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    GIOVANNI PAOLO II

    VISITA PASTORALE A PADOVA

    SANTA MESSA NELLA BASILICA DI SANT'ANTONIO

    OMELIA


    Padova, 12 settembre 1982

    Amati confratelli della Comunità Francescana,
    e voi tutti, carissimi fratelli e sorelle.

    1. Considero una speciale grazia del Signore il poter unire quest’oggi le mie alle vostre preghiere, a chiusura ideale delle solenni celebrazioni promosse nello scorso anno, per il 750° anniversario della morte di sant’Antonio. Vorrei riferirmi subito a quella nota peculiare che si presenta come costante nella vicenda biografica di questo Santo, e che chiaramente lo distingue nel panorama pur tanto vasto e pressoché interminato della santità cristiana. Antonio - voi ben lo sapete - in tutto l’arco della sua esistenza terrena fu un uomo evangelico; e se come tale noi lo onoriamo è perché crediamo che in lui si è posato con particolare effusione lo Spirito stesso del Signore, arricchendolo dei suoi mirabili doni e sospingendolo “dall’interno” ad intraprendere un’azione che, notevolissima nei quarant’anni di vita, lungi dall’essersi esaurita nel tempo, continua, vigorosa e provvidenziale, anche ai nostri giorni.

    Nel rivolgere il mio affettuoso saluto a quanti siete ora raccolti intorno all’altare, io vi invito innanzitutto a meditare proprio sulla nota dell’evangelicità, la quale costituisce anche la ragione per cui Antonio è proclamato “il Santo”.

    Senza fare esclusioni o preferenze, è un segno, questo, che in lui la santità ha raggiunto vette di eccezionale altezza, imponendosi a tutti con la forza degli esempi e conferendo al suo culto la massima espansione nel mondo. In effetti, è difficile trovare una città o un paese dell’orbe cattolico, dove non ci sia per lo meno un altare o una immagine del Santo: la sua serena effigie illumina di un soave sorriso milioni di case cristiane, nelle quali la fede alimenta, per mezzo suo, la speranza nella Provvidenza del Padre celeste. I credenti, soprattutto i più umili e indifesi, lo considerano e sentono come il loro Santo: pronto sempre e potente intercessore in loro favore.

    2. “Exsulta, Lusitania felix; o felix Padua, gaude”, ripeterò col mio predecessore Pio XII (cf. AAS 38 [1946] 200): esulta, nobile terra del Portogallo, che nella schiera numerosa dei tuoi grandi missionari francescani hai come capofila questo tuo figlio. E rallegrati tu, Padova: alle glorie della tua origine romana, anzi preromana, ai fasti della tua storia a fianco della vicina ed amica Venezia, tu aggiungi il titolo nobilissimo di custodire, col suo sepolcro glorioso, la memoria viva e palpitante di sant’Antonio. Da te, infatti, il suo nome si è diffuso e risuona tuttora nel mondo per quella nota peculiare, già da me ricordata: la genuinità del suo profilo evangelico.

    Un vasto ambito, in cui si espresse al meglio tale evangelicità di sant’Antonio, fu senza dubbio quello della sacra predicazione. Qui appunto, nell’annuncio sapiente e coraggioso della Parola di Dio troviamo uno dei tratti salienti della sua personalità: fu l’attività indefessa di predicatore, accanto ai suoi scritti, che egli ha meritato l’appellativo di “Doctor Evangelicus” (cf. Ivi. 201).

    “Passava - annota il biografo - per città e castelli, villaggi e campagne, dovunque spargendo i semi della vita con generosa abbondanza e con fervente passione. In questo suo peregrinare, rifiutandosi ogni riposo per lo zelo delle anime . . .” (Vita prima o Assidua, 9, 3-4).

    Non era la sua predicazione declamatoria, o limitata a vaghe esortazioni a condurre una vita buona; egli intendeva annunciare veramente il Vangelo, ben sapendo che le parole di Cristo non erano come le altre parole, ma possedevano una forza che penetrava gli ascoltatori. Per lunghi anni si era dedicato allo studio delle Scritture, e proprio questa preparazione gli consentiva di annunciare al popolo il messaggio di salvezza con eccezionale vigore. I suoi discorsi pieni di fuoco piacevano alla gente, che sentiva un intimo bisogno di ascoltarlo e non riusciva, poi, a sottrarsi alla forza spirituale delle sue parole.

    Si può dire, pertanto, che allo stile evangelico, proprio del discepolo pellegrinante di città in città per annunciare la conversione e la penitenza, corrispondeva il contenuto evangelico: formato allo studio della Scrittura che al Pontefice Gregorio IX aveva suggerito per lui l’epiteto di “arca del Testamento”, era soprattutto la pura dottrina di Gesù Cristo che egli riproponeva nel predicare agli uomini del suo tempo.

    3. Al ministero della parola Antonio seppe congiungere, esplicandovi altrettanto zelo, l’amministrazione del sacramento della Penitenza. Grande sul pulpito, egli non fu meno grande all’ombra del confessionale, coordinando quanto per logica soprannaturale deve essere e rimanere congiunto. Predicazione e ministero della confessione, infatti, si collocano come due momenti di un’attività pastorale che mira in fondo al medesimo scopo: il predicatore prima semina la parola di verità, avvalorandola con la sua personale testimonianza e con la preghiera; ed egli stesso ne raccoglie poi i frutti come confessore, allorché riceve le anime sinceramente pentite e le offre, per il perdono e la vita, al Padre delle misericordie.

    Facile e naturale era per Antonio il passaggio dall’uno all’altro ministero: già predicando egli parlava spesso della confessione, come confermano i suoi “Sermoni”, dove sono rare le pagine che non ne contengono qualche cenno. Ma non si limitava ad esaltare le “virtù” della penitenza, né soltanto raccomandava di frequentarla ai suoi ascoltatori. Attuando personalmente le sue parole ed esortazioni, era molto assiduo ad amministrare il Sacramento. Vi erano giorni in cui Antonio confessava senza interruzione fino al tramonto, senza prender cibo. Sappiamo, inoltre, che “egli induceva a confessare i peccati una moltitudine così grande di uomini e di donne, da non esser bastanti ad udirli né i frati, né altri sacerdoti che in non piccola schiera lo accompagnavano” (cf. Vita Prima o Assidua, 13, 13).

    Davvero per lui, secondo le sue stesse parole, “casa di Dio” e “porta del paradiso” era la confessione in una visione di fede così viva, che all’aspetto sacramentale e canonico (tanto approfondito dalla teologia medievale) imponeva come culmine l’incontro affettuoso col Padre celeste e l’esperienza confortante del suo generoso perdono.

    Nella luce di Antonio ministro del sacramento della Penitenza, come non ricordare in questa città di Padova un altro religioso della famiglia francescana, il beato Leopoldo Mandic da Castelnuovo, l’umile e silenzioso cappuccino che, nella riservatezza della sua cella del convento di Santa Croce, fu per decenni ministro della confessione, infondendo col sacramento del perdono pace e serenità a innumerevoli persone di ogni età e condizione?

    4. Sono esempi preclari quelli di cui sto parlando, carissimi fratelli e sorelle, che mi ascoltate. Ma trovandomi nel Tempio che da Antonio si nomina, permettete che, prima che ai Laici, io mi rivolga soprattutto a voi, religiosi, che qui attendete a questi sacri ministeri “ex officio”, ed anche a voi, sacerdoti diocesani di Padova e del Veneto.

    Predicazione e Penitenza: ecco un grande binomio di pura matrice evangelica, il quale dalla pratica luminosa di Antonio anche a voi si ripropone, essendo pienamente valido ed urgente per i nostri giorni, pur tanto dissimili dai suoi. Cambiano i tempi; possono cambiare, e di fatto cambiano secondo le indicazioni sapienti della Chiesa, metodi e forme dell’azione pastorale: ma i principi fondamentali di essa e, soprattutto, l’ordinamento sacramentale restano immutati, come immutati restano la natura ed i problemi dell’uomo, creatura ch’è al vertice della creazione divina, eppur sempre esposta alla drammatica possibilità del peccato. Ciò vuol dire che anche all’uomo d’oggi urge annunciare, inalterato nel suo contenuto, il kerigma di salvezza (ecco la predicazione); anche all’uomo peccatore urge offrire oggi lo strumento-sacramento della Riconciliazione (ecco la penitenza). Insomma, resta tuttora necessaria l’attività di evangelizzazione nella duplice direzione dell’annuncio e dell’offerta di salvezza.

    Le celebrazioni antoniane, non saranno state soltanto una commemorazione, se in tutti voi sacerdoti, secolari o regolari, si svilupperà la coscienza di questi due ministeri irrinunciabili e preziosi, e se in voi laici si accrescerà il desiderio, anzi il bisogno di profittarne per il vostro spirituale progresso. Non è forse vero che tante volte una buona confessione si colloca in questo stesso processo come punto di partenza o di arrivo? Tutto ciò - notate - sempre nella linea evangelica della penitenza-conversione.

    A Dio piacendo, nell’autunno del prossimo anno si terrà una nuova sessione del Sinodo dei Vescovi, che sarà dedicata alla penitenza ed alla riconciliazione. Dopo i grandi temi dell’evangelizzazione, della catechesi e della famiglia, è sembrato opportuno esaminare sotto tutti i suoi aspetti, non ultimo quello pastorale-sacramentale, questo grave argomento che impegna per tanta parte la vita e l’azione della Chiesa nel mondo.

    In vista di tale evento ecclesiale, nella luce del Centenario Antoniano, a tutti voi qui presenti io dico di riflettere intorno al dono ineffabile della Riconciliazione: esorto i sacerdoti ad essere sempre ministri zelanti di essa (cf. 2 Cor 5, 18-19), come esorto i fedeli ad essere sempre disponibili e docili: “Lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5, 20).

  2. #12
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    GIOVANNI PAOLO II

    VISITA PASTORALE A PADOVA
    IN OCCASIONE DEL 750° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI S. ANTONIO

    SOLENNE CONCELEBRAZIONE CON I VESCOVI DEL TRIVENETO

    OMELIA


    Padova, 12 settembre 1982

    1. “E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato . . . poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8, 31).

    Leggiamo queste parole oggi nel Vangelo secondo Marco, in cui gli Apostoli rispondono alla domanda di Cristo: “Chi dice la gente che io sia?” (Mc 8, 27).

    Conosciamo questa domanda, e conosciamo le risposte che hanno dato gli interlocutori. Alla fine Gesù domandò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”, che vuol dire il Messia (Mc 8, 29).

    Conosciamo anche questa risposta di Pietro nella versione più lunga dell’evangelista Matteo. Pietro professa la dignità messianica di Gesù di Nazaret. Ed ecco, lo stesso Pietro quando sente che il Messia, il Figlio dell’uomo, deve essere riprovato, martoriato e ucciso prende in disparte Gesù e si mette a rimproverarlo (cf. Mc 8, 32). “Rimproverarlo” significa che cerca di convincerlo che questo non gli accadrà mai (cf. Mt 16, 22).

    Così pensa e così dice lo stesso Pietro, che ha professato Gesù di Nazaret come il Messia.

    Ed allora Cristo rimprovera Pietro con parole così severe come forse non ha mai usato nei confronti di nessun altro degli Apostoli: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8, 33).

    Lo stesso Pietro, che confessò la fede nel Messia, non voleva credere che Egli, “l’Unto di Dio” era, nello stesso tempo, “l’Agnello di Dio”; era “il servo di Jahvè” del Vecchio Testamento, afflitto e umiliato fino alla fine come aveva annunziato il profeta Isaia, secondo il brano ascoltato nella prima lettura d oggi.

    E perciò Cristo protestò così categoricamente.

    2. Cari fratelli e sorelle! Siamo qui oggi sulle orme dei Santi, che hanno accettato il mistero dell’“Agnello di Dio” e del “Servo di Dio” con tutta l’anima e l’hanno amato con tutto il cuore.

    Francesco d’Assisi, del quale ricordiamo l’ottavo centenario della nascita, non poteva forse ripetere con Paolo apostolo le parole: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6, 14)?

    E la stessa fede l’ha professata con il suo Maestro d’Assisi, Antonio di Padova, del quale la Chiesa ha celebrato lo scorso anno il 750° anniversario della morte, particolarmente in questa città, così strettamente legata al suo nome.

    Francesco e Antonio non soltanto hanno professato la loro fede nella Croce e nel Crocifisso, ma anche hanno amato Colui che ci ha talmente amati, senza riserva, fino a giungere ad accettare la Croce!

    Con lo sguardo rivolto a sant’Antonio e al suo Maestro san Francesco, porgo il mio saluto a voi tutti che siete riuniti in questa immensa piazza per la Celebrazione Eucaristica! Saluto in primo luogo il Pastore di questa diocesi, Monsignor Filippo Franceschi, e il suo predecessore, il venerando Monsignor Girolamo Bortignon; saluto cordialmente le Autorità, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i padri e le madri di famiglia, i lavoratori, i giovani, le giovani, i bambini, gli ammalati, tutti i presenti.

    3. San Francesco e sant’Antonio hanno meditato nel proprio cuore su tutto ciò che il profeta Isaia aveva scritto sul “servo di Jahvè”, e che, parecchi secoli prima, sembra descrivere, in modo così dettagliato e preciso, gli avvenimenti del Venerdì Santo:
    “Ho presentato il dorso ai flagellatori, / la guancia a coloro che mi strappavano la barba; / non ho sottratto la faccia / agli insulti e agli sputi . . .” (Is 50, 6).

    Quanto vicine erano al cuore di Francesco e di Antonio queste ferite e offese!

    Quanto viva era, per ciascuno di loro, questa “contesa”, che Gesù di Nazaret affrontò per la salvezza dell’uomo:
    “. . . non resto confuso, / per questo rendo la mia faccia dura come pietra, / sapendo di non restare deluso . . . / chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. / Chi mi accusa? Si avvicini a me. / Ecco, il Signore Dio mi assiste: / chi mi dichiarerà colpevole?” (Is 50, 7-9).

    Francesco e Antonio hanno letto con l’animo e con il cuore, con la fede e con l’amore, questa “contesa messianica”, che raggiunse il suo apice nel Getsemani e sul Calvario.

    E perciò crescevano in loro non soltanto la fede, la speranza e la carità, ma cresceva insieme quel “vanto nella croce”, di cui ha scritto l’Apostolo nella lettera ai Galati.

    4. Perché il “vanto nella croce”? Perché non “altro vanto che nella croce di Cristo”?

    Perché la croce proclama fino alla fine, e al di sopra di ogni misura, al di sopra di ogni argomento dell’intelletto e della scienza, chi è l’uomo, agli occhi di Dio, nel suo eterno piano di amore!

    Lo proclama una volta per sempre e irreversibilmente. Non si può imparare a fondo la dignità dell’uomo, se non “vantandosi soltanto nella croce”. E il senso della vita umana, il senso che essa ha nell’eterno piano di amore, non si può afferrare se non mediante quella “contesa messianica”, che Gesù di Nazaret condusse un giorno con Pietro e che continua a condurre con ogni uomo e con tutta l’umanità.

    Il cristianesimo è la religione della “contesa messianica” con l’uomo e per l’uomo.

    Ce ne rendiamo conto in modo chiaro, specialmente quando ritorniamo sulle orme di quei grandi seguaci di Cristo Crocifisso: Francesco d’Assisi e Antonio di Padova.

    5. La Parola di Dio nell’odierna liturgia ci permette di comprendere che quella contesa messianica per l’uomo . . . con l’uomo, ha sempre la sua dimensione temporale e storica.

    Non parla di questo, nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo, insegnando che la fede senza le opere è morta in se stessa?

    “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?” (Gc 2, 14).

    E così, mediante queste semplici e fondamentali parole dell’apostolo, quella contesa messianica con l’uomo e per l’uomo si esprime come il contenuto della vita umana nella dimensione di ogni giorno e di tutta la storia terrestre dell’umanità.

    Nella prospettiva della fede sta, in ogni luogo, un altro uomo: “un fratello o una sorella . . . senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano” (Gc 2, 15). L’altro uomo, l’uomo bisognoso in ogni grado della longitudine e della latitudine geografica, costituisce una sfida per la fede.

    Quanti sono questi fratelli e queste sorelle nel mondo intero? Quanti sono alla nostra portata immediata? E in quanti modi essi soffrono carenze: la fame, la penuria, l’avvilimento dei loro fondamentali diritti umani?

    Perciò Francesco d’Assisi e Antonio di Padova hanno intrapreso, nei loro tempi, quella contesa evangelica con ogni uomo e per ogni uomo a misura degli Apostoli e dei santi.

    Perciò anche ai nostri giorni l’enciclica Redemptor Hominis ricorda che l’uomo è e non cessa di essere la “fondamentale via della Chiesa” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 14), l’uomo contemporaneo, la cui dignità, agli occhi del Creatore e del Redentore, non cessa di testimoniare la Croce di Cristo!

    6. Quella contesa con l’uomo . . . e per l’uomo, che intraprese Cristo, ha, al tempo stesso, un’altra dimensione: in essa si decide il perenne ed insieme eterno destino dell’uomo, come essere creato a immagine e somiglianza di Dio.

    Nell’esistenza umana in questo mondo si svolge come un grande dramma della vita e della morte, in conformità con ciò che ci ricorda oggi il Salmista:
    “Mi stringevano funi di morte, / ero preso nei lacci degli inferi. / Mi opprimevano tristezza e angoscia” (Sal 114 [115], 3).

    Cristo è venuto nel mondo, per unirsi all’uomo in questo dramma definitivo della sua esistenza.

    Proprio perciò Paolo di Tarso e dopo di lui Francesco d’Assisi e Antonio di Padova si vantano nella Croce di Cristo. Poiché in essa è la piena risposta a questo grido più profondo dell’uomo consapevole dei suoi destini ultratemporali.

    “Egli mi ha sottratto dalla morte, / ha liberato i miei occhi dalle lacrime, / ha preservato i miei piedi dalla caduta. / Camminerò alla presenza del Signore / sulla terra dei viventi” (Sal 114 [115], 8 s).

    La fede, nella sua dimensione temporale e storica, vive mediante le opere di carità dell’uomo. La fede, nella sua dimensione definitiva ed eterna, si esprime mediante la partecipazione a questo Amore, che permette di superare il peccato e la morte.

    Questo stesso amore di Dio genera la gioia, la gioia illimitata di esistere, di camminare alla presenza di Dio.

    Una tale gioia portavano nel mondo, ai loro tempi, Francesco e Antonio e l’eco di tale gioia dura fino a oggi.

    “Amo il Signore perché ascolta / il grido della mia preghiera. / Verso di me ha teso l’orecchio / nel giorno in cui lo invocavo” (Sal 114 [115], 1 s).

    Così dunque quella “contesa messianica” con l’uomo . . . per l’uomo, che ha intrapreso Cristo, si risolve mediante l’amore, e l’amore definitivamente rende l’uomo felice; l’amore di Dio al disopra di ogni cosa, che si manifesta mediante l’amore dell’uomo, di ogni fratello e di ogni sorella, che Dio mette sulla strada del nostro pellegrinaggio terrestre.

    Ecco l’eloquenza che anche nei nostri tempi ha, dopo tanti secoli, la testimonianza della vita di Francesco d’Assisi e di Antonio di Padova.

    Essi camminano attraverso i secoli, non avendo, ciascuno di loro, altro vanto se non nella Croce di Cristo e dicono alle generazioni sempre nuove quale forza abbia la fede vivificata dall’amore.

