ostendite modo bellum pacem habebitis” (mostrate di essere pronti alla guerra e avrete la pace). C'è nell'antichità la convinzione che di fronte ad un atteggiamento remissivo la guerra sia ineluttabile e che in alcuni casi questa può essere evitata solamente mostrando di non avere meno forze e determinazione dell'avversario.

    Nell'ultimo secolo si sono sviluppati orientamenti che hanno cercato di impostare il problema della pace e della guerra in modo diverso. In particolare ciò è avvenuto per merito del socialismo riformista. La migliore esemplificazione di questo punto di vista ce l'ha data Filippo Turati quando, in un discorso parlamentare del 1909, ebbe ad affermare "il famoso si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara [gli armamenti per] la guerra, n.d.r.) non è che un giuoco di parole da oracolo di Delfo. Torniamo signori al senso comune che dice si vis pacem para pacem". Apparentemente le posizioni del pacifismo odierno sono assimilabili a quelle turatiane, in realtà la faccenda è più complessa. E' proprio sugli obiettivi che si creano delle differenze.

    Un primo filone del pacifismo è contro la guerra sempre e ovunque. E' un pacifismo pre-politico che prescinde dall'evoluzione concreta delle società e si appella continuamente ai popoli contro i loro governanti, unici responsabili, secondo questo modo di vedere, del precipitare della dialettica politica nello scontro militare. A costoro si addice molto bene la definizione di Spinoza "la pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d'animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia". Questi pacifisti sono in genere l'inconsapevole massa di manovra di un tipo di pacifismo ben diverso e che è poi quello che gestisce la protesta e ne capitalizza in termini di consenso politico i risultati di mobilitazione. Potremmo definire quest'ultima tendenza pacifismo a senso unico.

    Le argomentazioni che provengono da questa parte nascono tutte da una premessa di tipo sociale: "Le guerre sono il frutto della disuguaglianza economica tra i popoli", quindi per evitarle bisogna eliminarne la causa. In realtà con questa impostazione si possono commettere le più nefande attività contro la pace. La premessa finisce infatti per giustificare qualsiasi regime e qualsiasi azione contro il "ricco e opulento occidente", per comodità identificato con Stati Uniti e (a fatica, perché è bene non avvicinarsi troppo geograficamente) con la Gran Bretagna. Si finisce persino per giustificare regimi come Cuba, dove un dittatorello sudamericano da più di quarant'anni si è impossessato dell'isoletta, vorrebbe che alla sua morte il potere passasse al fratello, impedisce ai suoi concittadini persino di aprire un bar, li fa vivere in condizioni miserevoli e poi li costringe a subire i suoi discorsi sotto un sole cocente per sette/dieci ore per spiegargli che la colpa è degli Stati Uniti. I più giovani forse non lo sanno, ma questo campione dell'antimperialismo appena preso il potere chiamò i sovietici e gli fece installare dei missili nucleari, puntandoli contro l'America, con ciò riuscendo quasi a far scatenare uno scontro armato tra le uniche due superpotenze di allora, dagli esiti facilmente intuibili.

    Ma questo tipo di pacifismo finisce per giustificare anche regimi di estrema destra. Ancora una volta per i più giovani vogliamo ricordare quanto successe alla vigilia della seconda guerra mondiale. Quando Hitler decise di mostrare chiaramente i suoi intenti aggressivi verso il resto d'Europa, per coprirsi le spalle, fece un accordo di spartizione della Polonia con l'Urss di Stalin (nota 1). Cosa che poi avvenne di comune accordo (i due eserciti si ricongiusero il 19 settembre 1939 a Brest-Litovsk). Questa fu la causa e l'inizio della seconda guerra mondiale. Forse è bene che i giovani sappiano anche questo: in Europa il proletariato, come allora si diceva, fu mobilitato per la pace e contro la guerra, in appoggio alla patria del socialismo e contro l'imperialismo dei paesi democratici.