    E noi che ricordiamo la loro santa vita e le opere, dobbiamo farci una domanda:
    siamo decisi ad accettare questa contesa che Cristo conduce con l’uomo e per l’uomo? . . .
    siamo pronti a partecipare ad essa?

    È la domanda circa la nostra fede, l’amore e la carità.

    È la domanda circa il nostro oggi e domani cristiano!

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    Sant'Antonio da Padova

    Sant'Antonio di Padova, al secolo Fernando Bulhão (Lisbona, 15 agosto 1195 - Padova, 13 giugno 1231) fu un frate francescano, ed è un santo della Chiesa cattolica. La sua data di nascita è data dalla tradizione.

    Nacque in una famiglia di nobili portoghesi discendenti dal crociato Goffredo di Buglione.

    Prima tra i canonici regolari agostiniani di Coimbra (1210), poi (1220) francescano, predicò dappertutto, nel Portogallo prima, poi in Italia, nutrendo le sue parole con la dottrina delle Sacre Scritture.

    Nel 1221 incontrò, alla Porziuncola, San Francesco d'Assisi, che lo inviò all'eremo di Montepaolo, presso Forlì, città nella quale iniziò la sua attività di predicatore.

    Professore di teologia e nello stesso tempo predicatore, combatté l'eresia catara, specialmente in Francia, con estremo vigore e con una eccezionale forza di convinzione. Fu trasferito poi a Bologna e quindi a Padova, città di cui è patrono.

    Morì all'età di 35 anni in concetto di santità. All'indomani della sua morte innumerevoli miracoli fecero sì che egli fosse invocato dai fedeli come un infaticabile taumaturgo.

    Nel 1232, l'anno successivo alla sua morte, venne canonizzato da papa Gregorio IX.

    Papa Pio XII, che nel 1946 ha annoverato Sant'Antonio tra i dottori della Chiesa cattolica, gli ha dato il titolo di dottore evangelico, tanto era solito sostenere le sue affermazioni con citazioni del Vangelo.

    La grande Basilica di Padova è dedicata a Sant'Antonio e viene comunemente ricordata in città come "Il Santo".

    Viene ricordato dalla chiesa cattolica il 13 giugno; a Padova, in occasione della ricorrenza, si svolge un'imponente celebrazione con processione.

    Nel cuore del Medioevo

    Gli anni in cui visse Sant'Antonio si collocano nel cuore del Medioevo. A quel tempo, tutta l'Europa era scossa da profondi cambiamenti: la società feudale dei castelli e dei monasteri stava per lasciare il posto alla società urbana dei Comuni e della borghesia.

    L’affrancamento dei servi della gleba (non più schiavi della terra assoggettati al signore feudale) e l’aumento della produzione agricola avevano favorito una maggior mobilità delle persone e la ripresa dei commerci fra campagna e città. Artigiani e commercianti, notai e medici, mercanti e banchieri s’apprestavano a dar vita ad una nuova classe sociale: la borghesia, che andava ad aggiungersi ai cavalieri, al clero e ai nobili.

    Le antiche città si ripopolavano, ne sorgevano di nuove: tutte animate da fremiti d'indipendenza e, come scriveva Ottone, vescovo di Frisinga, al nipote Federico Barbarossa: "così desiderose di libertà da volersi reggere col governo dei Consoli anziché dei Principi".

    Ad accelerare i cambiamenti – nel corso del Duecento – contribuì il declino dell'Impero. Indebolito dalle lotte con il Papato e dei Comuni, dopo la morte di Federico II, si frantumerà in una miriade di staterelli: è il caso di Germania e Italia. Altrove si costituirono invece regni nazionali: in Francia, Inghilterra e nella Penisola Iberica, dove la Reconquista favorì il sorgere, sulle ceneri dello sconfitto califfato arabo, di tre regni cristiani indipendenti: quelli del Portogallo, di Castiglia, e d'Aragona.

    In questo mutato quadro politico europeo meritano un cenno particolare gli avvenimenti della Chiesa di quel tempo. Gli storici, che amano racchiudere periodi ed avvenimenti entro angusti slogan esemplificativi, sostengono essere quella l’epoca delle Cattedrali e delle Crociate; altri, invece, la chiamano l’epoca della Rinascita evangelica. Hanno ragione gli uni e gli altri.

    L’epoca delle Cattedrali

    Monumento per eccellenza della città che rinasceva, dopo l'XI secolo, la Cattedrale divenne (così come lo erano stati i monasteri nei secoli precedenti) il cuore della vita religiosa del popolo, che attorno ad essa scandiva i ritmi dell’esistenza quotidiana: il nascere, il vivere, il morire.

    All’apice di questa società cristiana medievale c’era l’onnipotenza di Dio. Non meraviglia, quindi, che la sua "casa" venisse trasformata in uno scrigno ripieno di tesori d’arte, segno visibile e maestoso dell’alleanza col suo popolo.

    L’epoca delle Crociate

    Per l’Europa correva un sol grido: "Dio lo vuole". Fu la parola d’ordine che scatenò le Crociate, in tutto sette: le prima nel 1096, l’ultima nel 1270.

    Papa Urbano II fu il primo a prendere l’iniziativa. Convocò un Concilio in Francia, a Clermont, e convinse il popolo cristiano a raggiungere in armi Gerusalemme per liberare la Terra Santa dagli Infedeli.

    L’epoca della Rinascita evangelica

    I principi che sostenevano la Chiesa medievale – dominio del mondo e fuga dal mondo – trovano mirabile sintesi in due pontefici: Papa Innocenzo III (1198-1216), papa a 37 anni, e in suo nipote Papa Gregorio IX (1227-1241).

    Assertori convinti del potere papale ed attenti riformatori in campo spirituale, avvertirono entrambi l’esigenza di rinnovare le istituzioni ecclesiastiche, sospinti anche da un incalzante movimento popolare che criticava l’eccessivo interesse della Chiesa per le cose terrene. Fu sotto questi due Papi, e con la loro benedizione, che sono nati gli Ordini Mendicanti, la cui diffusione in Europa fu davvero provvidenziale per arginare il dilagare delle numerose sette ereticali.

    In questo difficile apostolato di frontiera si sono distinti, per primi, i francescani e i domenicani, i quali, superando il tradizionale isolamento claustrale con la fondazione di conventi e chiese nelle città e propugnando essi stessi un profondo rinnovamento della vita della Chiesa, seppero fronteggiare le eresie con la predicazione e la testimonianza esemplare.

    Francesco d'Assisi e Domenico di Guzmán furono gli artefici di quella rinascita evangelica. Sullo sfondo di tali avvenimenti, e contemporaneo dei due santi, visse ed operò il giovane monaco Antonio, Santo di Padova.

    Tra grandi uomini, tre grandi santi; Gregorio IX, che li conobbe personalmente, li canonizzerà tutti e tre, uno dopo l’altro: Francesco nel 1228, Antonio nel 1232, Domenico nel 1234.

    Da Fernando ad Antonio

    Dell’infanzia di Sant’Antonio di Padova si conoscono poche cose con certezza: il nome di battesimo, Fernando (che significa "ardito nella pace"), e la città natale, Lisbona, che si diceva fosse in finibus mundi, ai confini del mondo. Già sulla data di nascita gli storici non concordano, anche se i più propendono per il 15 agosto 1195, deducendo tale data da quella certa della morte: 13 giugno 1231, e sottraendo ad essa gli anni di vita, trentasei, che gli attribuisce il "Liber miraculorum", scritto verso la metà del secolo XIV.

    Scarno è pure il racconto che ci offre la biografia più antica, la Vita prima o Assidua, compilata da un anonimo frate nel 1232, dopo appena un anno dalla morte del Santo. E quel che scrive dice d’averlo appreso, in buona parte da Soerio II Viegas, vescovo di Lisbona dal 1210 al 1232.

    "Mi hanno informato – ci fa sapere il biografo – che nella zona occidentale del regno di Portogallo sorge una città situata all’estremo confine del mondo. I suoi abitanti la chiamano Ulisbona, poiché secondo l’opinione corrente fu fondata da Ulisse. Entro la cerchia delle mura di questa città s’erge una chiesa d’ammirevole grandezza, dedicata alla gloriosa Vergine Maria, e vi riposano, custodite con grande onore, le spoglie preziose e venerate del beato martire Vincenzo. I fortunati genitori di Antonio possedevano, dirimpetto al fianco ovest di questo tempio una abitazione degna del loro stato, la cui soglia era situata proprio vicino all’ingresso della chiesa. Erano essi nel primo fiore della giovinezza allorché misero al mondo questo felice figlio; e al fonte battesimale gli posero nome Fernando. E fu ancora a questa chiesa, dedicata alla santa Madre di Dio, che lo affidarono affinché apprendesse le lettere sacre e, come guidati da un presagio, incaricarono i ministri di Cristo dell’educazione del futuro araldo di Cristo”.

    Il racconto è tutto qui, eppure ci dice parecchie cose. Lisbona era poco più di un borgo fortificato sulle colline prospicienti la foce del Tago, dirimpetto all'Oceano Atlantico, avamposto dei Crociati nella lotta contro i Saraceni, da quando nel 1147 re Alfonso I l’espugnò con il loro aiuto. La capitale del regno era invece 200 km più a nord, a Coimbra, in contrade più sicure. Nel mezzo del borgo, com'era normale che ci fosse, stava la Cattedrale: un edificio romanico della seconda metà del XII secolo, ritoccato poi con aggiunte gotiche dopo il terremoto del 1344 e in gran parte rifatto dopo quello del 1755; oggi è sede patriarcale e di fronte ad essa sorge una chiesa barocca dedicata al Santo di Padova, proprio sull’area che l’anonimo biografo descrive come la sua casa natale.

    Accanto alla Cattedrale c'era la scuola episcopale, un'istituzione molto diffusa a quei tempi, in parte volta allo studio e in parte al servizio liturgico. Si sa che i genitori erano nel fiore della giovinezza al momento della nascita di Fernando e che possedevano una casa degna del loro stato. Quale stato? Allora come oggi possedere un’abitazione in centro, a ridosso della Cattedrale, non era impresa da poveretti. Sappiamo inoltre dal notaio padovano Rolandino, coevo del Santo ed autore di un’altra Cronaca, che Fernando era nato da una famiglia nobile e potente. Sua madre si chiamava Maria e suo padre Martino Alfonso, cavaliere del re e, secondo alcuni, discendente di Goffredo da Buglione (l’eroe crociato della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso).

    Ma chi erano veramente i genitori di Fernando? Sopravvissero al grande figlio, morto ancor giovane? Giunse in quella "periferia del mondo" la sua fama di sapienza e di santità? Ebbero la gioia di venerarlo sull’altare? Sono domande che ogni biografo si pone pur sapendo di non potervi rispondere. Ma queste non sono solo le risposte insolute di chi s’accinge a scrivere dell'infanzia di Sant'Antonio. Se poco si conosce di lui, bambino, ancor meno si sa del Fernando giovanotto.

    "Il tempo che va dai dieci ai vent’anni – scrive l’esperto "antoniano" Vergilio Gamboso – è stato dimenticato anche dalla leggenda. Il pochissimo che siamo in grado di dirne è frutto di congetture, basate su scarse righe di documenti e sulla conoscenza dell’epoca e dell’ambiente. Finiti gli anni della scuola non sembra inverosimile che Fernando, primogenito e quindi erede di un nome illustre, sia stato indirizzato dal padre ad apprendere il mestiere delle armi insieme ad altri coetanei. Ma in quel modo, pur così brillante e prodigo di promesse, egli trovava un nonsoché di vuoto, d’inutile. Mentre gli amici ristagnavano beatamente nell’ozio e negli amori, sempre più soffocante diventava a Fernando quell'ambiente".

    Quando più tardi il Santo fustigherà i vizi dell’opulenta società patavina non farà che rievocare immagini di quegli anni giovanili. Dove c’è abbondanza di ricchezze e delizie – scriverà nei Sermoni –, lì cova la lebbra della lussuria… Essa suole abitare in coloro che sono tiepidi e oziosi.

    A quindici anni, Fernando fece il grande passo. Sta scritto nell’Assidua:

    "Il mondo già gli offriva occasioni di sperimentarne ogni giorno di più le follie; e quel piede che egli non ancora del tutto vi aveva sulla soglia, ritrasse pel timore che vi si attaccasse la polvere delle gioie terrene, così da recar ostacolo a chi veloce già correva con l’anima sulla via del Signore".

    La vocazione di Sant’Antonio – ci piace ricordarlo – assume valore di scelta coraggiosa perché Fernando ben sapeva quel che lasciava e quanto difficile fosse rinunciarvi senza l’aiuto di Dio. Ma quando, agli agi della casa paterna, preferì le austere mura del convento, non ebbe esitazioni, ammonito anche dalle parole di Gesù: "Chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro non è adatto per il regno di Dio".

    Su di un’altura, poco fuori Lisbona, sorgeva (anzi sorge, perché pur rimaneggiata sussiste ancora) l’Abbazia di San Vincenzo, dono del re Alfonso I e di sua moglie Mafalda di Savoia ai Canonici Regolari (per questo erano chiamati Agostiniani), che allo studio e al raccoglimento nel chiostro alternavano la vita di parrocchia e l’apostolato fra la gente.

    Fu alla porta di quel monastero che bussò, nel 1210, il giovane Fernando, accolto con soddisfazione dal priore Gonzalo. Più avanti negli anni, nei suoi Sermoni scriverà:

    "Chi si ascrive a un ordine religioso per farvi penitenza, è simile alle pie donne che, la mattina di Pasqua, si recarono al sepolcro di Cristo. Considerando la mole della pietra che ne chiudeva l’imboccatura, dicevano: chi ci rotolerà la pietra? Grande è la pietra, cioè l’asprezza della vita di convento: il difficile ingresso, le lunghe veglie, la frequenza dei digiuni, la parsimonia dei cibi, la rozzezza delle vesti, la disciplina dura, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta… Chi ci rotolerà questa pietra dall'entrata del sepolcro? Un angelo sceso dal cielo, narra l’evangelista, ha fatto rotolare la pietra e vi si è seduto sopra. Ecco: l’angelo è la grazia dello Spirito Santo, che irrobustisce la fragilità, ogni asperità ammorbidisce, ogni amarezza rende dolce con il suo amore".

    Rivestito del bianco saio degli Agostiniani, Fernando iniziò così il suo cammino verso il sacerdozio. Un inizio piuttosto "movimentato", stando a quanto si legge nell’Assidua:

    "Vi dimorò per circa due anni, molestato dalle frequenti visite degli amici, così importune alle anime assetate di raccoglimento. Per liberarsi di queste cause di turbamento, decise di abbandonare la terra nativa in modo da servire il Signore in tranquillità, nella sicurezza di un porto straniero. E avendo ottenuto a fatica il permesso dal superiore, non mutò ordine, ma solo residenza, trasferendosi al monastero di Santa Croce in Coimbra".

    Finalmente in pace e senza l’appello delle visite importune, Fernando poté dedicarsi completamente agli studi e alla vita ascetica. Divenuto sacerdote, e poiché era versato nelle Sacre Scritture e nella predicazione, al monaco Fernando si prospettava una brillante carriera all’interno del suo Ordine. Se non che…

    Nelle vite dei santi si tocca davvero con mano quanto sia veritiero il detto popolare: "l’uomo propone e Dio dispone". La Provvidenza ha dei percorsi tutti suoi, non coincidenti quasi mai con quelli ipotizzati dagli uomini. Sant’Antonio non fa eccezione. Due fatti ce lo confermano.

    Il priore corrotto

    Finché sul trono del Portogallo regnò Alfonso I, anche gli affari ecclesiastici del Paese filavano via lisci. Ma quando gli succedette il figlio Sancio I e peggio ancora, alla morte di costui (1211), il nipote Alfonso, le cose peggiorarono notevolmente. Alfonso II nominò a Santa Croce un priore condiscendente, un certo Giovanni, che oltre a gettare discredito sull'abito che portava, dando scandalo per la vita dissoluta, dilapidò in poco tempo le sostanze del monastero. Incorse anche nella scomunica papale, ma Papa Onorio III era troppo lontano per impensierirlo e poi, lì sul posto, godeva dell'appoggio del re.

    A poco a poco la comunità monastica di Coimbra finì per spaccarsi in due correnti: da una parte gli amici del priore, dall'altra gli amici del Signore, tra cui Fernando, il cui stato d'animo immaginare. Proprio lui, che per non essere importunato dagli amici aveva deciso di cambiare convento!

    Di certo il passaggio da Lisbona a Coimbra fu per lui come passare dalla padella alla brace. Ricordando quel tempo, il Santo dirà:

    "Il superiore è detto Casa del Padre, perché sotto di lui il suddito, come figlio entro la casa paterna, deve trovar riparo dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica, dall’arsura della prosperità mondana".

    L’esatto contrario di come si comportava il priore Giovanni!

    Il martirio dei frati

    A migliaia di chilometri da Coimbra viveva un altro grande santo, Francesco d’Assisi, che proprio in quegli anni stava approntando una spedizione missionaria fra i Musulmani d’Africa. Fu così che nel 1219, passando per la Francia, la Spagna e il Portogallo, partirono alla volta del Marocco cinque suoi frati: tre sacerdoti, Berardo, Pietro ed Ottone, e due fratelli laici, Adiuto e Accursio.

    A Coimbra vennero accolti dalla regina Urraca, simpatizzante dei "poverelli", ai quali aveva donato il romitorio di Olivares poco lontano dalla città. Ma prima dei frati giunse la fama: il loro fondatore – si diceva – aveva abbandonato la vita ricca e spensierata per dedicarsi completamente al Signore; e ad essi aveva imposto di vivere in grande povertà, elemosinando per le strade e praticando alla lettera il Vangelo. Lo sconfinato amore per Dio e il prossimo conferiva loro un fascino particolare, che ammaliò subito il nostro Fernando.

    Quando seppe – mesi dopo – del loro martirio in Marocco, provò grande dolore. Scrive l’Assidua che Fernando diceva in cuor suo:

    "Oh, se l’Altissimo volesse far partecipe anche me della corona dei suoi martiri!". E quando i corpi dei cinque frati vennero traslati a Coimbra ed esposti ai fedeli nella chiesa reale di Santa Croce, Fernando fu tra i primi ad accorrere. Lì, davanti a quei martiri, prese una decisione che maturava da tempo: Fratelli carissimi, con vivo desiderio vorrei indossare il saio del vostro ordine…".

    Da Lisbona a Coimbra, ed ora lungo le strade del mondo, la Provvidenza, seppur per gradi, l’aveva condotto alla scelta vocazionale definitiva.

    Lasciato il bianco saio agostiniano per quello grigio dei "poverelli", e volendo rimarcare con un gesto eclatante il radicale mutamento di vita, decise di cambiare il nome di battesimo: da Fernando in Antonio, per omaggiare il grande monaco orientale cui era dedicato il romitorio francescano di Olivares.

    Naufrago in Sicilia

    Rivestito del ruvido saio di sacco dei seguaci di Francesco, Antonio s'apprestava a lasciare il convento di Santa Croce, quand'ecco sulla soglia comparire un monaco agostiniano che gli grida in faccia tutta la sua amarezza per quella dipartita: "Va’, va’ pure con loro che diventerai santo!". E Antonio, di rimando: "Vorrà dire che quando sentirai che lo sono diventato ne loderai il Signore". Poi, chinato il capo, si unì ai nuovi confratelli e "scortato" da loro s'incamminò, a piedi scalzi, su per la collina sovrastante la città.
    I mesi passavano veloci, ma un chiodo fisso lo tormentava. Non riusciva a togliersi dalla mente quei cinque frati, decapitati in Marocco, che ora riposavano laggiù in città, nella cripta del suo vecchio monastero. Passeggiando sulla collina degli ulivi gli pareva che il vento gli portasse le loro voci. Dapprima flebili poi sempre più forti, dicevano: "Antonio perché non prendi il nostro posto?". Dice l’Assidua che "lo zelo per la diffusione della fede lo stimolava con forza sempre più incalzante e la sete di martirio, che gli ardeva in cuore, non gli consentiva riposo". Gli rimordeva pure la coscienza: lui, quand’era ancora Fernando, laggiù in Santa Croce, davanti a quelle bare, aveva giurato di sostituirli nella terra dei Saraceni per spartire con essi la palma del martirio. E quando quelle voci trasportate dal vento divennero grida e tormento, Antonio lasciò il romitorio e corse dal superiore, quel Fra Giovanni Parenti, allora provinciale della Spagna e del Portogallo, che aveva incontrato il giorno della traslazione dei martiri; lo stesso che l’aveva accolto nell’ordine dei frati Minori. Aprì il suo cuore a Fra Giovanni ed ottenne il premesso di partire. Finalmente missionario! Nell’autunno del 1220 diede addio alla terra natale, che mai più avrebbe riveduto, e s’imbarcò con un confratello, Fra Filippino di Castiglia, alla volta del Marocco. Ma ancora una volta i piani d’Antonio erano destinati a scontrarsi con quelli di Dio.

    La malaria, invece del martirio

    Nei Sermoni c’è una pagina in cui Sant'Antonio parla del regno di Dio:

    "È il bene supremo, per questo dobbiamo cercarlo. Lo si cerca con la fede, con la speranza, con la carità".

    Ebbene, Antonio sbarcando in Africa si sentiva Cavaliere di quel regno e ciò che andava cercando era di estenderne il dominio e di arruolarvi nuovi soldati. Se questi erano i progetti di Antonio, la Provvidenza ne coltivava ben altri. E, come leggiamo nell’Assidua, "l’Altissimo, che conosce il cuore degli uomini, si oppose ai suoi progetti e, colpendolo con grave malattia, lo afflisse duramente per tutto l’inverno".

    Costretto a letto dalle febbri malariche, Antonio non si dava pace: era venuto in Marocco per offrire la sua vita a Dio per la conversione dei Saraceni ed ora se la sentiva da lui togliere prim’ancora d'averne incontrato uno. Se la malaria lo fiaccava nel fisico, quell'ansia missionaria non appagata lo tormentava nello spirito, finché l'assalì il dubbio atroce d’aver tentato di forzare la volontà di Dio e che la sua venuta in Africa fosse da ascriversi a superbia, alla sua sete di gloria. Ma Antonio era uomo di profonda pietà: nella preghiera e nella meditazione sapeva mettere a nudo l'anima e trovarvi il giusto lenimento per le sue ferite. A poco a poco si convinse che accettare la volontà di Dio voleva dire abbandonarsi nelle sue mani.

    Spiritualmente rasserenato, non gli restava ora che curare il corpo. La salute, però, andava di male in peggio e il clima torrido non gli dava requie. Fra Filippino lo convinse finalmente a rientrare a Coimbra, laddove, fra gli ulivi del romitorio, il clima sarebbe stato più propizio per una completa guarigione.

    Neanche stavolta, però, il vento della Provvidenza soffiò per il verso giusto. Investita da una tremenda tempesta, la nave che riportava in patria Antonio e Filippino ruppe le vele e il timone. Smarrita la rotta e ormai alla deriva sulle onde del Mediterraneo, lo scafo finì per arenarsi sulla coste della Sicilia, poco sotto Messina. Soccorsi dai pescatori, i due frati vennero portati in un vicino convento dei Francescani.

    Dai confratelli di Messina, Antonio apprese che nel mese di maggio, in occasione della Pentecoste, Francesco avrebbe radunato tutti i suoi frati per il Capitolo Generale. L'invito a parteciparvi era esteso a tutti, e tutti l'accettarono di buongrado, compreso Antonio, che aveva qualche motivo in più per gioirne: finalmente avrebbe conosciuto l'uomo per il quale aveva abbandonato la carriera degli studi per seguirlo sulla strada della povertà; e poi, naufragando in Sicilia, era rimasto senza casa e senza superiori. Andando pellegrino ad Assisi, avrebbe reso omaggio a Francesco e ritrovato il suo Provinciale, Fra Giovanni Parenti. Così, nella primavera di quell'anno 1221, a piedi, accompagnato dai frati di Messina, Antonio cominciò a risalire l’Italia.

    L’incontro con Francesco

    Ci vollero mesi di cammino per raggiungere l'Umbria ma, al pari dei suoi confratelli di Messina, l’unico conforto che mitigasse ad Antonio il faticoso viaggio era la gran voglia d'incontrare Francesco e d'abbeverarsi alla fonte genuina del suo insegnamento. Aveva conosciuto il "Poverello d’Assisi" attraverso la testimonianza di alcuni dei suoi seguaci, e facendo vita comune con essi aveva assaporato il profumo del Vangelo. Questo gli era bastato per lasciare l’agiato convento di Santa Croce e farsi francescano. Nella tranquillità del romitorio di Coimbra aveva poi ritrovato la pace e se stesso, e nella semplicità di quei frati uno stimolo a ricercare le cose di Dio con spirito nuovo. Scriverà nei Sermoni:

    "In un'acqua torbida e mossa chi vi s’affaccia non viene rispecchiato. Se vuoi che il viso di Cristo che ti guarda si rispecchi in te, esci dal tumulo delle cose esteriori, sia tranquilla la tua anima".

    Ed ora, arrivando ad Assisi, avrebbe potuto finalmente ammirare l’albero di cui aveva gustato i frutti, il cui nettare l’aveva rigenerato.

    Man mano che la piccola comitiva s’avvicinava alla meta, andava numericamente ingrossandosi. E quando Antonio vi giunse, la valle mistica attorno alla Porziuncola risuonava già di canti e di preghiere. Ospitati dentro capanne improvvisate con canne e stuoie e sfamati da ventitre mense, più di tremila frati attendevano l’inizio del Capitolo Generale, che aveva per tema un versetto del Salmo 143: "Sia benedetto il Signore mio Dio, che addestra le mie mani alla battaglia". Presiedeva le riunioni plenarie, quell’anno, il cardinale Raniero Capocci (in assenza del "patron" dell’Ordine, il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, futuro Papa Gregorio IX, il papa che canonizzerà Francesco), coadiuvato come consuetudine da frate Elia, l’efficiente braccio destro del Poverello.

    Così descrive quell’adunata un testimone oculare, Fra Giordano da Giano:

    "In questo Capitolo, Francesco (che era da poco tornato dopo un anno di missione in Oriente) predicò ai frati insegnando loro la virtù ed esortandoli a mostrare al mondo la pazienza e il buon esempio. Ma quant'era in quel tempo tra i frati la carità, la pazienza, l'umiltà, l'obbedienza e la letizia fraterna, chi mai potrà raccontarlo? Un Capitolo così, sia per la moltitudine dei religiosi come per la solennità delle cerimonie, io non vidi mai più nel nostro Ordine. E benché tanto fosse il numero dei frati, tuttavia con tale abbondanza la popolazione vi provvedeva, che dopo sette giorni i frati furono costretti a chiudere la porta e a non accettare più niente; anzi restarono altri due giorni per consumare le vivande già offerte e accettate".

    Il Capitolo durò per tutta l’Ottava di Pentecoste; molti i problemi sul tappeto: lo stato dell'Ordine, la richiesta di novanta missionari per la Germania, la discussione sulla nuova Regola. Le richieste di modifica della Regola primitiva furono per Francesco un cruccio ed una pena: lassisti e spiritualisti rischiavano di spaccare l'Ordine in due tronconi, né lui da solo – se ne rendeva conto – poteva porvi rimedio. L'Ordine s'era troppo ingrandito e ai giovani accorsi con entusiasmo difettava un’eguale adesione alla disciplina, mentre ai dotti risultavano strette le disposizioni sulla povertà assoluta. Con la mediazione del Cardinale si addivenne, però, ad un compromesso che salvaguardava ad un tempo l'autorità morale di Francesco e l’integrità dell'Ordine. La nuova Regola verrà poi approvata da Papa Onorio III il 29 novembre 1223.

    Antonio si trovò quindi, suo malgrado, nel mezzo di discussioni che, per la sua giovane militanza nell'Ordine, forse poco comprendeva. Egli era venuto per incontrare il maestro, colui che aveva cambiato il corso della sua vita, e questo gli bastava. Era pure venuto nella speranza di ritrovare il suo antico superiore, ma tacendo gli storici dobbiamo arguire che l’incontro non sia avvenuto. Di certo sappiamo quanto scrive l’anonimo frate nell’Assidua:

    "Concluso il Capitolo nel modo consueto, quando i ministri provinciali ebbero inviato i fratelli loro affidati alla propria destinazione, solo Antonio restò abbandonato nelle mani del ministro generale, non essendo stato chiesto da nessun provinciale in quanto, essendo sconosciuto, pareva un novellino buono a nulla. Finalmente, chiamato in disparte frate Graziano, che allora governava i frati della Romagna, Antonio prese a supplicarlo che, chiedendolo al ministro generale, lo conducesse con sé in Romagna e là gl'impartisse i primi rudimenti della formazione spirituale. Nessun accenno fece ai suoi studi, nessun vanto per il ministero ecclesiastico esercitato, ma nascondendo la sua cultura e intelligenza per amor di Cristo, dichiarava di non voler conoscere, amare e abbracciare altri che Gesù crocifisso".

    Frate Graziano, apprezzando l'umiltà d’Antonio, decise di prenderlo con sé. Oltretutto aveva giusto bisogno di un sacerdote per l’eremo di Montepaolo (vicino all'odierna Castrocaro), sulle colline del forlivese. Lassù, in mezzo ai boschi, una chiesetta, alcune capanne ed un orto ospitavano sei frati, tutti laici, che necessitavano di un confratello che celebrasse l'Eucaristia. Da tempo ne aspettavano uno, e arrivandovi Antonio gli fecero gran festa.

    In compagnia di quei sei monaci, Antonio vivrà un intero anno. Aveva chiesto ed ottenuto che gli venissero affidati i lavori più umili, quali lavare pentole e pulire per terra. Preghiera e meditazione erano invece, per il resto della giornata, le occupazioni principali, nel nascondimento della sua cella ricavata in una grotta poco distante dall’eremo. Dice a proposito l’Assidua:

    "Soddisfatto l'obbligo della preghiera mattutina comunitaria si ritirava in quella cella, portando con sé un piccolo pezzo di pane e una ciotola d’acqua. Così passava la giornata in solitudine, costringendo la carne a servire lo spirito; tuttavia, seguendo le prescrizioni della regola, sempre ritornava in comunità all’ora della riunione. Ma più di una volta, al richiamo della campana, mentre s'accingeva a raggiungere i fratelli, sfinito dalle veglie e spossato dall’astinenza, vacillava nel cammino e, non reggendosi, i abbatteva al suolo".

    Sarà il suo secondo noviziato. Il primo, quello di Coimbra, fu il periodo dell’approccio, dell’iniziazione; questo di Montepaolo fu scuola di vita. Lontano dalla città e dagli studi eruditi, a contatto diretto con la natura, la mente e il cuore d’Antonio si lasciarono plasmare dalla voce di Cristo, nella preghiera e nella contemplazione, e dall'esempio quotidiano dei confratelli, esperti maestri di regola francescana. Nel frattempo, le mani di Dio, in cui Antonio s’era definitivamente abbandonato, stavano preparando per lui gli anni più belli, quelli della vita pubblica, della predicazione e dell’apostolato diretto.

    La chiamata venne improvvisa e – al solito – casuale. Sul finire dell'estate del 1222 (ma alcuni anticipano la data alla Quaresima) la comunità francescana scese a valle per assistere alle ordinazioni sacerdotali nella cattedrale di Forlì. L’Assidua racconta che

    "venuta l’ora della conferenza spirituale il Vescovo cominciò a pregare i frati Predicatori presenti affinché rivolgessero un discorso d’esortazione; ma quelli, uno dopo l’altro, si schermirono affermando che non era loro possibile né lecito improvvisare. Allora il superiore, volgendosi ad Antonio, gli impose d’annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito".

    Non che il superiore dell’eremo di Montepaolo stravedesse per la preparazione culturale d'Antonio, anzi lo stimava più adatto a strofinare pentole che ad esporre i sacri testi delle Scritture; però si ricordava di averlo sentito parlare – al di fuori della messa - in latino…

    Antonio oppose resistenza fin che l'obbedienza non gli impose di salire sul pulpito. Si può immaginare quanto i sei fraticelli di Montepaolo si sentissero in imbarazzo osservando il loro confratello in procinto di predicare davanti al Vescovo, ai preti e al popolo di Forlì. Chissà che magra figura – ed essi con lui – avrebbe rimediato! Invece "la sua lingua, mossa dallo Spirito Santo, prese a ragionare di molti argomenti con ponderatezza, in maniera chiara e concisa".

    Prim'ancora che la predica volgesse alla fine, la meraviglia e lo stupore avevano lasciato il posto all'ammirazione. Quella predica improvvisa fu un gran successo; la fama d’Antonio valicò i confini della Romagna e giunse fino ad Assisi. Da lì partì l'ordine di distogliere quel santo frate dai servizi di cucina per destinarlo definitivamente alla predicazione. Né dal canto suo Antonio si montò la testa; dirà: "Dobbiamo temere il lampo delle lodi umane; subito dobbiamo raccoglierci e chiuderci in noi stessi per non perdere, tra i clamori del mondo, il prezioso tesoro che va maturando nell’intimo della nostra anima".

    La mula e gli eretici

    Scendendo da Montepaolo, frate Antonio non sottovalutava affatto le difficoltà che avrebbe incontrato nello svolgimento del suo nuovo incarico. Profondo conoscitore della Sacra Scrittura ben sapeva che l'annuncio del messaggio cristiano avrebbe comportato sacrifici, incomprensioni, umiliazioni; i profeti, i martiri, lo stesso Gesù Crocifisso lo mettevano in guardia dai facili entusiasmi. Il mondo – ieri come oggi – mal sopporta chi diffonde parole di vita eterna, perché ascoltarle vuole dire convertirsi e, quindi, cambiare abitudini e mentalità; ma tutto questo comporta fatiche e rinunce: dubitava che fosse meglio soprassedere e tirare avanti nella mediocrità.

    Mentre "passava per città e castelli, villaggi e campagne, dovunque spargendo i semi della vita con generosa abbondanza e con fervente passione", Antonio andava rimuginando in cuor suo le parole del Signore al profeta Isaia: "Grida a piena gola, non desistere. Come una tromba alza la tua voce, denuncia al mio popolo i suoi peccati!".

    Antonio ne era convinto: ingiustizie e vizi andavano presi di petto, senza guardare in faccia nessuno; non ebbe pietà soprattutto per quelli che lui chiamava i "cani muti", per chi aveva l'obbligo, dinanzi a Dio, di guidare il gregge e di correggerne i costumi, e non lo faceva. Nei Sermoni scriverà:

    "La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell'odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti. Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo".

    Ed a questo impegno il Santo non venne mai meno.

    Ecco una bella preghiera da lui composta per il predicatore:

    "Oh Signore Gesù, riguarda il tuo testamento, che hai voluto confermare col tuo sangue. Dà a noi di parlare con fiducia la tua parola. Non abbandonare le anime dei tuoi poveri, che tu hai redente e che altre eredità fuori di te non hanno. Sorreggili, Signore, con la tua forza, perché sono i tuoi poveri. Guidali. Non abbandonarli, perché senza di te si smarrirebbero, ma dirigili fino al traguardo, affinché uniti perfettamente a te, possano giungere a te, fine supremo".

    Oltre all'opera moralizzatrice fra il popolo cristiano, una seconda e più proterva battaglia attendeva frate Antonio: quella contro gli eretici.

    Fra le sette più diffuse in quel secolo, bisogna menzionare quella degli Albigesi, che prendeva il nome dalla città di Albi nella Francia meridionale; quella dei Catari (i puri), che si diffondeva nascostamente in varie parti d’Italia e della Francia; e quella dei Patarini in Lombardia.

    Un profondo desiderio di rinnovamento spirituale le animava tutt'e tre, ma una visione angelicata del Cristo – ad esempio – in cui vedevano il maestro e non il redentore e un'aperta ostilità nei confronti di tutto ciò che era materiale e terreno, le poneva in contrasto con l’insegnamento della Chiesa, che esse identificavano nel potere temporale del Papa e nei preti corrotti.

    Anche il francescanesimo era nato come movimento di rinnovamento spirituale, ma la tempra e la probità di Francesco lo seppe mantenere nell'alveo genuino del Vangelo. Il popolo medievale, affascinato da questi segnali di rinascita, ma digiuno di nozioni teologiche, era spesso vittima di movimenti e sette ereticali. Antonio, con la predicazione e con l'esempio, fu un campione nel frapporre argini sicuri tra il popolo e le eresie, che combatté con accanimento, tanto da meritarsi l’appellativo di martello degli eretici.

    A salvaguardia della fede non bastava, però, un solo condottiero (anche se battagliero come lui), ma un esercito intero: di qui l'urgenza di promuovere la preparazione teologica dei frati perché fossero in grado di essere maestri di verità fra il popolo. Alla caparbia ostinazione di frate Antonio si deve, tra l'altro, la fondazione nel 1223 del primo studentato teologico francescano a Bologna, presso il convento di Santa Maria della Pugliola.

    Dapprima, Francesco, che allo studio preferiva la preghiera, si manifestò scettico di fronte a quel progetto di scuola, ma pressato dagli eventi finì poi per dare il suo assenso, addirittura per iscritto:

    "A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai nostri fratelli, a condizione però che, a causa di tale studio, non si spenga in esso lo spirito di santa orazione e devozione, com'è prescritto nella regola. Stammi bene".

    L'approvazione di Francesco confermò ad Antonio che stava viaggiando nel solco tracciato dalla Provvidenza, la quale non mancherà di sostenere la sua predicazione – all'occorrenza – con miracoli e prodigi.

    Per le contrade di Romagna

    Antonio ricevette l'incarico di predicare nell'autunno del 1222 e il territorio affidatogli comprendeva, oltre alla Romagna, l'Emilia, la Marca Trevigiana, la Lombardia e la Liguria. Ma fu la Romagna a raccogliere le primizie del suo nuovo apostolato. L’Assidua racconta che Antonio

    "per volere del cielo raggiunse nella città di Rimini e, vedendo che molti erano ingannati dagli eretici, cominciò a predicare con ardore; la sua parola vigorosa e la dottrina salutare misero radici così profonde nel cuore degli uditori che una folla di credenti si riaccostò lealmente al Signore".

    Il capo di quegli eretici, un certo Bonillo, non si lasciava, però, intimorire né convincere dalle parole di Antonio; e non avendo argomentazioni logiche per confutare le sue tesi, gli lanciò una pubblica sfida:

    "Frate! Te lo dico davanti a tutti: crederò nell’Eucaristia se la mia mula, che terrò digiuna per tre giorni, mangerà l'Ostia che gli offrirai tu piuttosto che la biada che gli darò io".