    Il pacifismo a senso unico è pericoloso perché usa argomentazioni capziose scambiando le cause con gli effetti . In questo modo si finisce per individuare il nemico da combattere nella democrazia, in particolare laddove ha raggiunto il più alto grado di realizzazione (permettendo quindi di raggiungere anche il più alto livello di vita). Con buona pace di Turati non si vede, purtroppo, all'orizzonte una via diversa da quella ipotizzata da Aristotele nell'Etica nicomachea (e che è alla base di tutte le affermazioni simili successive): "Facciamo la guerra per poter vivere in pace". La riflessione (la guerra come ultima chance) veniva dal profondo della civiltà greca, dunque meditata e non certamente estemporanea. E quella civiltà è il fondamento della democrazia occidentale, al centro oggi del più terrificante attacco degli ultimi secoli (l'obiettivo ultimo è la distruzione dell'intera civiltà occidentale). Non ci sono alternative: oggi, con l'esplodere del terrorismo, bisognerà arrivare al disarmo di tutte le nazioni potenzialmente pericolose per la pace. Se ci sarà guerra o no dipenderà dall'atteggiamento di queste ultime e da nessun'altro.

    11 ottobre 2002
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    Saluti liberali

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    Il Pacifismo sta diventando una moda...

    I Pacifisti scendono in campo solo contro gli Americani

    Pacifismo Ideologico e Guerre per il Petrolio sono la diversa faccia della stessa medaglia...

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    Predefinito Dal quotidiano libero ancorchè ostracizzato l'Unità

    In origine postato da peppe
    Il Pacifismo sta diventando una moda...

    I Pacifisti scendono in campo solo contro gli Americani

    Pacifismo Ideologico e Guerre per il Petrolio sono la diversa faccia della stessa medaglia...
    La Commedia Del Petrolio
    MAURIZIO CHIERICI