    Senza scomporsi, il Santo accettò la sfida. Quattro giorni dopo, ai riminesi ch'erano accorsi in piazza per la grande sfida si parò dinanzi una mula macilenta, malferma sulle gambe per il prolungato digiuno, che tra lo stupore di tutti – e ancor più del suo padrone – rifiutò la biada e andò ad inginocchiarsi ai piedi di frate Antonio.

    Né questo è l'unico fatto prodigioso di cui ci parlano le cronache antoniane. Gli eretici, intimoriti dalla sapienza dell'oratore, evitavano di scontrarsi con lui nei pubblici dibattiti; anzi, cercavano di fargli il vuoto attorno, dissuadendo chiunque, con la forza e con l'inganno, dal convenire in piazza per ascoltarlo. Stanco di vedersi "sottrarre" il popolo, un giorno Antonio prese la via del mare e là, dove sfocia la Marecchia, si mise a predicare ai pesci, che facendo capolino tra le onde, si sistemarono per file ordinate, assentendo a bocca aperta alle parole di frate Antonio. La notizia del prodigio passò di bocca in bocca e le piazze si riempirono nuovamente per ascoltare quel santo predicatore.

    Leggiamo negli scritti del Santo:

    "Come le folgori si sprigionano dalle nubi, così dai santi predicatori emanano opere meravigliose. Scoccano le folgori quando dai predicatori balenano i miracoli; ritornano le folgori quando i predicatori non attribuiscono le loro forti gesta a se stessi, ma alla grazia di Dio".

    Notizia delle folgori e dei miracoli giunse anche all’orecchio di San Francesco. E quando il Poverello d’Assisi decise, in obbedienza a Papa Onorio III, d’inviare missionari nella Francia meridionale per convertire i catari e gli albigesi, pensò subito ad Antonio.

    In Francia contro gli eretici

    In terra francese, Antonio giunse nel tardo autunno del 1224 e vi rimase un paio d'anni, fino alla morte del Santo Fondatore.

    La sua fama, però, di martello degli eretici l'aveva preceduto; scrive l’Assidua:

    "Nessun riguardo alle persone lo piegava, né si lasciava sedurre da alcun plauso umano; ma, secondo la parola del profeta, simile ad un carro per trebbiare, munito rostri taglienti, egli spianò i monti e ridusse le colline in polvere".

    La Provenza, la Linguadoca, la Guascogna sono le regioni che più di altre beneficarono della predicazione di frate Antonio; Arles, Montpellier, Tolosa le città più popolate dagli eretici.

    A riguardo della sua arte oratoria, un cronista dell’epoca, il francese Giovanni Rigauldt, dice che

    "gli uomini di lettere ammiravano in lui l'acutezza dell'ingegno e la bella eloquenza… Calibrava il suo dire a seconda delle persone, così che l’errante abbandonava la strada sbagliata, il peccatore si sentiva pentito e mutato, il buono era stimolato a migliorare, nessuno, insomma, si allontanava malcontento".

    È difficile ricostruire, dato il silenzio delle fonti, l’itinerario antoniano in terra di Francia. Si sa per certo che nel novembre del 1225 partecipò al Sinodo di Bourges, convocato dal Primate d'Aquitania per valutare la situazione della Chiesa francese e per pacificare le regioni meridionali. All'arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, Frate Antonio, invitato quel giorno a predicare, disse a bruciapelo:

    "Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale... L'esempio della vita dev'essere l'arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna...".

    Quel che il Santo disse poi non ci è pervenuto; si sa, però, che l'arcivescovo di Bourges, colpito dalle parole d'Antonio, si gettò ai suoi piedi chiedendo perdono per i suoi peccati.

    Le doti di Antonio erano apprezzate anche dentro le mura di casa, tra i francescani, tanto che il Provinciale della Provenza, Fra Giovanni Bonelli da Firenze, lo nominò dapprima Guardiano del convento di Le-Puy e poi Custode (superiore, cioè) di un gruppo di conventi attorno a Limoges.

    Lassù nel Limosino, vicino a Brive, aveva scoperto, in un bosco di castagni e di querce, una grotta che gli ricordava gli anni passati nel romitorio di Montepaolo, e lì amava ritirarsi, da solo, in una grande austerità di vita, applicandosi alla contemplazione e alla preghiera.

    Ancora oggi, Brive è un centro di forte spiritualità antoniana, anche in virtù del ricordo di molti miracoli operati, il più celebrato dei quali è quello della bilocazione (un fenomeno soprannaturale che premette la presenza contemporanea di una persona in due luoghi diversi). Antonio era sceso a Montpellier per il sermone di Pasqua, quando all'improvviso –a metà della predica – gli sovvenne che a quell’ora i suoi confratelli di Brive (a centinaia di chilometri di distanza) stavano riuniti in coro per la consueta recita del breviario. Senza scomporsi, zittì per alcuni secondi... poi riprese a predicare: in quegli attimi di silenzio si materializzò come d'incanto tra i confratelli di Brive, dove intonò l’Alleluia pasquale e subito dopo disparve.

    Nel romitorio di Brive si concluderà la sua esperienza francese. Il 3 ottobre 1226, al tramonto, in una cella della Porziuncola, moriva Francesco d’Assisi, il capo spirituale dei francescani, a soli 44 anni. La notizia della morte fu portata in Francia da una lettera circolare di frate Elia, vicario generale dell'Ordine, che fissava per la Pentecoste dell’anno seguente il Capitolo per la nomina del successore. L'invito per quel Capitolo era esteso anche ad Antonio, superiore dei conventi di Limoges.

    Padova, seconda patria

    Il primo sole di primavera già riscaldava le giornate quando Antonio s'accomiatò – non senza qualche rimpianto – dai suoi frati della Custodia di Limoges per raggiungere Assisi. Il Santo presagiva che quel distacco sarebbe stato definitivo e che la Provvidenza lo stava chiamando altrove.

    L’appuntamento per il Capitolo Generale era ormai prossimo e il viaggio si prospettava lungo e disagevole. Come frate Antonio abbia raggiunto – se per mare o per terra – l'Umbria non c'è dato sapere. Tacendo le fonti storiche, però, ancora una volta parla la leggenda. Un'antica tradizione popolare racconta, con dovizia di particolari, che Antonio prese il mare a bordo di un veliero e che una violenta tempesta lo sospinse – per la seconda volta – sulle coste della Sicilia.

    Nella chiesa di Santa Maria, a Cefalù, si conserva un calice che egli avrebbe usato per celebrare l’Eucaristia. Lo testimonia un’iscrizione marmorea colà conservata:

    "Vieni, vedi et honora / tra queste sacre mura / il calice in cui bevve / e la campana sonora / di Antonio il padovano: / memoria sono e doni della sua mano".

    La campana menzionata è quella "miracolosa" di un vicino convento: regalo d’Antonio per quei frati che tanto desideravano possederne una. Il miracolo sta nel trasporto: avutala lui stesso in dono, per portarla fin lì se l'era dovuta caricare sulle spalle!

    Un altro calice è conservato a Vizzini, nel convento che sorge accanto alla chiesa dell'Annunziata, e nel cui chiostro si può ammirare una piccola grotta dentro la quale – si dice – avrebbe soggiornato per qualche tempo Antonio.

    A Messina, invece, nella bella chiesa dell’Immacolata è conservata una pietra spruzzata dal sangue del Santo durante una delle sue flagellazioni penitenziali.

    Ma lasciamo la Sicilia e risaliamo ad Assisi. Di certo, Antonio lo troviamo lassù il 30 maggio 1227, festa di Pentecoste e giorno scelto per l’apertura del Capitolo Generale, che doveva eleggere il successore di San Francesco.

    Tutti s'aspettavano che da quel Capitolo uscisse eletto frate Elia, il vicario generale di Francesco e suo fedele compagno di missione in Oriente. Ed invece non fu così. Geniale organizzatore ma di temperamento piuttosto focoso, i superiori dell’Ordine gli preferirono il più prudente Fra Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna.

    Fra Giovanni era il superiore che accolse Antonio tra i francescani e che il Nostro sperava d’incontrare già nel Capitolo del 1221. Quell'incontro mancato di sei anni prima avvenne, invece, all'indomani dell'elezione del nuovo Ministro Generale. Quella volta, Antonio non dovette aspettare che tutti i frati se ne fossero tornati nelle loro province per cercarsi un superiore che – al pari di Fra Graziano – lo prendesse con sé. La prima mossa la fece Fra Graziano, che ben conosceva le doti intellettuali e le virtù del suo giovane frate portoghese. Chiamatolo, lo nominò Ministro Provinciale per l'Italia settentrionale; in pratica, la seconda carica – per importanza – dopo la sua.

    Antonio aveva 32 anni e soltanto altri quattro gliene riservava la Provvidenza: saranno, però, gli anni che tramanderanno nei secoli la sua santità.

    Dal Friuli alla Liguria

    Come tutte le cariche, anche quella d'Antonio assommava gli oneri agli onori. Il prestigio che godeva nell'Ordine da quel momento avrebbe dovuto dimostrarlo sul campo.

    Come Antonio abbia corrisposto ai suoi doveri di superiore ce lo riferisce una delle cronache antiche, la Benignitas:

    "Resse con lode per più anni il servizio dei frati, e sebbene per eloquenza e dottrina si può dire superasse ogni uomo d’Italia, tuttavia nell’ufficio di prelato si mostrava cortese in modo mirabile e governava i suoi frati con clemenza e benignità”.

    Giovanni Rigauld, il suo biografo francese, dirà che nonostante la carica di Guardiano

    non sembrava affatto superiore, ma compagno dei frati; voleva essere considerato uno di loro, anzi inferiore a tutti. Quando era in viaggio, lasciava la precedenza al suo compagno… E pensando che Cristo lavò i piedi ai suoi discepoli, lavava anche lui i piedi ai frati e si adoperava a tenere puliti gli utensili della cucina...".

    Queste parole trovano eco nei Sermoni, scritti in quegli anni dal Santo, dove si legge:

    "La vita del prelato deve splendere d’intima purezza, dev’essere pacifica con i sudditi, che il superiore ha da riconciliare con Dio e tra loro; modesta, cioè di costumi irreprensibili; colma di bontà verso i bisognosi. Invero, i beni di cui egli dispone, fatta eccezione del necessario, appartengono ai poveri, e se non li dona generosamente è un rapinatore, e come rapinatore sarà giudicato. Deve governare senza doppiezza, cioè senza parzialità, e caricare se stesso della penitenza che toccherebbe agli altri… Inargentino i prelati le loro parole con l’umiltà di Cristo, comandando con benignità e affabilità, con previdenza e comprensione. Ché non nel vento gagliardo, non nel sussulto del terremoto, non nell’incendio è il Signore, ma nel sussurro di una brezza soave ivi è il Signore".

    E ancora:

    "Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L’amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi".

    La Regola francescana imponeva ai Ministri Provinciali di visitare i conventi e i religiosi affidati alle loro cure:

    "I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino e ammoniscano i loro fratelli e li correggano con umiltà e carità… Benché sia permesso di provvedersi un buon corredo di cultura, pur si ricordi più di ogni altro di essere complice nei costumi e nel contegno, favorendo così la virtù. Abbia in orrore il denaro, rovina principale della nostra professione e perfezione; sapendo di essere capo di un Ordine povero e di dover dare il buon esempio agli altri, non si permetta alcun abuso in fatto di denaro. Non sia appassionato raccoglitore di libri e non sia troppo intento allo studio e all’insegnamento, per non sottrarre all’ufficio ciò che dedica allo studio. Sia un uomo capace di consolare gli afflitti, perché è l’ultimo rifugio dei tribolati, onde evitare che, venendo a mancare i rimedi per guarire, gli infermi non cadano nella disperazione. Per piegare i protervi alla mansuetudine non si vergogni di umiliare e abbassare se stesso rinunciando in parte al suo diritto per guadagnare l’anima".

    Come compagno e collaboratore, Antonio aveva scelto frate Luca Belludi, un giovane padovano che aveva conosciuto e apprezzato quando ancora girava per quelle terre come predicatore. Con lui iniziò la visita pastorale nell'immensa Provincia. Cominciò dall'estremità orientale, da Trieste: di lì sconfinò in Istria e Dalmazia suscitando numerose vocazioni e aprendo nuovi conventi a Pola, Muggia e Parendo; rientrato in Friuli, passò per Udine, Cividale, Gorizia e Gemona.

    In quest’ultimo paese "risuscitò" un ragazzo. Mentre con alcuni confratelli stava costruendo una cappella, vedendo passare un carro quasi vuoto, nell’intento d'alleviare un po' di fatica, chiese al carrettiere che li aiutasse a trasportare pietre e mattoni. "Lo farei volentieri – mentì quello – ma sul carro c’è mio figlio morto e lo sto portando al cimitero dove m’aspettano per la sepoltura". Il Santo si scusò e si rimise al lavoro. In realtà, il ragazzo dormiva sdraiato sul carro, ma quando suo padre cercò di svegliarlo per farsi con lui quattro risate, lo trovò morto per davvero. Preso dallo sconforto e dal rimorso, fece dietrofront e spronò il cavallo alla ricerca dei frati. Raggiuntili, si gettò ai piedi del Santo supplicandolo di richiamare in vita il figliolo. Le cronache raccontano che Antonio alla fine lo perdonò, ottenendo da Dio che il ragazzo tornasse in vita.

    Lasciata Gemona il Santo si recò in visita alle comunità di Conegliano, Treviso, Venezia ... Ed eccolo finalmente a Padova, prima di proseguire per i conventi dell’Emilia, della Lombardia e della Liguria…

    A Padova, la città del cuore

    Nella quaresima del 1228 eccolo a Padova, la sua seconda patria, la città alla quale legherà per sempre il suo nome. A Lisbona nasce Fernando, erede di un nobile casato; a Padova muore Antonio, il Santo delle grazie.

    "Exulta, Lusitania felix; o felix Padua gaude… Esulta, contento, o Portogallo; rallegrati Padova perché avete generato alla terra e al cielo un uomo che non brilla meno di una stella fulgente".

    Così chiamerà Papa Pio XII nel 1946 nel proclamare Sant'Antonio "dottore della Chiesa universale".

    La Padova di quel tempo ce la descrive il poeta padovano Diego Valeri, nativo di Piove di Sacco: "Era una piccola città medievale, poco più che un nobile borgo, compatto, fosco, irto di torri, dove le vie anguste, fiancheggiate da portici alti e bassi, si svasavano ai piedi di una chiesa romanica o sfociavano in vasti spiazzi su cui cresceva l’erba. Il Palazzo delle Ragione era ancora uno scheletro e l’università mandava appena i primi vagiti". In questa città pressoché al centro dello scacchiere della sua Provincia, Antonio risiedeva appena libero dagli impegni di apostolato.

    Poco fuori città, ad Arcella, sorgeva un convento di clarisse con accanto un ospizio di frati che il Santo ampliò grazie ad un pezzo di terra donatogli dal vescovo Iacopo Corrado. Qui amava ritirarsi a pregare e a studiare: in quel romitorio comincerà a scrivere i Sermoni domenicali. Antonio non smise mai, però, di dedicarsi alla predicazione e al ministero sacerdotale, anche se poco era il tempo che la carica di superiore gli lasciava a disposizione. A Padova, con l’aiuto di Fra Luca Belludi, seppe coltivare preziose amicizie che gli saranno d’aiuto nella sua carità verso i poveri, soprattutto nel suo secondo e definitivo soggiorno.

    Antonio amava Padova e ne era riamato. Tutti lo volevano, tutti accorrevano alle sue prediche. Un cronista coevo, certo Rolandino, c’informa che "il Beato Antonio predicava la parola di Dio con voce melliflua...'". Divenne amico del superiore dei benedettini, l’abate Giordano Forzatè, e del conte Tiso di Camposampietro, facoltoso e generoso benefattore dei francescani. Nel giardino dei conti Papafava e dei Carraresi la tradizione colloca la pietra sulla quale Antonio saliva per predicare.

    Seppure di pochi mesi soltanto, il primo soggiorno patavino di Antonio fu sufficiente per stabilire preziosi legami spirituali che gli fanno decidere, una volta scaduto il mandato di Ministro Provinciale nel 1230, di ritornarvi definitivamente.

    Gli amici migliori, per vita e pietà cristiana, li raccolse in una specie di confraternita, che dal nome della chiesa di Santa Maria della Colomba, dov’erano soliti ritrovarsi, presero il nome di "Colombini". Avevano per divisa un saio bigio e si dedicavano alle opere caritative a favore dei poveri.

    Tre anni durò quel suo girare per i conventi, da una regione all’altra. Tra anni faticosi, ma spesi bene. Antonio incarnò, agli occhi dei suoi confratelli, la regola francescana vissuta quotidianamente. Il profilo del superiore, che Antonio traccia nei Sermoni, è il suo profilo:

    "Colui che è costituito superiore deve eccellere per purezza di vita, modellata su una larga cognizione delle Sacre Scritture; deve saper parlare con facilità e facondia; essere fervoroso nell’orazione, misericordioso verso i propri dipendenti, pur mantenendo la perfetta disciplina tra loro, curando sollecitamente le anime che gli sono affidate. Egli deve saper usare la verga dorata della benignità con la quale, mentre corregge, usa la dolcezza di un padre, anzi di una madre".

    Arca del Testamento

    Durante il suo mandato di Superiore dell’Italia settentrionale, Antonio lasciò la Provincia soltanto in due occasioni, nel 1228 e nel 1230: entrambe le volte – per diversi mesi – le mete furono Roma e Assisi. Dicono i biografi che il Santo si lasciasse distogliere malvolentieri dalla cura dei suoi frati. Antonio Scandaletti, uno fra gli scrittori più recenti, scrive addirittura che "ad Antonio non dev’essere piaciuto frequentare né Roma né Assisi". Egli argomenta il suo ragionamento così:

    "Amava certamente poter pregare sulla tomba del primo degli apostoli, oppure scambiare opinioni e fare progetti sui temi e sui modi dell’evangelizzazione, cioè sulle cose che davvero gli stavano a cuore, con qualche buon prelato della curia o uomo colto della capitale. Amava anche raccogliersi nella città che fu culla del movimento francescano e intrattenersi con qualche saggio confratello sulla condotta dell’Ordine. Tuttavia, lo tratteneva l'idea che agl’incontri s'accompagnava quasi sempre il coinvolgimento in questo o in quell’imbroglio, in questa o quella disputa… Vi si recò quando non poté proprio farne a meno, quando l'obbedienza glielo imponeva".

    Come nel marzo del 1228, quando il Ministro Generale, Fra Giovanni Parenti, lo mandò a chiamare "per un’urgente necessità della sua famiglia religiosa". Questo si legge nelle pagine dell'Assidua. In cosa consistessero quelle difficoltà lo sappiamo, però, da altre fonti.

    Venne chiamato da Fra Giovanni – ormai vecchio e poco versato nelle questioni teologiche – a far da paciere tra l'ala conservatrice dell’Ordine e quella dei riformatori. Fu scelto anche in virtù del suo passato: s’era battuto vittorioso, con Francesco, per aprire ai frati la via dello studio, né per questo s'era montato la testa; alle comodità delle abbazie aveva mostrato di preferire i romitori, dalla collina degli ulivi di Coimbra, alle grotte di Montepaolo e di Brive; divenne predicatore per obbedienza, mentre preferiva servire i confratelli nella carità.

    Dava perciò ampie garanzie d'imparzialità ad entrambi gli schieramenti contrapposti.

    Venuto a mancare prematuramente il Fondatore, e ingigantitosi a dismisura e in poco tempo, l’Ordine dei francescani non era più quell'allegra brigata che aveva conquistato il giovane Fernando.

    Governare, poi, decine di migliaia di frati disseminati per tutta l’Europa non era impresa affatto facile: c’era chi spingeva ad un maggior impegno negli studi (quindi a privilegiare il frate sacerdote a discapito del frate laico) e chi a mitigare la rigida povertà di Francesco con una regolamentazione più consona ad una comunità che da "girovaga" stava trasformandosi in "residenziale".

    Questo, in sintesi, il nocciolo della disputa, ma per quei tempi e per quegli uomini erano – quelle – questioni di vita o di morte dell’Ordine.

    Più ne discutevano e più gli animi si riscaldavano, orami la disputa si era radicalizzata: o con Francesco o contro Francesco. Era giunto alfine il momento – e qui tutti si dicevano d’accordo – di sottoporre la questione al Papa.

    E chi meglio di frate Antonio avrebbe potuto esporre a papa Gregorio IX i termini della questione? Per questo Fra Giovanni l'aveva fatto venire con urgenza a Padova, e con altrettanta fretta lo spedì a Roma.

    Ospite del Papa

    Di come Antonio portò a termine le incombenze non conosciamo i particolari. Supponiamo che colse i frutti per cui era stato inviato, se il Papa anziché congedarlo, lo trattenne con sé per predicare a lui e ai cardinali le meditazioni quaresimali.

    Certamente Papa Gregorio IX rimase favorevolmente impressionato da quel giovane frate, dalla sua facondia non disgiunta dall’umiltà. Conosceva a menadito le Sacre Scritture, eppure nelle sue argomentazioni non c’era l’arroganza dell’erudito: "Sapeva adattare le cose spirituali agli spirituali", racconta l'Assidua. Quelle prediche furono un vero successo, tanto che l’ottuagenario Pontefice, rompendo ogni protocollo, lo chiamò arca del Testamento, peritissimo esegeta, esimo teologo. Quattro anni più tardi, canonizzandolo, ricorderà quei giorni di quaresima: "personalmente sperimentammo la santità e l’ammirevole vita di lui, quando ebbe a dimorare con grande lode presso di noi".

    Non soltanto il Papa ne fu ben impressionato, ma tutti i cardinali e i prelati di curia, i quali – scrive ancora l'Assidua –"l’ascoltarono con devozione ardentissima" e qualcuno di loro lo invitò a predicare al popolo.

    Erano i giorni della Settimana Santa e a Roma confluivano pellegrini da ogni parte per lucrare le indulgenze. Si udivano più lingue e dialetti in quella folla, che s’era radunata per ascoltare il "predicatore del Papa", di quanti non se ne sentissero nella biblica Babele. Antonio, che ben conosceva alcune di quelle lingue, s'accinse a predicare nella volgata del popolo di Roma. Man mano che parlava, quella gran folla l'ascoltava attonita: tutti "sentivano e capivano" come il Santo si esprimesse contemporaneamente nell’idioma nativo di ciascuno. Si ripeteva il grande prodigio della Pentecoste e tutti ne erano edificati.

    A tal proposito dice Leonardo Frasson, appassionato studioso del Santo:

    "Da tutto ciò emerge la statura di un predicatore edotto e popolare, ma anche e soprattutto la figura di un oratore santo, di un predicatore carismatico, dotato cioè di un dono che supera la sua stessa umanità e lo rende irraggiungibile e tetragono ad ogni attacco, da qualunque parte gli potesse venire... Quel suo modo di comportarsi così umanamente disarmato e disarmante, quel suo linguaggio così libero e fiero e nello stesso tempo così umano, quella sua cura di non affermare mai nulla che non sia contenuto nella parola divina o non sgorghi direttamente da essa, quel suo appassionato impegno d’immergersi nella realtà viva, tumultuosa e contraddittoria, gli derivano dalla coscienza profonda di essere e di sentirsi un inviato da Dio, in virtù dell'ordine sacerdotale di cui è investito… Ma quel librarsi così in alto, quell’imporsi su tutto e su tutti con tanto vigore d’eloquenza, con tanta umiltà e carità, come giudice imparziale e fustigatore inesorabile di costumi devianti dalle norme evangeliche ed ecclesiastiche in persone gerarchicamente più elevate di lui, tutto ciò non si spiega se non col fatto che dalla sua parola e più ancora dalla sua condotta si sprigionava una potenza carismatica così alta e sensibile, che finiva per essere riconosciuta ed accettata universalmente".

    Sulla tomba di Francesco

    Passata la Pasqua, Antonio prese commiato e se ne tornò ad Assisi per riferire all'amico Superiore l'esito dell'ambasciata romana. Ancora una volta, le fonti tacciono, né riveste soverchia importanza saperlo, perché di lì a pochi mesi il Papa sarebbe venuto di persona ad Assisi per presenziare alla canonizzazione di frate Francesco.

    Il 16 luglio 1228, infatti, "un’onda di gioia intensa avvolse il cielo e la terra", racconta Tommaso da Celano, testimone oculare. Migliaia di frati facevano corona al Santo Padre, il quale concluse il suo elogio con questa preghiera:

    "A lode e gloria dell’onnipotente Iddio, Padre, Figlio e Spirito Santo, della gloriosa Vergine Maria, dei beati apostoli Pietro e Paolo e ad onore della gloriosa Chiesa romana, mentre veneriamo in terra il beatissimo padre Francesco, che il Signore ha già glorificato nei cieli; udito il consiglio dei nostri frati cardinali e di altri prelati, decretiamo che il suo nome venga inserito nel catalogo dei santi".

    Al termine del rito, Papa Gregorio, preceduto da un'interminabile processione di frati e di popolo salmodianti, si portò nel recinto dell’erigenda basilica, che avrebbe custodito il corpo di Francesco, e vi benedì la prima pietra.

    L'indomani, Papa Gregorio IX ritornò a Roma e Antonio poté finalmente ripartire per la sua Padova, dalla quale ormai mancava da parecchi mesi.

    Il secondo viaggio

    Due anni più tardi, nel 1230, la grandiosa basilica era pronta. Frate Elia aveva fatto davvero in fretta e bene. Il Capitolo Generale dell'Ordine era fissato, come di consueto, per Pentecoste. Anche Antonio, come Superiore dell’Italia del nord, vi doveva intervenire, e ci andò volentieri per l'ultimo omaggio al Santo Fondatore, del quale in quell’occasione venivano traslate le spoglie dalla chiesa di San Giorgio alla cripta della nuova basilica.

    Il papa Gregorio IX, rimasto a Roma per ragioni di governo (i contrasti con Federico II erano giunti ad una fase cruciale), aveva inviato ad Assisi ben tre Cardinali Legati, latori della Bolla Mirificans misericordias, nella quale scriveva:

    "In mezzo alle tribolazioni che ci circondavano abbiamo pur motivo di rallegrarci e di rendere grazie a Dio, pensando alla gloria concessa al beato Francesco, padre nostro e vostro, e forse più nostro che vostro… Perciò ci sentiamo sempre più animati a sciogliere lodi a questo grande santo, convinti che, come ci portò affetto nel mondo, voglia amarci ancor più adesso che trovasi unito a Gesù Cristo, amore infinito, e voglia continuare a intercedere per noi ...".

    L'inaugurazione della basilica era fissata per il 25 giugno. Ancora una volta i frati erano accorsi a migliaia da ogni parte d'Europa, e con loro sfilarono in processione vescovi, prelati, autorità; c’era tutta Assisi e dintorni, due file d’armigeri cercavano a stento di contenere la folla. Gli animi erano eccitati, tutti volevano vedere e toccare la bara; la folla ondeggiava paurosamente e il servizio d'ordine era ormai impotente a disciplinare quel flusso scomposto che s’accalcava all’ingresso della basilica. Con pronto intuito – ma, ahimè, col senno di poi contestato – frate Elia fece sbarrare le porte dai soldati e scese con pochi intimi nella cripta, dove provvide a "mettere in salvo" (così in seguito giustificò il suo gesto) il corpo di San Francesco dietro pesanti lastroni di marmo. Vi rimarrà laggiù fino al 1818, quando Papa Pio VII ne autorizzerà la rimozione.

    Nel frattempo la rabbia della folla, ammassata contro le porte sbarrate e delusa della piega che avevano preso gli avvenimenti, degenerò presto in una rissa collettiva. Lo scandalo fu grande, e ancor più le proteste. Al Papa, lontano, l'eco riportò notizie ingigantite e distorte; così Gregorio IX minacciò di scomunica i colpevoli, se non avessero addotto motivi plausibili. Frate Elia spiegò le sue ragioni e gi animi a poco a poco si placarono.

    In quel clima piuttosto turbolento, Fra Giovanni Parenti presiedeva le sedute del Capitolo Generale. La sopita polemica di due anni prima tornò a galla e i frati di divisero nuovamente in due fazioni. Ad aggravare le cose era il problema del testamento di San Francesco (in cui veniva vigorosamente ribadita la necessità della povertà assoluta) e di chi voleva inserirlo, come parte integrante, nella Regola dell’Ordine. Anche stavolta lo spirito di saggezza portò a rimettere la questione nelle mani del Papa. Che decidesse lui, una volta per tutte!

    Venne, per quest'ambasceria, nominato un comitato di sette frati, tra cui Antonio. Gregorio IX li ascoltò e chiese tempo per pensarci su. Pochi mesi dopo, il 28 settembre, col la Bolla Quia elongati il Papa dirimerà definitivamente la questione, riappacificando gli animi.

    Tornando ad Assisi, Antonio chiese ed ottenne d’essere sollevato dall'incarico di Ministro Provinciale. Numerosi acciacchi, che presto sarebbero peggiorati tanto da condurlo in meno di un anno alla morte, lo infastidivano ormai da tempo.

    Nell'accomiatarsi dal Ministro Generale (che gli aveva concesso piena libertà di darsi alla predicazione ovunque volesse) gli chiese il permesso di ritirarsi a Padova, dove gli succedette come Superiore il pisano Fra Alberto.

    Dalla parte dei poveri

    Sul finire dell’estate del 1230, Antonio rientrò a Padova e prese dimora presso il convento di Santa Maria Mater Domini, che sorgeva dov'è oggi la basilica eretta in suo onore. Partito come Superiore vi ritornava come semplice frate.

    L'obbedienza l'aveva portato in giro per l’Europa, in posti che altri sceglievano per lui. Gli dicevano di predicare, e lui predicava; lo mandavano in Francia a convertire gli eretici, e lui ci andava; lo nominavano Ministro Provinciale, e lui governava. Da quando, su quel pagliericcio in Marocco, consumato dalle febbri malariche, s'era messo nelle mani di Dio, sempre conformò la sua vita ai voleri dei Superiori.

    E la Provvidenza, così docilmente assecondata, lo portò in pochi anni dagli umili lavori di cucina del romitorio di Montepaolo alla predicazione del quaresimale nientemeno che davanti al Santo Padre!

    Erano passati soltanto nove anni da quando vagava per Assisi – al tempo del suo primo Capitolo –in cerca di qualcuno che lo prendesse con sé. Ora tutti lo volevano, tutti lo cercavano. Era diventato, suo malgrado, una celebrità. Era la fiaccola che i confratelli ponevano sul candelabro quando c'era da far belle figura. E lui pronto sempre a dire di sì.

    Ecco, tra le sue mille virtù, la generosità è forse la meno reclamizzata, assieme all’umiltà. Ai vertici della "carriera" ancor giovane, superiore di una Provincia vastissima e strategicamente importante, consigliere personale del Ministro Generale, teologo ufficiale dei francescani per “decreto” di frate Francesco, ambasciatore dell’Ordine presso il Papa... Non c'è uomo che possa rinunciare a cuor leggero a tutto questo. A meno che non si chiami Sant'Antonio!

    Ma lui era fatto così: il desiderio di fama ed onori era rimasto sepolto (assieme a Fernando) dentro i chiostri dell’abbazia agostiniana di Coimbra, molti anni addietro. Il frate che risalì la collina degli ulivi appresso agli "straccioni" di Francesco non era rigenerato soltanto nel nome del battesimo, ma anche nell’anima. Alla scuola dei nuovi confratelli scoprirà il Vangelo e i suoi protagonisti: Dio e il Prossimo.

    Se il Signore poteva incontrarlo ovunque, era fuor di dubbio che il Prossimo l'avrebbe trovato più facilmente in mezzo alla gente. Quel che gli mancava per completare il suo curriculum era, forse, un nuovo tipo d'apostolato, a 360 gradi, a contatto di gomito con tutto il Popolo di Dio.

    La scelta d’Antonio cadde su Padova, una città che conosceva ed amava, e che pur sapeva bisognosa di cure pastorali attente ed assidue. Lì avrebbe portato a termine – ultima incombenza rimastagli – la stesura del secondo volume dei Sermoni, quello delle prediche per le feste dei santi, che gli era stato commissionato dal Cardinale Rinaldo Conti, più tardi Papa col nome di Alessandro IV. Poi, finalmente libero da impegni esterni, si sarebbe dedicato all’apostolato diretto. E così fece. Due i campi che privilegiò: la predicazione e il confessionale. La grande quaresima del 1231, l'ultima della sua vita terrena, sarà il suo capolavoro, il suo testamento spirituale.

    Tuonante dal pulpito

    Un confratello del Santo, padre Vergilio Gamboso, francescano dei nostri giorni, sostiene – a ragione – che Antonio non era tornato a Padova per starsene in pace. E dipinge così la città:

    "Come vita politica possedeva più o meno gli stessi pregi e difetti dei Comuni italiani del tempo. Abbondavano le soperchierie, le contese fra nobili spodestati e popolani arricchiti, ogni città vicina era considerata e trattata da nemica. Il benessere non mancava: l’agricoltura, l’artigianato, i traffici attiravano entro le turrite mura ruscelli d’oro. Il denaro aveva i suoi eroi e le sue vittime, l’usura serpeggiava, gli umili non potevano sottrarsi ai continui soprusi".

    La piega che prese la predicazione di Antonio – inutile dirlo – aveva pregnanti risvolti nel sociale. Dal pulpito si schierò apertamente dalla parte dei poveri, degli oppressi, degli affamati.

    Sferzava soprattutto chi praticava l'usura, uno dei mali peggiori della sua epoca, dicendo:

    "Spine sono le ricchezze, che pungono e fanno uscire sangue; bestie feroci sono i perfidi usurai, che rapinano e divorano... Ampia è la via che porta alla dannazione. Ampia non per i poveri di Cristo, che entrano per la porta stretta, ma per gli usurai che di tutto il mondo si sono già impadroniti con mani rapaci. Razza maledetta, sono cresciuti forti e innumerevoli sulla terra, e hanno denti di leone. L’usuraio non rispetta né il Signore, né gli uomini; ha i denti sempre in moto, intento a rapinare, maciullare e inghiottire i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove… E guarda che mani osano fare elemosina, mani grondanti del sangue dei poveri. Vi sono usurai che esercitano la loro professione di nascosto; altri apertamente, ma non in grande stile, onde sembrare misericordiosi; altri, infine, perfidi, disperati, lo sono apertissimamente e fanno il loro mestiere alla luce del sole".

    Anche sulla fonte dei loro guadagni il Santo aveva le idee chiare:

    "Donde vengono a costoro tanti averi? Dalle ruberie e dalle frodi. Lo scarabeo raccoglie molto sterco e con grande travaglio lo appallottola; ma d’un tratto un asino che mette lo zoccolo sullo scarabeo e il suo sozzo bottino, spiaccicando l’uno e l’altro in un attimo. In simil modo l'avaro e il frodatore accumulano ricchezza, ma a tradimento capita il demonio e li strangola. Allora l’anima tocca ai demoni, la carne ai vermi, le sostanze ai parenti".

    Continua ancora:

    "C’è di peggio, agli strozzini non basta respingere e soffocare la buona ispirazione di Dio, vogliono scacciarla anche dal cuore della moglie e dei figli. Se un figliolo scosso dal timore del giudizio di Dio e dell'Inferno propone di vivere onestamente, e il padre viene a saperlo, con ogni suo potere tenta di respingere questa grazia. Quanti mali perpetrano questi omicidi! Uccidono in se stessi e negli altri il pentimento e il ricordo della Passione di Cristo".

    Questa lunga citazione ci fornisce più di un'indicazione per capire di che pasta fosse fatto il Santo. Innanzitutto ci dice quanto conoscesse in profondità la società in cui operava. Non parlava per sentito dire e non colpiva mali occasionali, ma di pubblico dominio e di vasta portata sociale. Usava parole violente per centrare il problema, senza inutili giri di parole, individuando chiaramente i colpevoli e le vittime. Ma non si limitava alla denuncia dei mali e ai danni materiali che questi provocavano. Il suo compito di sacerdote lo portava a indicare il peccato insito nell'atto malvagio. Nella fattispecie, l'usuraio peccava tre volte: contro gli uomini, contro la sua coscienza, contro Dio.

    La predica contro gli usurai – una fra le più note – vuole essere soltanto un esempio di come Antonio affrontava la predicazione e della logica stringente delle sue argomentazioni, impreziosite da immagini semplici, comprensibili da tutti. Nelle sue prediche, dalle quali emerge "un uomo che ama la chiarezza nel pensare e la coerenza nell’agire" (come sostiene padre Pietro Scapin, profondo conoscitore dei Sermoni), non guardava in faccia nessuno, "semmai fu animoso coi potenti, misericordioso coi poveri, pietoso davanti alle miserie umane. In nessun caso, però, a spese del giusto e del vero".

    I poveri, ascoltando le sue prediche, si sentivano compresi e consolati. Diceva il Santo:

    "La natura ci genera poveri, nudi si viene al mondo, nudi si muore. È stata la malizia che ha creato i ricchi, e chi brama diventare ricco inciampa nella trappola tesa dal demonio. O povertà sempre lieta quando è autentica, tesoro che i figli dei demoni odiano; le delizie tue propongono un sapore di eterna dolcezza ai tuoi amatori".

    Misericordioso in confessionale

    Se il pulpito era il terreno scelto da Antonio per la semina della Parola di Dio, il confessionale era l’aia dove lui mieteva il raccolto. Che farsene di una marea d’uditori ai piedi del pulpito, se poi il confessionale restava deserto? Il Santo chiamava il sacramento della penitenza "casa di Dio, perché lì i peccatori si riconciliano con lui, come il figliol prodigo si concilia col padre suo". E passava intere giornate a confessare, né si stancava di ripetere:

    "Come ti sei confessato, così devi emendarti; vi sono parecchi che confessano i loro peccati, ma non si emendano mai; il vero penitente deve aver fisso nell’anima il proposito di non ricadere nella colpa".

    Attorno al confessionale del Santo sono fioriti numerosi fioretti. Il più famoso – raffigurato in un bassorilievo di Donatello – ce lo racconta la Benignitas, una delle biografie antiche:

    "Un padovano confessò una volta, tra gli altri peccati, d’aver colpito con un calcio sua madre, tanto da farla cadere. Il beato padre Antonio che deplorava simili iniquità, trasportato dallo zelo, esclamò: il piede che percuote il padre o la madre meriterebbe di essere tagliato! Quell’uomo, prendendo alla lettera il senso di quelle parole, tornato casa si mozzò davvero il piede. La fama di una così severa punizione fece il giro della città e arrivò alle orecchie di Antonio. Egli recatosi a casa di quell’uomo, dopo una devota preghiera, avvicinò il piede reciso al tronco della gamba facendovi il segno della croce. Cosa mirabile: appena il Santo ebbe accostato il piede alla gamba, subito questo vi restò attaccato. L’uomo si alzò gioioso, lodando ed esaltando Dio".