    Una recita in mondovisione. Dalle spiagge della Normandia è in andato in onda il feuilleton del nuovo secolo. Come le trame impongono a questo tipo di storie, protagonisti lontani si incontrano «per caso» (60 anni non è un appuntamento consacrato nei canoni della memoria storica) ricordando; soprattutto progettando un futuro che arriva al prossimo novembre. Rimpatriata patriottica per pianificare le strategie della battaglia in corso. Coinvolge marginalmente la pace in Iraq, ma riguarda il D-Day delle elezioni americane e una campagna cinese che brontola ai confini degli imperi: ormai comincia a inquietare. Sbarazzandosi del legalismo degli uomini di buona volontà, Washington ha programmato l’invasione come prima tappa necessaria all’isolamento di Pechino dalle risorse energetiche.
    Un modo per fermare il rullo compressore lanciato alla conquista dei nostri mercati. Guerra del petrolio, ma non solo iracheno: dall'Arabia Saudita al Kazakistan (17,2 miliardi di barili, riserve finora accertate) la rete degli oleodotti è destinata ad attraversare l'Asia Centrale, sprofondare nel Caspio per portare sul Mar Nero e nel Mediterraneo l'ottimismo necessario a consorzi che preferiscono chiamarsi sorelle. Non intendono abdicare ai monopoli del passato. Nella catena del Pamir, la Cina ha già scavato gallerie pronte ad accogliere pipes lines attese invano dal Kazakistan. Non arrivano mai. Ma se il flusso scorre verso Europa e penisola arabica, tranquillizzata o da tranquillizzare, all'improvviso i soci del consorzio ritrovano l'accordo. Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Russia non possono fare i pignoli sui codicilli di una risoluzione Onu (terza, quarta che sia) quando la posta in gioco coinvolge i loro interessi vitali. Con i suoi oleodotti gruviera, Mosca si aggrappa al consorzio diventando l'ultima grande sorella.
    Il secondo tempo della commedia contempla le possibilità che l'inquilino della Casa Bianca ha, o non ha, di rinnovare l'affitto il prossimo novembre. Se resta, la proposta Onu potrebbe diventare carta straccia. La sua improvvisa conversione alla moderazione è il colpo di scena che allarma gli spettatori. Quante volte Bush, padre e figlio, e il povero Reagan hanno cestinato promesse giurate con la stessa solennità? Senza contare che Allawi, nuovo capo del governo di Bagdad e disciplinato collaboratore Cia, comincia a mescolare le parole. E la svolta annunciata ne precisa le novità. Propone di cambiare l'espressione «forza di occupazione» in «cooperazione completa». Bisogna riconoscere che l'idea era venuta prima a Berlusconi con le «missioni di pace». Insomma, la coalizione militare che controlla l'Iraq può vegliare sugli oleodotti sotto altra etichetta. Non importa attentati, morti, caos. L'ambasciatore Negroponte dal primo luglio dialogherà col governo provvisorio: è il garante della trasparenza. Diplomatico dal pedigree glorioso, dall'Honduras a Panama si è distinto nel coprire operazioni sporche che disonorano chi esporta la democrazia nel mondo.
    Il terzo tempo resta sospeso. Paesi fedeli all'Occidente silenziosamente sprofondano attorno all'Iraq. Egitto ed Arabia Saudita traballano sulla soglia di una crisi sociale che li può travolgere mettendo fuori controllo le rabbie del mondo arabo. Due catastrofi covano silenziose nei regni del petrolio e della cultura che nutre più di un miliardo di persone: possibile che i signori riuniti in Normandia non se ne siano accorti ?
    Da lontano l'Arabia Saudita sembra un paese normale, «sia pure islamico», come ha ripetuto allegramente Berlusconi, due anni fa, gaffe di debutto sul set internazionale. Da lontano è un'enorme pozzo di petrolio con attorno la Mecca, un sovrano, quattromila principi, popolazione opaca e benestante: 22 milioni di abitanti. Città che si allargano ogni mese, palazzi vetro cemento, marmi italiani sparsi nei giardini il cui verde sopravvive grazie all'acqua di mare desalinizzata. Un litro d'acqua costa più o meno come un litro di whisky. Finito il petrolio torna il deserto. Malgrado aria condizionata e pancia piena, quattro milioni di persone non sanno leggere e scrivere. Chi guarda l'Arabia da vicino ha idee spaventosamente precise. Nel suo libro «A letto col diavolo», l'americano Baer, guru della Cia, vagabondo nei deserti del petrolio sulle orme ambigue del colonnello Lawrence d'Arabia, incolpa gli Stati Uniti di un errore madornale: l'aver scelto Riad come campo base dell'influenza programmata nella penisola dell'oro nero. «È un paese corrotto, degradato e sul punto di marcire anche se produce 7 milioni di barili di greggio al giorno. Quando vi deciderete?».