    La grande quaresima

    Quei quaranta giorni, dal 6 febbraio al 23 marzo 1231, furono per Antonio sintesi mirabile del suo impegno apostolico: predicazioni e confessioni erano le sole incombenze che scandivano il ritmo delle sue giornate.

    La predicazione quotidiana in quaresima era una novità assoluta per quei tempi. L'Assidua conferma quanto l’invenzione del Santo fosse azzeccata:

    "Venivano folle innumerevoli dalla città e dal contado, accorrevano cavalieri e matrone, vecchi e giovani, uomini e donne di ogni condizione, tutti desiderosi di ascoltare la parola di vita e di provvedere alla propria salvezza; anche il Vescovo con il suo clero seguiva devotamente la predicazione".

    Per la vita cittadina furono giorni di pacificazione e di rinnovato vigore morale: "Si appianarono le discordie e si sciolsero le liti, il maltolto venne restituito, detenuti vennero liberati, ladri e prostitute cambiarono abitudini di vita". Ma dove metterli tutti? Non c’erano a Padova chiese tanto grandi da contenere tutta quella marea di gente, per cui Antonio, "crescendo sempre più il numero degli uditori, si ritirò in luoghi spaziosi tra i prati".

    Così grande era l’entusiasmo che circondava Antonio, che i suoi confratelli cominciarono a temere per la sua incolumità; venne affidato perciò a un gruppo di baldi giovanotti il compito di formare un cordone di sicurezza tra lui e la folla, anche perché – dice l’Assidua – "le donne nel fervore della devozione, portandosi delle forbici, gli tagliavano la tonaca come fosse una reliquia, e si ritenevano fortunati coloro che riuscivano a toccare almeno l’orlo del suo vestito".

    La popolarità del Santo cresceva ogni giorno, coinvolgendo tutti, anche le autorità. All’inizio della Settimana Santa si ebbe un insolito miracolo: il giorno 15 marzo 1231 "su istanza del venerabile fratello il beato Antonio, confessore dell'ordine dei frati minori", il podestà Stefano Bador stabiliva che il debitore insolvibile senza colpa, una volta ceduti in contropartita i propri beni, non venisse più imprigionato né esiliato.

    Fu così che un pezzo di predica di Antonio entrò dritto dritto nel Codice Statuario Repubblicano, modificando a favore dei meno abbienti una legge iniqua in vigore da secoli.

    Dal noce all'Arcella

    Con il canto dell’Alleluia, nella notte di Pasqua, si concluse la predicazione quaresimale di frate Antonio. Per consiglio di molti, gli occorreva adesso un po' di riposo. La salute, da anni assai precaria, era andata precipitando nelle ultime settimane. Appesantito nel fisico, gonfio e rattrappito per l'idropisia, Antonio si muoveva ormai a fatica. Più volte in quella quaresima dovettero portarlo a braccia sul luogo della predica.

    Dopo quei quaranta giorni di superlavoro, fiaccato nel parlare e nel respirare da una forma asmatica, Antonio acconsentì a ritirarsi nel convento di Santa Maria Mater Domini, per un periodo di convalescenza. Pur temendo per la sua salute, nessuno pensava, però, che fosse tanto malato da morirne. Davano la colpa del peggioramento allo stress di quelle settimane e al riacutizzarsi di vecchi malanni. Antonio, invece, presagiva che il momento del trapasso era ormai prossimo, ma – sottolinea l’Assidua – "per non recare dolore ai fratelli celava la fine imminente".

    Avrebbe atteso l’incontro con il suo Signore, nella preghiera e nel raccoglimento, dentro le mura amiche del convento, circondato dall'affetto dei confratelli. Ma la Provvidenza –come al solito – aveva in serbo per lui dei percorsi alternativi.

    Lo scontro con Ezzelino

    Spadroneggiava a quel tempo, tra Verona e Vicenza, un efferato e sanguinario tiranno, Ezzelino III da Romano, emissario dell’Imperatore Federico II contro i liberi Comuni. Di quanta ferocia egli fosse capace sta scritto in tutti i libri di storia: Dante lo metterà all’Inferno, nel girone degli omicidi, condannandolo a starsene a mollo in una pozza di sangue bollente. Con l'inganno e l'astuzia era riuscito a farsi eleggere Podestà di Verona, città guidata dai conti di Sambonifacio, con i quali aveva intrecciato un doppio matrimonio: lui con Zilia, sorella del conte Rizzardo, e questi con sua sorella Cunizza. Ma una volta ottenuto il potere, passò sopra i legami di parentela e ruppe l'alleanza con i Sambonifacio, mandando in carcere il cognato. Alcuni cavalieri del conte Rizzardo ripararono a Padova e da lì cercarono di organizzarne la liberazione.

    Fu così che verso la fine di maggio, convinto dalle pressioni degli amici e, soprattutto, dall'abate Forzatè, Antonio partì alla volta di Verona, per intercedere presso Ezzelino la grazia per il conte Rizzardo. A nulla valse la fama del Santo né il suo carisma né le parole evangeliche d'invito al perdono: Ezzelino fu irremovibile, anzi risparmiò ad Antonio la sorte del conte Rizzardo soltanto in virtù dell'abito che portava. Il notaio Rolandino, al riguardo, è telegrafico: "Non esaudito affatto, Antonio ritornò a Padova". Con quanta amarezza nel cuore è facile immaginare. Dai tempi del Marocco era questo il suo primo insuccesso. A nulla, però, possono generosità e coraggio contro i cuori refrattari al Vangelo di Cristo.

    C’è un passaggio nei Sermoni che ben rappresenta lo stato d’animo del santo in quel frangente:

    "Oh, se tu vedessi, certamente piangeresti! Imperversano vanità e falsità, calunnie dei potenti contro i miseri e giudizi iniqui contro i poveri, e tante lacrime d’innocenti non hanno consolatore. Se gli oppressori fossero esseri umani, saprebbero consolare; ma siccome sono leoni, e non uomini, allora affliggono i poveri, privi d’ogni umano aiuto e impotenti a resistere alla violenza".

    La cella sul noce

    Antonio era rientrato da Verona da qualche giorno appena, quando i frati lo convinsero a trasferirsi nel romitorio di Camposampiero, lontano dall'afa, nella frescura della campagna, dove i francescani avevano a disposizione un piccolo convento offerto, anni addietro, da un amico del Santo, il conte Tiso.

    Spargeva un’ombra salutare, tutt'attorno al cenobio, un frondoso albero di noci. Sui rami più bassi il conte Tiso aveva approntato un tavolaccio dove Antonio poteva ritirarsi a pregare e riposare, di giorno, al riparo del fresco fogliame. Il fido collaboratore, Fra Luca Belludi, e l'amico ospite lo aiutavano a salirci di mattina e lo andavano a prendere quando la campagna chiamava per gli obblighi comunitari, per poi riportarvelo appena adempiuti; soltanto all'imbrunire lo riaccompagnavano dentro casa, dove passava la notte. Questo andirivieni tra casa e noce durerà due settimane, le ultime.

    La voce correva veloce anche a quei tempi, e fu un grande accorrere di popolo ai piedi del noce. Di lassù, Antonio continuò a predicare, ad esortare, a benedire: l’olio della sua lampada poteva ardere fino all'ultima goccia. E i bambini d'intorno lo rallegravano coi loro canti.

    Per essi, Antonio nutrì sempre una spiccata predilezione. Era felice quando vi si trovava in mezzo e per molti di loro chiese ed ottenne miracolose guarigioni.
    Ecco, fra i tanti, due episodi. Una sera, mentre rientrava in convento, gli si fece incontro una mamma che reggeva tra le braccia un piccino deforme. "Padre – gli chiese la donna – tocca il mio bambino: solo tu puoi ridonargli la salute". Gli rispose Antonio: "Buona donna, pregate con fede il Signore. I miracoli li fa solo lui". Anche frate Luca, lì vicino, intercedette per quella poveretta: "Padre, esaudiscila! Il Signore ti ascolta sempre quando gli chiedi una grazia!". Il Santo, lasciatosi convincere, prese in braccio quella creaturina deforme e dopo aver pregato, gliela rese risanata.

    I miracoli si moltiplicavano al suo passaggio; ovunque gli portavano bimbi malati da guarire. Ecco buttarsi ai suoi piedi un'altra di quelle madri sventurate: "Vieni a salvare mio figlio che sta morendo, solo tu puoi ottenerne la guarigione". Anche a lei Antonio rispose: "Prega con fede il Signore, è lui il padrone della vita e della morte". E la donna, di rimando: "Lo so, ma se tu intercedi per lui, si salverà. È il mio unico figlio; l'ho atteso per tanti anni e ora non voglio vederlo morire!". Gli rispose il Santo: "Va’ in pace, pregherò con te: Dio ascolta sempre le preghiere di una mamma!". Tornata a casa trovò il figlio che giocava, completamente guarito.

    Tanta predilezione per i bambini è legata ad un episodio soprannaturale cui si è ispirata l’iconografia antoniana, che ci presenta il Santo mentre stringe fra le braccia Gesù Bambino. L'episodio risale alle due settimane trascorse presso il conte Tiso. Una di quelle sere, ridisceso dal noce e coricatosi sul pagliericcio dentro casa, non riusciva a prendere sonno. Quando d’ecco un gran fulgore illuminò a giorno la stanzetta. Il conte Tiso, pensando ad un incendio, s'affacciò sull’uscio e rimase senza fiato: in braccio ad Antonio c'era Gesù Bambino.

    Lungo la strada per Arcella

    La permanenza nel romitorio durò fino al mezzogiorno di venerdì 13 giugno 1231. A quell'ora, ridisceso il noce per il frugale pasto comunitario, Antonio si sentì mancare. Ai fratelli che lo soccorrevano chiese d'essere trasportato a Padova: là desiderava morire. Nel Sermone primo dopo Pentecoste aveva scritto: "Fa’, o Signore che possiamo morire nel piccolo nido della nostra povertà".

    La morte non lo spaventava, aveva avuto tempo per prepararvisi:

    "La vita umana è simile a un ponte, e il ponte è fatto per il transito, non per la residenza… Il giusto è sempre pronto a restituire l’anima al suo Creatore, in qualunque ora gliela domandi. Chi è vissuto ed ha lavorato lungamente con la pace di Dio nel cuore, certamente muore nella pace di Dio... Come il bambino corre piangendo nelle braccia della madre, e la madre lo accarezza e gli asciuga le lacrime, così isanti si affrettano dal pianto di questa terra nelle braccia della gloria, dove Dio asciugherà tutte le lacrime da tutti i visi".

    Adagiato su un carro agricolo trainato da buoi e amorevolmente accudito dai frati Luca e Ruggero, Antonio iniziò il suo viatico verso Santa Maria Mater Domini. Una ventina di chilometri separavano Camposampiero da Padova, ci sarebbe voluto l'intero pomeriggio, sotto il sole a picco e tra scossoni violenti sul lastricato della vecchia strada romana (oggi si chiama via "del Santo"). Giunti, sul far della sera, in vista delle mura turrite della città, la comitiva incontrò frate Vinotto che risaliva verso Camposampiero per far visita al Santo. Viste le condizioni del confratello, ormai moribondo, il frate consigliò di fermarsi all'Arcella, nell'ospizio accanto al monastero delle clarisse. Lì, fuoriporta, sarebbe stato al sicuro – soggiunse frate Vinotto – dalle "sante intemperanze" della folla quando si forse sparsa la notizia della morte.

    "O gloriosa Domina, excelsa super sidera...", "O Regina gloriosa, elevata sopra le stelle", al canto del suo inno prediletto alla Vergine, Antonio venne adagiato sulla nuda terra dove gli fu amministrata l'unzione degli infermi. E mentre la recita dei sette salmi penitenziali volgeva al termine, si unì ai confratelli mormorando: "Video Dominum meum...", cioè "ecco, vedo il mio Signore", poi chiuse gli occhi e spirò. Aveva 36 anni.

    La tomba gloriosa

    La notizia della morte d’Antonio si diffuse rapidamente e quel che temeva padre Vinotto s'avverò. Gli abitanti di Capodiponte, nella cui giurisdizione si trovava Arcella, arrivarono per primi: "Qui è morto e qui resta"; spalleggiati dalle clarisse: "Non lo abbiamo potuto vedere da vivo, che ci resti almeno da morto".

    L’indomani giunsero all'Arcella i frati di Santa Maria Mater Domini per traslare la salma, ma furono affrontati, armi in pugno, dai giovanotti di Capodiponte.

    Risultata vana ogni pacata trattativa, i frati rientrarono a Padova dove si rivolsero al Vescovo, affinché provvedesse lui a sbrogliare la matassa. Messo al corrente dell'accaduto e saputo che era volontà precisa d’Antonio di morire in città, nel suo convento, diede loro ragione e incaricò il Podestà di sedare gli animi, anche con la forza, qualora fosse necessario.

    La sera del sabato rientrò a Padova Fra Alberto, successore d’Antonio nella carica di provinciale; pure lui fu dell'avviso che la salma andasse sepolta in Santa Maria Mater Domini.

    Le giornate di domenica e lunedì trascorsero in concitate trattative, ma alla fine, prevalso il buon senso, gli animi si riconciliarono.

    Martedì 17 giugno, all'Arcella, c’era tutta Padova: più che un funerale, fu una processione; un trionfo di fede e di popolo. Arrivati in città, il Vescovo celebrò solenni esequie e, benedetta la salma, la tumulò in un’urna di marmo, regalo dei Canonici della Cattedrale ai francescani di Santa Maria Mater Domini.

    A Coimbra era morto Fernando e rinato Antonio. Quel giorno a Padova entrava nel sepolcro un frate, ne sarebbe uscito il Santo.

    Il Santo delle grazie

    Fin dal giorno dei funerali l'arca di marmo divenne meta d'incessanti pellegrinaggi. Per giorni e giorni colonne interminabili di uomini, donne e bambini sfilarono dentro l'angusta chiesetta del convento di Santa Maria Mater Domini.

    Né l’afa né la calura dell’estate incipiente distoglievano i devoti dal toccar con mano supplice la bordura del sarcofago. Mille richieste in quel gesto: tutti avevano qualcosa da chiedere, per sé, per un parente, per un amico.

    Siccome la folla ogni giorno aumentava, le autorità decisero di disciplinare il flusso e tutta Padova – si legge nell’Assidua –"nei giorni prefissati veniva in processione a piedi nudi", anche di notte. Ed ecco un nuovo problema: il tetto della chiesa conventuale, basso e di legno, era un pericolo incombente con quel via vai di torce accese. Di qui l’ordine d'ammucchiare ceri e candele sulla piazza antistante.

    "Godeva la città di grande splendore e, rischiarata da molteplici luminarie, le pareva di aver perduto ogni notturna oscurità: molti, infatti, disponendo fiaccole fiammeggianti sui mmuri, passavano in veglia le notti nelle piazze".

    Chi usciva dalla chiesetta raccontava le "meraviglie che accedevano per i meriti del beato Antonio", così veniva alimentata la speranza di chi ancora doveva entrarvi.

    Ascoltando quei racconti era come ripassare le pagine del Vangelo:

    "E quelli che, per il gran numero degli infermi sopraggiungenti, non potevano restare dinanzi all’arca adagiati fuori dell’ingresso della chiesa, guarivano nella piazza, sotto lo sguardo di tutti: si aprirono gli occhi ai ciechi, si schiusero le orecchie ai sordi, gli zoppi saltavano come cervi, le lingue dei muti si scioglievano nelle lodi del Signore...".

    Prosegue l’Assidua:

    "Lo proclama l’assemblea del clero, lo grida il popolo: tutti, a un sol voce e con volere unanime, insistono concordi che si mandino dei delegati alla sede apostolica perché perorino la canonizzazione del beato Antonio".

    Non era passato ancora un mese dalla morte, che Antonio era già diventato santo "a furor di popolo". E quando, al clero e alla gente, s’unirono il Vescovo e il Podestà, poté finalmente partire per Roma una qualificata delegazione col compito di sottoporre al Papa i fenomeni straordinari che giornalmente accadevano sulla tomba del loro illustre concittadino.

    Papa Gregorio IX, che della santità di Antonio ebbe prova quando l'aveva ascoltato predicare presso di lui, accolse gli ambasciatori padovani con gentilezza e, per accelerare l'iter canonico, nominò seduta stante una commissione di periti, presieduta dal Vescovo di Padova, perché vagliasse le testimonianze e raccogliesse le prove documentarie.

    Raggiunta Padova, l’Assidua dice che la commissione fu sommersa

    "da una gran folla, accorsa per deporre con le prove della verità, di essere stata liberata da svariate sciagure grazie ai meriti gloriosi del beato Antonio".

    Il Vescovo ascoltò attentamente "le deposizioni confermate con giuramento" e mise per iscritto i miracoli approvati, poi promosse indagini scrupolose sulle condizioni delle persone e dei fatti, prendendo nota del tempo e del luogo, di ciò che fu udito e veduto.

    Completato l’esame diocesano dei miracoli, Padova inviò al Papa una seconda delegazione. A Roma l'istruttoria fu assegnata al Cardinale Giovanni d'Abbeville, che in pochi mesi esaurì il compito assegnatogli.

    Vincendo la ritrosia di alcuni prelati, timorosi di quel procedere "troppo precipitoso in una causa tanto rilevante", Gregorio IX dichiarò chiuso il processo, fissando al 30 maggio, festa di Pentecoste, la cerimonia ufficiale di canonizzazione.

    Con gesto di squisita gentilezza il Papa inviò una Bolla "ai nostri cari figli, il podestà e il popolo di Padova", per dare il lieto annuncio. E riferendosi a Sant'Antonio disse che ben "si era meritato di essere collocato non sotto il moggio, ma sul candelabro immortale della Chiesa cattolica".

    La grande festa si svolse nella Cattedrale di Spoleto. Circondato da Cardinali e Vescovi, Gregorio IX ascoltò commosso la lettura dei cinquantatre miracoli approvati (un vero record!) e, dopo il canto del Te Deum, proclamò solennemente e ufficialmente Santo frate Antonio, fissandone la festa liturgica nel giorno anniversario della morte, il 13 giugno.

    Alla delegazione padovana restavano meno di due settimane per tornare a casa e organizzarvi i festeggiamenti. Scrive l’Assidua:

    "I rappresentanti della città di Padova affrettandosi con rapido passo, furono di ritorno, accolti con entusiasmo, prima che si compisse l’anno della morte del Beato Antonio, la cui festa fu celebrata con indescrivibile solennità nel giorno stesso in cui si compiva l’anno del suo trapasso".

    L’enorme afflusso di pellegrini che confluiva a Padova sulla tomba del Santo convinse i frati e i maggiorenti della città che il grande Taumaturgo ben meritasse una chiesa più capiente.

    Si dettero tutti un gran da fare, e già in quell’anno vennero gettate le fondamenta. Otto anni dopo, nel 1240, veniva descritta come un "monumento mirabile", ma i fedeli dovranno attendere l'8 aprile 1263 per vedervi riposto il corpo del Santo. Era in quell'anno Ministro Generale dei francescani Fra Bonaventura da Bagnoreggio, al quale toccò l’onore di trasportare dall’attiguo convento di Santa Maria Mater Domini in Basilica il corpo del Santo. La traslazione venne seguita da una folla immensa, e tutti furono ripieni di stupore quando Fra Bonaventura, nell’effettuare la ricognizione dei resti mortali, rinvenne intatta, di un colore come se fosse ancora viva, la lingua del Santo. Indicandola ai fedeli, esclamò commosso:

    "O lingua benedetta! Che sempre hai lodato il Signore, e lo hai fatto conoscere e amare agli altri, ora ci appare chiaro quanti meriti hai acquisito presso Dio".

    Quel ritrovamento prodigioso viene tutt'oggi annualmente ricordato, a Padova, dai frati del Santo.

    Bibliografia
    • Azevedo, Emanoel de (1713-1798), Vita di Sant'Antonio di Padova taumaturgo portoghese dell'abate Emanuelle de Azevedo di Coimbria, Edizione: Nuovamente prodotta alla luce dal p. Savino Bachechi, Firenze 1829
    • Camisani Enrico, L' evangelico dottore Sant'Antonio di Padova, Brescia 1992
    • Fiocco Giuseppe, Il reliquiario della lingua del Santo, Padova 1963
    • Lazzarin Piero, Un santo, una basilica, una citta: storia e segreti di un santuario notissimo e poco conosciuto: virtu e vizi di una piccola grande città, Padova 1990
    • Mazza Claudio, Un Santo per amico: Agiografia di Sant'Antonio da Padova per gli amici del Beato Annibale, Milano 1992
    • Salvini Alfonso, Sant'Antonio di Padova, Cinisello Balsamo 1989
    • Chiara Amata, Sant'Antonio di Padova", Milano 1997
    • Cojazzi Antonio, Sant'Antonio da Padova nella testimonianza d'un suo contemporaneo, Torino 1931
    • Breve racconto della vita, miracoli e morte del grande taumaturgo Sant'Antonio di Padova, Bologna 1873
    • Ciuti Pio, S. Antonio da Padova : tredici conferenze intorno alla vita del Santo e orazione panegirica, Giarre: Libreria francescana, 1931
    • Vita e miracoli di Sant'Antonio da Padova, Firenze 1880
    • Luini Edoardo, Sant'Antonio di Padova: maestro di vita cristiana: pagine dai suoi sermoni, Localizzazioni: FI0098 - Biblioteca nazionale centrale - Firenze - FI

    Fonte: Enciclopedia Cattolica di Qumran2.

  4. #14
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    Predefinito Preghiere a Maria

    Sant'Antonio, come San Francesco, fu un appassionato amante di Maria. Nei suoi Sermoni ha bellissime parole di lode nei confronti della Madre del Signore ...

    Alla Beata Vergine Maria

    Ti preghiamo, signora nostra,
    speranza nostra:
    tu, stella del mare, illumina i tuoi figli
    travolti da questo tempestoso mare del peccato;
    facci giungere al porto sicuro del perdono
    e, lieti della tua protezione,
    possiamo portare a compimento la nostra vita.
    Con l'aiuto di colui di colui che tu ha portato in grembo
    e che il tuo santo petto ha nutrito.
    A lui è onore e gloria
    per i secoli eterni.

    Amen.

    * * * *

    Signora nostra,
    unica speranza nostra,
    ti supplichiamo di illuminare le nostre menti
    con lo splendore della tua grazia,
    di purificarci
    con il candore della tua purezza,
    di scaldarci
    con il calore della tua visita
    e di riconciliarci con il Figlio tuo,
    perché possiamo meritare di giungere
    allo splendore della sua gloria.
    Con il suo aiuto,
    lui che, con l'annuncio dell'angelo,
    assunse da te la gloriosa carne
    e volle abitare per nove mesi nel tuo grembo.
    A lui l'onore e la gloria
    per i secoli eterni.

    Amen.

    FONTE

  5. #15
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    Predefinito Si quaeris

    Questa preghiera di lode - o responsorio - in onore di Sant'Antonio fu composta da fra Giuliano da Spira. Il responsorio fa parte dell'Officium rhythmicum s. Antonii, che risale probabilmente al 1233 (o in un'epoca tra il 1232 ed il 1240), due anni dopo la morte del Santo.
    Alcuni, invece, lo attribuiscono al Dottore Serafico, cioè S. Bonaventura. Tuttavia, esso non è inserito nelle raccolte dei suoi lavori. E' verosimile, però, che egli ne promosse la diffusione nella sua vita.
    E' cantato nella Basilica di Sant'Antonio a Padova e, ogni martedì, in molte chiese nel mondo intero.

    * * * *

    1. Si quaeris miracula,
    Mors, error calamitas,
    Daemon, lepra fugiunt,
    Aegri surgunt sani.

    Ant: Cedunt mare, vincula:
    Membra resque, perditas
    Petunt et accipiunt
    Iuvenes et cani.

    2. Pereunt pericula,
    Cessat et necessitas:
    Narrent hi, qui sentiunt,
    Dicant Paduani.

    Ant: Cedunt mare, vincula ...

    3. Gloria Patri et Filio
    et Spiritui Sancto.

    Ant: Cedunt mare, vincula ...

    V. Ora pro nobis, beate Antoni,
    R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

    Oremus:

    Ecclesiam tuam, Deus, beati Antonii Confessoris tui commemoratio votiva laetificet, ut spiritualibus semper muniatur auxiliis et gaudiis perfrui mereatur aeternis. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

    ****

    Se cerchi i miracoli, ecco messi in fuga la morte, l’errore, le calamità e il demonio; ecco gli ammalati divenir sani.

    Il mare si calma, le catene si spezzano; i giovani e i vecchi chiedono e ritrovano la sanità e le cose perdute

    S’allontanano i pericoli, scompaiono le necessità: lo attesti chi ha sperimentato la protezione del Santo di Padova.

    Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio e ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.

    FONTE (con mie aggiunte ed adattamenti)

  6. #16
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    Predefinito Antiphona

    O proles Hispaniae,
    pavor infidelium,
    nova lux Italiae,
    nobile depositum
    urbis Paduanae.

    Fer, Antoni, gratiae
    Christi patrocinium,
    ne prolapsis veniae
    tempus braeve creditum
    defluat inane. Amen!

    * * * *

    O stirpe d’Ispania
    paura d’infedeli
    nuovo splendor d’Italia
    unico tesoro
    di tutta Padova.

    Di Cristo e del suo favor
    portaci l’aiuto
    che il breve tempo datoci
    le nostre pene a piangere
    non voli via perduto. Amen.

  7. #17

  8. #18
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  9. #19
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    Predefinito

    S. Antonio di Padova

    Gli anni in Portogallo

    Sant’Antonio è nato in Portogallo, a Lisbona, nel 1195.
    Una tradizione barocca indica la data del 15 agosto.
    Era figlio dei nobili Martino de’ Buglioni e donna Maria Taveira.
    La loro casa distava pochi metri dalla cattedrale.
    Fu battezzato con il nome di Fernando.
    Trascorse i primi anni di formazione sotto la colta guida dei canonici del Duomo. Tra i suoi compagni di studi, vi erano anche ragazzi già orientati alla scelta del sacerdozio. Molto probabilmente anche da qui nacque l’aspirazione del giovane Fernando a scegliere il servizio sacerdotale.
    Ma soprattutto furono la mediocrità morale, la superficialità e la corruzione della società a spingerlo ad entrare nel monastero agostiniano di São Vicente, fuori le mura di Lisbona, per vivere l’ideale evangelico senza compromessi.

    Tra gli agostiniani


    Fernando dimorò A São Vicente per circa due anni. Poi, infastidito dalle continue visite degli amici, con i quali più nulla aveva a che spartire, chiese di trasferirsi altrove, sempre all’interno dell’Ordine agostiniano.
    Antonio affrontava così il suo primo grande viaggio, 230 chilometri circa, quanti separano Lisbona da Coimbra, allora capitale del Portogallo.

    Fernando aveva 17 anni. Arrivava in un ambiente dove sarebbe convissuto con una grossa comunità di circa 70 membri per il corso di 8 anni, dal 1212 al 1220.

    Furono anni importantissimi per la formazione umana e intellettuale del Santo, il quale, poteva fare affidamento su valenti maestri e su una ricca e aggiornata biblioteca.

    Fernando si dedicò completamente allo studio delle scienze umane e teologiche, anche per estraniarsi dalle tensioni che attraversavano la comunità religiosa. Gli anni trascorsi a Santa Cruz di Coimbra lasciarono una traccia profonda nella fisionomia psicologica e nell’iter esistenziale del futuro apostolo.


    Già per indole ci appare un uomo appartato, geloso del suo segreto, come rinchiuso nei suoi impegni di lavoro che gli lasciavano ben poco respiro.

    Diventò, anche per libera scelta, un uomo privo di ambizioni sociali; contrario a ogni ostentazione ed esibizione di sé e delle sue doti; diffidente delle polemiche; indifferente alle esteriorità di qualunque tipo, a meno che non fosse sospinto dal dovere della testimonianza evangelica.

    Da Coimbra uscì uomo maturo.
    La sua cultura teologica, nutrita di Bibbia e di tradizione patristica, aveva raggiunto uno stadio definitivo.
    Ferdinando sacerdote

    A Santa Cruz Fernando fu ordinato sacerdote, probabilmente nel 1220.
    Anche per il giovane Fernando venne disattesa la norma ecclesiastica che fissava a un minimo di 30 anni l’età per avere accesso al sacerdozio.

    La scelta francescana

    Segno di sangue
    Verso fine estate del 1220 Fernando chiese ed ottenne di lasciare i Canonici regolari di sant'Agostino per abbracciare l'ideale francescano. Non è certo se abbia conosciuto personalmente i primi francescani approdati in terra lusitana. Certo, ne sentì parlare, ne subì il fascino.
    Soprattutto quando i loro resti mortali di martiri, raccolti dai cristiani, furono racchiusi in due cofani d’argento e portati dall’Infante Pedro e dal suo seguito fino a Ceuta, da qui trasportati ad Algesiras, indi a Siviglia e finalmente traslati a Coimbra, dove furono collocati nella chiesa agostiniana di Santa Cruz (nella quale tuttora sono custoditi e venerati). Si raccontò anche di miracoli che accrebbero la devozione, vennero messe per iscritto le gesta dei martiri. Tutto contribuì a porre il movimento francescano al centro dell’attenzione di tutti i fedeli portoghesi.
    La richiesta da parte di Fernando di entrare a far parte dei seguaci di Francesco d’Assisi matura in previsione di una forte vocazione alla missione e, in particolare, al martirio di sangue.

    Antonio missionario

    Nel settembre 1220, Fernando lascia i bianchi panni di agostiniano per rivestirsi della grezza tunica di bigello e una corda ai fianchi.
    Per l’occasione, abbandona anche il vecchio nome di battesimo per assumere quello di Antonio, l’eremita egiziano titolare del romitorio di Santo Antao dos Olivãis presso cui vivevano i francescani. Dopo un breve periodo di studio della regola francescana, Antonio parte alla volta del Marocco.
    L’itinerario da lui seguito, per via di terra e di mare, ci è sconosciuto. Molto probabilmente, secondo le consuetudini francescane, Antonio era accompagnato da un confratello, rimastoci però ignoto.

    Arrivato nei territori del Miramolino, a Marrakesh o in altra località, sarà stato accolto in casa di qualche cristiano, ivi residente per ragioni di commercio o altro.

    Volendo rivolgersi ai musulmani, il Santo doveva conoscere correntemente la lingua araba, cosa non ardua per un lisbonese dell’epoca, oriundo da una zona bilingue.
    Diversamente, poteva fare affidamento sul compagno: se non entrambi, almeno uno doveva essere esperto in arabo.
    Antonio non poté dare corso al suo progetto di predicare perché preda di una non meglio specificata malattia tropicale. Per recuperare almeno in parte la salute, decise di ritornare in patria, senza però abbandonare il suo ideale di martirio. Fu dunque costretto a ritirarsi dal Marocco, prendendo a ritroso la via del mare.
    Ma, a causa di un’imprevista violenza dei venti contrari, la nave fu trascinata fino alla lontana Sicilia.
    Antonio, che le tradizioni raccontano essere sbarcato a Milazzo, (Messina) era uno sconosciuto fraticello straniero, giovane e senza incarichi di governo, fisicamente provato. La sua convalescenza siciliana durò circa due mesi.

    Informato dai confratelli siciliani, Antonio lasciò la Sicilia. Risalì la penisola per prendere parte al capitolo generale – detto delle Stuoie - celebrato in Assisi dal 30 maggio all’8 giugno del 1221.
    Antonio da Lisbona, sconosciuto a tutti perché entrato solo da pochi mesi nell’Ordine, passò i nove giorni dell’adunanza appartato e solingo, immerso nell’osservazione e nella riflessione.
    Era uno dei tanti, nulla aveva che lo distinguesse.
    Al momento del commiato non fu preso con sé da nessuno dei “ministri”.

    Quando furono partiti quasi tutti i conventuali, Antonio fu notato da frate Graziano, ministro provinciale della Romagna. Saputo che il giovane frate era anche sacerdote, lo pregò di seguirlo.


    Eremita a Montepaolo

    In compagnia di Graziano da Bagnacavallo e d’altri confratelli romagnoli, Antonio giunse a Montepaolo nel giugno 1221.

    Le sue giornate trascorrevano in preghiera, mediazione e umile servizio ai confratelli.

    Durante questo periodo il Santo poté maturare la sua vocazione francescana, approfondire l’esperienza missionaria bruscamente interrotta, rinvigorire l’impegno ascetico, affinarsi nella contemplazione.


    Le tesi più accreditate riferiscono che sant’Antonio rimase a Montepaolo fino alla Pentecoste (22 maggio) o al massimo fino a settembre dello stesso anno.


    Sulle prime, data la visione prevalentemente sacrale in cui era tenuto il sacerdote, i confratelli trattarono Antonio con venerazione.


    Avendo visto che uno dei compagni aveva trasformato una grotta in una cella solitaria, gli chiese con insistenza che la cedesse a lui. Il buon fratello accondiscese all’appassionato desiderio del giovane portoghese.


    Cosi tutte le mattine, compiute le preci comunitarie, Antonio si affrettava alla volta della sua grotta (ancor oggi devotamente conservata) per vivere solo con Dio, solo in rigore di penitenze e intima preghiera, in prolungate letture della Bibbia e riflessioni. Per le ore canoniche e per i pasti si riuniva ai confratelli.

    Nella sua fervida dedizione alla penitenza stremò tanto la sua fragile salute con i digiuni, le veglie, le flagellazioni, che più d’una volta, al suono della campanella che lo chiamava alle riunioni, vacillava e stava per cascare, se non fosse stato sorretto da premurosi confratelli.
    Antonio si accorse che i suoi fratelli d’ideale coniugavano preghiera e servizio reciproco. Lui, che contributo poteva portare? Ne parlò con il guardiano (il superiore dei frati). Conclusero che egli avrebbe tenuto pulite le povere stoviglie di cucina e spazzato la casa.

    Predicatore e Maestro

    L’ora della chiamata

    Nel settembre 1222 si tenevano a Forlì le ordinazioni sacerdotali di religiosi domenicani e francescani. Prima che il drappello degli ordinandi si recasse nella cattedrale cittadina per ricevere gli ordini sacri dal vescovo Alberto, si era soliti rivolgere un sermone ai candidati. Ma nessuno era stato incaricato preventivamente e pertanto nessuno dei sacerdoti domenicani o minoriti presenti si era preparato. Arrivato il momento di prendere la parola in pubblico, tutti ricusarono d’improvvisare l’esortazione di circostanza. Solo il superiore di Montepaolo conosceva bene le doti di Antonio.
    L’interpellato tentò di schermirsi. Di fronte alle insistenze del superiore piegò il capo e prese serenamente la parola. Man mano che il discorso si dipanava in sonante latino, le espressioni si facevano più calde e suadenti, originali ed emozionanti.

    Egli rivelava, sia pur contro voglia, la profonda cultura biblica, la coinvolgente spiritualità
    .


    Commozione, esultanza, soprattutto stupore dell’uditorio.
    Ebbero poi luogo le sacre ordinazioni, si svolsero secondo il programma i lavori dell’assise capitolare. Ma ormai tutti gli occhi erano puntati sul fraticello portoghese, obliato eremita, che in maniera così impensata era proposto al centro dell’attenzione della sua fraternità.
    Non risalì a Montepaolo che per dire addio alla sua grotta, per riabbracciare i confratelli, raccomandandosi alla loro simpatia e preghiera.

    Antonio predicatore

    Sant’Antonio inizia così la sua missione di predicatore in Romagna.
    Parlava con la gente, ne condivideva l’esistenza umile e tormentata, alternando l’impegno della catechizzazione con l’opera pacificatrice. Attendeva alle confessioni, si confrontava personalmente o in pubblico con i sostenitori di eresie.
    La Romagna, all’epoca del Santo e per secoli dopo, era una contrada funestata da una guerriglia civile endemica. Le fazioni, maggiori e minori, avvelenavano le città e i clan familiari, disgregando le strutture comunali e seminando dovunque sospetti, congiure, colpi di mano, vendette. Non bastasse questa maledizione, anche sul piano religioso si pativa la calamità delle sette, prima fra tutte, nelle sue ramificazioni, quella catara.

    La vecchia Chiesa reagiva scarsamente e male, a causa della sua mediocrità spirituale. Buon gioco avevano dunque gli eretici che diffondevano teorie distorte e dubbi pericolosi.


    Proprio a Rimini, nel 1223, ha luogo l’episodio riportato dalla tradizione, secondo il quale sant’Antonio vince la testardaggine di un eretico che non voleva credere nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.


    Teologo a Bologna

    Dopo la rivelazione di Forlì, dopo che per invito dei superiori fu inviato a predicare nelle città e villaggi della Romagna, sul finire del 1223 ad Antonio viene chiesto anche di insegnare teologia a Bologna.
    Per due anni, all’età di 28-30 anni, come teologo insegna le basilari verità di fede al clero e ai laici, attraverso un metodo semplice ma efficace.
    Partiva cioè dalla lettura del testo sacro per giungere ad una interpretazione che interpellasse e parlasse alla fede e alla vita dell’uditorio.
    Sant’Antonio è dunque il primo insegnante di teologia del neonato ordine francescano, il primo anello di una catena di teologi, predicatori e scrittori, che nei secoli diedero e danno onore alla Chiesa.

    “Antonio, mio vescovo”


    Francesco d’Assisi non voleva che i suoi frati si dedicassero allo studio della teologia.
    Questa indicazione fu riportata anche nella regola di vita.
    Ma per sant’Antonio, viste la sua solida fede e la sua integrità morale, fece una eccezione concedendogli di insegnare ai suoi frati.
    E’ ormai largamente provata, in sede critica, la sostanziale autenticità della breve lettera fattagli pervenire dal Poverello.
    Eccone il testo, in versione italiana, secondo l’edizione stabilita da Kajetan Esser.
    Al fratello Antonio, mio vescovo, auguro salute. Approvo che tu insegni teologia ai frati, purché, a motivo di tale studio,tu non smorzi lo spirito della santa orazione e devozione, come è ordinato nella Regola. Sta sano”.

    Il grande francescanista Raoul Manselli, scorge nel patentino che autorizzava Antonio a insegnare sacra teologia ai frati, un “testo di portata normativa” che “ha un valore ed un significato essenziale per tutta la storia dell’Ordine e va inteso e spiegato, quindi, nella sua intera portata”.
    Antonio nel suo apostolato itinerante, sia in Italia che in Francia, allacciò all’intensa predicazione la formazione catechetica delle nuove leve del movimento minoritico: “doveva, quindi avere già ricevuto ormai l’autorizzazione che la breve lettera di Francesco concede in termini tanto sintetici, quanto rigorosamente e puntualmente formali”.