    Il libro è uscito quattro anni fa. Nel frattempo la situazione è precipitata. Non solo il terrore di Bin Laden, saudita eretico, o il disastro iracheno: è la struttura sgretolata del potere medioevale col quale governa la famiglia regnante a far tremare il futuro prossimo. Re Fahd ha 83 anni, malato, memoria che va e viene ed un corpo stremato da impedimenti talmente umilianti da impedirgli di bagnarsi nelle piscine del parco. Gli arabi considerano l'acqua benedizione di Dio e dovervi rinunciare diventa l'anticamera dell'inferno. Per evitare faide familiari, ha già stabilito chi prenderà il suo posto riconfermando la Legge Basica dettata sessant'anni prima da Feisal Al Saud, che era l'iman degli integralisti wahabiti ed ha riunito le tribù in un solo paese battezzandolo col proprio nome. Monarchi saranno per sempre i suoi discendenti diretti: dei 42 figli, 25 sono vivi e re Fahd è il primogenito in bilico con l'al di là. Successore, il fratello Abdallah che informalmente ha già in mano le redini del regno, ma non può essere considerato giovane promessa: 81 anni e vocazione che tentenna tra la tolleranza verso l'integralismo e la fedeltà a Washington. Non parla inglese, solo l'arabo, malgrado soggiorni dorati a Marbella e lunghi passaggi nella banche di Ginevra. Sultan, altro fratello è in seconda fila: ministro della difesa e antagonista feroce di Abdallah. Mantengono i contatti indispensabili alla macchina dello stato attraverso funzionari-ambasciatori. Poi toccherà a Nayef, ministro degli interni: solo 69 anni. Salman, governatore di Riad, è il bambino che guarda al futuro, 66 e una certa reputazione: incorruttibile, stakanovista nel lavoro, amico degli americani. Per il momento, ultimo nella lista d'attesa, resta Saud, figlio del Feisal assassinato. Scarsa influenza, ma buona considerazione da parte degli Stati Uniti.
    Alle spalle dei prediletti il Consiglio di Famiglia: quattromila principi che scalpitano, si dividono, tramano e vengono repressi in silenzio, senza suscitare scandali. Solo uno di loro ha rotto l'omertà regale telefonando alla Bbc. Il principe Sultan Bin Turki stava incontrando gente strana a Ginevra, quando agenti di Riad lo hanno sequestrato e drogato tenendolo prigioniero fino a che un aereo arrivato da Gedda lo ha portato via.
    Se questa è l'incertezza interna alla Famiglia, la realtà di banchieri, tecnici del petrolio, uomini d'affari, insomma, lobby dei grandi borghesi, è ancora più complessa. I figli studiano a Londra o negli Stati Uniti e quando tornano non sopportano che ogni decisione sia ancora in mano al consiglio reale e agli ulema ultra ortodossi, signori della Commissione per la Promozione della Virtù e Prevenzione del Vizio le cui regole incatenano la vita sociale e plasmano in modo grottesco l'immagine di un popolo. Quelli di Gedda, radici antagoniste al credo wahabita del regno, non lo sopportano. Capolavoro degli ulema l'aggiramento della costituzione faticosamente addolcita dalle pressioni Onu. Tornano pena di morte, fustigazioni e lunghe detenzioni per disobbedienze veniali alla legge coranica. 69 pubbliche decapitazioni lo scorso anno: delitti, droga, omosessualità «aggravata». Tagli di mano e flagellazioni, sempre nelle piazze. «Contro la famiglia reale si può brontolare grazie alla divisione che ne inquina la compattezza, ma i rimproveri agli ulema sono pericolosi». Parole di un professore scita che insegna all'università e non sopporta la ghettizzazione della minoranza alla quale appartiene: seicentomila persone trattate come emigranti svuotati da ogni diritto e oppressi da tutti i doveri.
    Gli stranieri sono l'altro problema dell'Arabia Saudita. Non solo i due milioni di pellegrini, sempre più integralisti, che ogni anno passano per la Mecca alla fine del Ramadam, costretti in labirinti blindati per isolarli dalla popolazione; ma la gente qualsiasi alla quale si chiede di far funzionare le piccole Manhattam.
    Quando lascio l'albergo di Gedda, per il ritorno, un facchino del Bangladesh raccoglie le valige. Gli impiegai del bureau sono malesi, il taxista yemenita, algerine le mani che controllano il biglietto, nello schermo che fa i raggi X ai bagagli, sta guardando un palestinese, l'ultimo check lo firma un egiziano, lo steward della compagnia saudita parla il francese del Libano, hostess olandese, piloti inglesi. In fondo alla pista un plotone di muratori sudcoreani sta aggiustando la torre di controllo. Militari pakistani garantiscono le frontiere, Awacs con tecnici americani vegliano sulla penisola proteggendo anche Israele. Palestinesi, turchi ed egiziani sono le colonne portanti di ogni ospedale, cantiere, organizzazioni commerciali. Inglesi ovunque nei campi del petrolio. Dietro le scrivanie dei piani alti, solo americani. Nessuno può vantare qualche diritto e i diritti restano ridotti al minimo anche per chi ha il passaporto di re Fahd. I cittadini normali hanno votato l'anno scorso per la prima volta nella loro vita dopo polemiche feroci tra principi riformisti e ulema. Ma hanno votato solo per scegliere qualche consigliere locale come succede in Germania ai lavoratori stranieri.
    Sull'immobilità di una monarchia proprietaria assoluta di tutto il petrolio e di ogni grano di sabbia, scoppiano le minacce del terrorismo del primo e di chissà quanti Bin Laden esclusi dai privilegi e ossessionati dalla rivincita: contro la famiglia regnante e i protettori Usa. I quali hanno trasferito nel Qatar la base aerea più importante del Medio Oriente, ma non se ne sono andati dalle zone strategiche, soprattutto dalla Principe Sultan dotata di tecnologie militari segrete. Si riaffaccia l'ambiguità di un potere assoluto eppure ormai disarmato da corruzione e furbizie beduine. L'Arabia Saudita non ha concesso gli aeroporti per bombardare l'Iraq, ma ha lasciato che caccia e missili venissero guidati dal Centro Coordinato di Strategia Aerea potenziato nei recinti di Principe Sultan «simbolo della collaborazione tra due paesi amici». Arabia Saudita che condanna il terrorismo, ma ha gonfiato negli anni, centinaia di milioni di dollari, l'interalismo algerino e versa ogni anno ad Hamas 10 milioni di dollari (ridotti a 5 per pressione americana), attraverso una fondazione di carità. Lungo l'elenco dell'equilibrismo di chi si lava le mani. E i sospetti arrivano alle cassaforti di Bin Laden. Pasticci che le prospettive confuse sul futuro del petrolio della regione possono trasformare in tragedia adesso che il caos dell'Iraq sta bruciando la porta di casa. Nelle pieghe degli attentati che perseguitano gli stranieri spuntano sempre complicità della polizia. Fino a quando i diecimila uomini della guardia reale, beduini delle tribù fedeli, riusciranno a proteggere i monarchi e a tener unito un regno artificiale? Esistono progetti segreti per disgregarlo. Ad ogni tribù i suoi pozzi. Tanti emirati come nel Golfo. Corti e intrighi che complicano le strade del petrolio.
    Davvero il presidente Bush improvvisamente pacifista, e i suoi Cheney, Rumsfeld, Condoleeza Rice rifaranno le valige appena il governo di Bagdad avvertirà «per favore tornate a casa»? Se ne andranno con la convinzione che l'Arabia Saudita sia la sponda in grado di contenere l'Iran, forza del male, e sorvegliare Bagdad, mai pacificata?
    Senza contare che l'anno prossimo si vota in Egitto il cui regime non è meno pesante di quello di Saddam Hussein, sia pure non appariscente e cruento. Sotto le forme non si scava quasi mai e all'immaginario europeo arriva una democrazia povera, fedele alle istituzioni: quietamente si arrangia col turismo, piramidi e subacquei nel mar Rosso.
    Invece Murabark pratica da ventitre anni la repressione preventiva. Si è sempre presentato come candidato unico controllando scientificamente ogni voto. Consensi bulgari. Finora è stato facile con economia e media nelle mani del suo governo: rete che copre ogni dissenso. Gli incontri di pace di Camp David gli assicurano due miliardi di dollari l'anno e la cancellazione del debito lunare accumulato con gli Usa.
    Fedeltà occidentale preziosa all'altra sponda del Mediterraneo, ma sgradita ai paesi arabi. Non guardano più al Cairo come guida e difensore della loro cultura. Al Azar, l'università islamica dove dalla geografia alla matematica distribuiscono ogni scienza partendo dal Corano, ha smesso di essere il laboratorio dove accorrono gli studenti della galassia araba. E per frenare le proteste degli studenti egiziani, spina nel fianco del regime, Mubarak rovescia le tecniche di ogni altra parte del mondo. Non fa entrare le polizie negli atenei, ma negli atenei inquieti per settimane imprigiona i ragazzi in rivolta con l'assedio delle polizie: chiusi dentro, possono uscire quando lo decide il ministro, non importa se protestano contro una legge o un massacro di palestinesi.
    I cortei degli anni di Nasser e Sadat sono quasi spariti. Tutti al lavoro per consolare una vita difficile. Paghe da fame, la gente si arrangia. E il regime si distrae nel contenimento della crescita demografica che Onu e Organizzazione mondiale della Sanità raccomandano. Il boom delle crescite garantisce la quiete politica. Chi ha otto figli da sfamare e quindici dollari al mese pensa al pane, meno alla rivoluzione. Giornali e Tv non raccontano né miserie, né rivolte: lo si viene a sapere da una voce all'altra. Quanto può resistere un presidente ormai vicino agli 80 anni? Lo si capirà fra pochi mesi. Se una costola moderata dei Fratelli Mussulmani avrà il permesso di presentarsi alle elezioni, qualcosa può cambiare. È la sola speranza che il far finta di niente dell'Occidente ha loro lasciato. Cambiare, come? Difficile dirlo, ma è sicuro che l'integralismo che anima di nascosto milioni di egiziani comincia a trasformare l'atmosfera del paese. Con queste spade di Damocle, dopo la guerra che ha precipitando i bilanci di Washington nel rosso più profondo della storia americana, davvero un Bush sorridente rinuncerà al petrolio ordinando «Iraq democratico, pace fatta: tutti a casa»? In mondovisione gli ospiti della vecchia Europa hanno finto di esserne convinti. Berlusconi lo è sempre stato.

 

 

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