    Una delle preoccupazioni che portavano san Francesco a guardare con diffidenza allo studio, era rappresentata dal divario che egli notava, fra quanto la cultura teologica insegnava e come diversamente lo viveva.


    Teologo su richiesta dei confratelli


    Furono i confratelli a chiedere a sant’Antonio di avviare uno studio di teologia e di insegnarvi.
    Essi, vivendo a contatto con le anime, erano allarmati e dispiaciuti per la situazione d’inferiorità del giovane Ordine francescano, chiamato da un numero crescente di fedeli a coprire, assieme ai domenicani, i grossi vuoti lasciati dal clero diocesano nella conduzione pastorale e nella catechesi.
    L’iniziativa emulava l’analoga istituzione, promossa appunto dall’Ordine gemello dei Predicatori, i quali avevano aperto in Bologna uno studio teologico fin dal 1219, vivente san Domenico.

    Una lezione di sant’Antonio

    Come avrà tenuto una sua lezione il teologo Antonio?
    Secondo il metodo dell’epoca, recepito anche dal Santo, nelle sue spiegazioni vi era una prevalenza del senso allegorico. Costante è anche il riferimento alla Bibbia.

    Lo stile faceva leva:


    - sulla chiarezza di concetti,

    - l’essenzialità di espressione rifuggente da inutili ridondanze,
    - la preoccupazione di riuscire persuasivo e pratico,
    - la cura di coinvolgere interamente la persona (oltre al ragionamento, anche il sentimento e l’immaginazione)
    - la traduzione dei dettami nel vissuto quotidiano.

    Dottore della chiesa

    Tra i contemporanei e nelle generazioni immediatamente successive, il Santo fu ritenuto maestro di sapienza cristiana, biblista impareggiabile, autore di opere insigni.
    Uno storico dice che sant’Antonio possedeva un talento così eminente, da poter servirsi della memoria al posto dei libri, e che si sapeva esprimere con un’abbondante grazia di linguaggio mistico […]. La profondità insospettata del suo parlare accresceva lo stupore dell’uditorio (Assidua). Tutta la curia romana ebbe modo di ascoltarlo e lo stesso Gregorio IX lo chiamò Arca del Testamento.
    Fu in occasione del VII centenario della morte del Santo, 1931, che fu avviata presso la Congregazione dei Riti, Roma, la ricerca e discussione sul dottorato di sant’Antonio, in questi termini:
    Se sia da confermarsi il culto di Dottore tributato per secoli a sant’Antonio di Padova e se sia da estendersi alla Chiesa universale, con ufficio e messa del comune dei dottori”.

    Toccò a papa Pio XII l’onore di concludere affermativamente la procedura storico-giuridica, cosa che egli compì il 16 gennaio 1946 con il Breve Apostolico Exsulta, Lusitania felix. Sant’Antonio è Dottore della Chiesa con il titolo di “doctor evangelicus”.

    Non dobbiamo stupirci del ritardo, ben sette secoli e più, subìto da sant’Antonio prima di accedere al culto di Dottore. Infatti il riconoscimento apostolico non era altro che una conferma di una prassi consolidata nella Chiesa fin dai primi anni dalla morte del Santo.


    La missione in Francia

    Francia assetata di pace

    Una terra che scotta, un popolo nella tormenta. Questo è il Meridione della Francia ai tempi di sant’Antonio. La causa di tanta inquietudine è da attribuire alle lotte politiche e sociali tra cattolici ortodossi e la setta degli albigesi, radicatasi da decenni in questa regione.
    Il Papato, alleato col potere temporale che ne aveva intravisto il vantaggio economico, combatté in tutti i modi l’eresia. Ma a nulla valsero le persecuzioni, la guerra condotta per oltre 20 anni.
    Chi davvero attirò le persone a riabbracciare la vecchia fede fu la testimonianza multiforme e la parola suadente di cistercensi, domenicani, francescani, che diedero il meglio di sé in quest’opera di riconciliazione con la verità nella carità. Tra essi, eminente, la figura del nostro Santo.
    Dove ferve la battaglia
    Non si hanno molte e certe notizie del periodo francese di Antonio. C’è però un termine fisso, il 1226.
    Antonio fondò il convento francescano di Limoges. Gli antonianisti anticipano alla fine del 1224 il suo passaggio dall’Italia al sud francese.

    Proveniente da Bologna, Antonio passa per la Provenza alla Languedoc, al Limosino, al Berry.


    Antonio incontra una regione travagliata dall’eresia albigese, martoriata dalla crociata, scivolata ben presto in gioco di potenza.


    Fin dal gennaio 1217, papa Onorio III aveva esortato i professori di teologia di Parigi a recarsi in mezzo agli albigesi
    .
    Antonio fu inviato, probabilmente con un drappello di minoriti, come rinforzo qualificato, e ciò per suggerimento della direzione centrale dell’Ordine, sensibilizzata al problema sia dai frati già residenti nella zona, sia dalle pressioni della curia papale.

    Troviamo Antonio insegnante di teologia e predicatore a Montpellier, ragguardevole centro universitario e roccaforte dell’ortodossia cattolica, dove domenicani e francescani ricevono adeguata formazione pastorale-intellettuale per predicare agli eretici sparsi nei territori circostanti.


    Arles: San Francesco appare mentre Antonio predica

    Il fatto è certo, ma dubbia è la data. Lo storico Tommaso da Celano ricorda come frate Giovanni da Firenze, eletto da Francesco ministro dei minoriti di Provenza, celebrò un’assemblea capitolare, o nella seconda metà del 1224, oppure nella prima metà dell’anno successivo, durante la quale Antonio dettò un fervido sermone sulla Passione di Cristo.
    Mentre egli parlava, frate Monaldo vide alla porta della sala dove erano riuniti “il beato Francesco sollevato in aria con le mani estese a forma di croce, in atto di benedire i suoi frati”.
    Sant’Antonio svolse il suo sermone sul mistero della Crocifissione di Cristo, in particolare sulla iscrizione Gesù Nazareno Re dei Giudei (Gv. 19,19).

    E’ molto probabile che il Santo, sempre attento alla trama liturgica innervante l’annata del credente, si sia ispirato, nel cogliere l’argomento del sermone, allo spunto offerto dal momento liturgico.

    Pertanto, è ovvio ipotizzare che il capitolo di Arles si sia riunito in un giorno contrassegnato dal mistero della croce: il venerdì santo, 28 marzo 1225; il ritrovamento della Croce (Inventio crucis), 2 maggio dell’anno stesso; quando non si voglia pensare (e sarebbe suggestivo e tutt’altro che gratuito) alla Esaltazione della Croce del ’24, e dunque quando le stimmate erano state appena impresse nelle carni di san Francesco.

    Antonio a Tolosa e a Limoges

    Tolosa, (Toulouse), sorge nell’attuale dipartimento della Haute-Garonne. Le sue origini sono molto antiche.
    L’Apostolato itinerante di Antonio non poteva non echeggiare in un emporio di ideologie quale Tolosa. E’ più che probabile che in questa roccaforte del neomanicheismo il Taumaturgo abbia anche insegnato teologia ai frati. Attorno al 1226 Antonio si sposta più a nord, nei pressi di Limoges.

    Nella chiesa di St. Pierre-du-Queyroix Antonio vi tenne una celebre predica, resa emozionante per una bilocazione attestataci da fra’ Giovanni Rigaldi.
    Alla diocesi di Limoges appartiene l’abbazia di Solignac, sulla Briance. Anche in questo monastero soggiornò il Taumaturgo, operandovi un prodigio a favore del monaco che gli faceva da infermiere.
    Limoges rimane nella storia del Santo come uno dei centri più significativi. Egli rivestì infatti l’incarico di custode (=superiore) dei francescani della città e del circondario. Che il Santo sia stato custode di Limoges e territorio, siamo certi, d’una certezza cinta naturalmente di saggia circospezione, giacché la testimonianza scritta dista circa un settantennio dagli avvenimenti.
    Una cronaca del monastero di san Marziale di Limoges ci tramanda che Antonio pronunziò il suo primo discorso nel cimitero di san Paolo, prendendo spunto dal salmo 29,6. Un secondo sermone fu da lui predicato nel monastero di s. Martino, svolgendo le parole del salmo 54,7: Chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare riposo?
    E’ sempre a Limoges che avviene un altro fatto singolare. Siamo nella chiesa di St. Pierre-du-Queyroix. Sulla mezzanotte del giovedì santo, dopo l’ufficiatura del mattutino, ha luogo la predica durante la quale il Santo si trasferisce tra i suoi frati per cantare la lectio liturgica che spettava a lui.

    A Bourges, Le Puy e altrove

    L ’anno 1226 vede Antonio sostare anche a Brive, e nella sua veste di custode dei frati minori, fondare un convento. Qui il Santo trova la pace dell’ascesi e della meditazione, per ristorarsi delle snervanti predicazioni ritirandosi volentieri in alcune grotte appena fuori il borgo cittadino. Qui si dedica alla penitenza e alla contemplazione.

    Dopo la sua morte, il suo ricordo rimarrà sempre vivo tra gli abitanti di Brive. Le grotte che egli frequentò sono divenute un luogo di pellegrinaggio.

    Dopo le alterne vicende, nel 1874 il santuario fu riacquistato dai francescani e nel 1895 fu riconsacrato. Brive è da allora, pur tra qualche difficoltà, il centro nazionale della devozione antoniana in terra francese.

    La superba cattedrale di Bourges, puro gioiello del gotico, salutò il missionario Antonio. Ma egli fu anche a Le Puy-en-Velay, nell’attuale dipartimento della Haute-Loire, ai piedi del monte Anisan. Non è certo se qui vi abbia esercitato l’incarico di guardiano della fraternità.


    Non possiamo determinare la data del ritorno di sant’Antonio in Italia: per quale motivo fece il viaggio a ritroso, chi ve lo chiamò, dove prese residenza o, se non ebbe residenza alcuna, perché continuò a fare il missionario peregrinante. Gli agiografi antoniani fissano il ritorno in occasione del capitolo generale, tenuto in Assisi per la Pentecoste 1227, il 30 maggio.

    San Francesco morì la sera del 3 ottobre 1226: l’assemblea doveva quindi dare all’Ordine un nuovo ministro generale.

    Come custode del Limosino egli era tenuto, per dettato esplicito della Regola, a prender parte al capitolo, in cui si doveva scegliere il successore di san Francesco. Ma non abbiamo prove ch’egli ricoprisse ancora questo incarico.
    Non sapremo mai se fu frate Elia, colui che forse aveva promosso la sua missione in Francia, a richiamarlo in Italia per affidargli compiti ancor più complessi e gravosi. Non sapremo nemmeno se fu fra Giovanni Parenti.
    Sappiamo solo che, diretto verso l’Italia, attraversò a piedi la Provenza (così dice la Rigaldina 6,34).

    Nel nord Italia

    Ministro provinciale

    Sant’Antonio godette di indiscutibile stima da parte dei suoi confratelli. Così, alle già numerose incombenze, si aggiunse anche l’incarico di ministro provinciale del nord Italia, Romagna inclusa.

    Chi gli conferì tale incarico? La storia qui si rivela avara di testimonianze. Circa la durata, la maggioranza degli studiosi antoniani ipotizza sia durato l’arco di un triennio, dal 1227 al 1230.


    Anche in questa nuova incombenza, Antonio si distinse in spirito di servizio e di fraternità, sorreggendo, incoraggiando e guidando i fratelli, con l’esempio e con gli ammonimenti.

    Una fonte attendibile tramanda che rimase superiore provinciale fino a maggio del 1230.

    L’amicizia con Tomaso di san Vittore

    Nella sua attività di ministro provinciale dell’Italia settentrionale si seppe mantenere fedele al carisma di san Francesco inserendolo nella complessa mutevole realtà dei tempi e luoghi. Con le strutture gerarchiche coltivò rapporti da vero cattolico, evitando conflitti e alimentando un clima di concordia. Ne è prova la partecipazione personale del vescovo di Padova alla quaresima antoniana del 1231, come non è un caso che la canonizzazione lampo del Santo non sia stata inceppata da alcuna protesta o riserva.

    Un secondo obiettivo dell’azione pastorale si riproponeva di armonizzare l’attività del neonato ordine francescano con quella dei vecchi Ordini religiosi. Seguendo nella trasferta francese, lo abbiamo visto ospite all’abbazia di Solignac, accolto come in casa propria da quei monaci.


    Mantenne anche un rapporto di intesa cordiale con gli antichi confratelli agostiniani. Facendosi francescano, Antonio non intese fare un taglio col passato. Anzi, mantenne tutto quello che di valido aveva ricevuto e amato in quegli anni a s. Vincenzo e a s. Croce.
    Non per nulla il suo rapporto amicale più intenso fu, durante gli anni italiani, quello coltivato con il parigino Tomaso di san Vittore, abate di s. Andrea in Vercelli.
    Antonio, eletto superiore, visitando le comunità minoritiche, ebbe modo di recarsi a Vercelli, dove rimase qualche settimana per predicare e incontrarsi con Tomaso di san Vittore. Questi era giunto a Vercelli nel 1220, fu nominato priore di s. Andrea nel ’24, ebbe il titolo di abate nel ’26.

    E’ fuori di dubbio l’amicizia fedele che legò fra loro, in vita e in morte, Antonio e il celebrato abate Tomaso. Le fonti presentano i due santi in un reciproco rapporto di maestro-discepolo, da pari a pari, da maestro a maestro, mediante scambi di esperienze intellettuali.

    Apostolo di pace

    A Padova, durante la podesteria del veneziano Giovanni Dandolo (29 giugno 1229 - 28 giugno 1230), la distensione e la pace tanto sospirate fiorirono nella regione. Ma sentiamo la relazione di un contemporaneo, il notaio padovano Rolandino:
    “Per lo spazio di circa un anno le città della Marca Trevigiana godettero di tale pace, che quasi tutti erano convinti che d’allora in poi non ci sarebbero più stati torbidi e guerre nella regione. Dei religiosi ricreavano spiritualmente pressoché l’intera popolazione, elevandola alle realtà celesti mediante la predicazione. E fu in quel momento che, fra altri religiosi e giusti, giunse il beato Antonio, e in diverse località della Marca annunciò la parola di Dio con voce affascinante”.

    La redazione dei Sermones

    L’Assidua, prima biografia di sant'Antonio, afferma che Antonio scrisse i suoi Sermones per le domeniche durante un suo soggiorno a Padova, dove frattanto nacque un profondo vicendevole affetto tra gli abitanti e lui.
    Invano vi cercheremmo una espressione cronologica precisa, poiché il “quando” resta nel vago. Quanto al luogo di residenza, è Sancta Maria Matera Domini.
    Nessuna base documentale suffraga la candidatura dell’Arcella, ubicazione sostenuta da vari antonianisti, che peraltro non producono alcuna prova.
    L’Assidua parlando dell’infaticabile zelo per le anime che incalzava Antonio a darsi interamente all’apostolato, annota ch’egli seguitava il lavoro pastorale sino al tramonto del sole, molto spesso restando digiuno.
    Predicava, insegnava, ascoltava le confessioni.
    Nel suo apostolato, sant’Antonio era accompagnato da alcuni compagni, e nell’ultimo periodo in particolare dal beato Luca Belludi.

    Predicatore apostolico

    Fu in occasione del capitolo generale del 1230, avvenuto durante la traslazione delle spoglie di Francesco nella nuova basilica eretta in suo onore, che frate Antonio da Lisbona fu liberato dagli incarichi di governo dell’ordine.
    Per la grande stima che godeva presso i responsabili dell’Ordine minoritico, gli fu conferito il nuovo incarico di “predicatore generale”, con la facoltà di recarsi liberamente dovunque riteneva opportuno, e prescelto, con sei altri confratelli, a rappresentare l’Ordine presso papa Gregorio IX.

    Nell’evoluzione del francescanesimo

    Antonio ebbe contatti personali con Gregorio IX?
    Quando e per quale motivo ebbe a recarsi alla curia papale? Che posizione assunse nelle questioni concernenti l’evoluzione dell’Ordine? In quali rapporti fu con il leader francescano, frate Elia?
    Le fonti ci indicano una sola urgente questione di famiglia nella quale fu implicato il Santo: quella che costituì il problema-crisi del capitolo generale assisano del maggio 1230.
    Cioè, che valore giuridico bisognava attribuire al Testamento dettato dal fondatore, san Francesco, poco innanzi la sua morte? E come si potevano risolvere i dubbi suscitati da alcuni punti della Regola francescana, che nella rapida e vorticosa evoluzione dell’Ordine suscitavano perplessità e tensioni?
    Antonio fece parte della delegazione espressa dal Capitolo generale per dibattere tali questioni e chiedere lumi al pontefice.
    Durante quel soggiorno, prolungatosi parte a Roma, parte ad Anagni, Antonio si fece conoscere in altissimo loco per la eminente santità e la straordinaria scienza biblica, e ciò nei colloqui privati con i diversi dignitari, non meno che nelle sedute, nelle conferenze spirituali e nelle omelie.
    Per mandato di Gregorio IX, Antonio avrebbe rivolto un discorso a una moltitudine di pellegrini, convenuti nella città eterna da tutto l’orbe cristiano. E, in virtù di un prodigio simile a quello accaduto agli Apostoli il giorno della Pentecoste, ognuno degli uditori lo sentì parlare nella propria lingua.

    Un’erratica tradizione francescana del Trecento dice che Gregorio IX invitò Antonio a rimanergli al fianco. “Egli, umilmente rinunciando a tale onore, per attendere al bene delle anime, dopo aver ottenuto la benedizione apostolica, scelse d’isolarsi alla Verna. Vi restò per qualche tempo, consacrandosi alla predicazione e alla penitenza. Di là, si diresse alla volta di Padova”.

    Antonio francescano

    Quale rapporto correva tra Antonio e i responsabili dell’Ordine francescano?
    Gli agiografi si sono preoccupati di presentare un Antonio a sé stante, come estrapolato dal movimento francescano. Possiamo pensare che, regnando tra i frati, durante la fase primigenia, una spiccata non-omogeneità, il senso di appartenenza fosse decisamente debole. In fondo, il documento ufficiale, tassativo, d’identità, la Regola, risaliva a fine novembre 1223.
    Antonio ed Elia, per indole, tempra morale, maturità evangelica, ci appaiono molto distanti
    Ma vissero in orbite lontane l’una dall’altra.
    Non sappiamo che posto occupasse nella pietà e nella molteplice attività di Antonio il Poverello di Assisi.
    Nei suoi Sermoni non ne declina mai il nome, il che assume un accento enigmatico, specie trattandosi di un’opera tanto estesa e pubblicata dopo la canonizzazione del Serafico.
    Antonio fu un moderato, che si sforzava di coniugare la fedeltà al carisma francescano con le urgenti richieste dei diversi ambienti dove lo porta l’impegno pastorale.


    A Padova

    Il grande momento padovano

    A Padova, Antonio fece un paio di soggiorni ravvicinati relativamente brevi: il primo, fra il 1229 e il 1230; il secondo, fra il 1230 e il 1231, durante il quale venne precocemente a morte.
    Sommando i due periodi, si arriva a mettere insieme una serie di dodici mesi o poco più.
    Come dire che il missionario non trascorse nella sua patria di elezione che un anno, in due puntate.
    Quale Padova lo attirava, lo aspettava, lo accolse?
    Tutta intera, nelle sue diverse, talora contrastanti, componenti.
    E la troviamo unanime, pochi mesi dopo, ai piedi del suo pulpito e del suo confessionale; e in seguito appassionatamente impegnata alla sua glorificazione culturale. adova gli servì nuovamente come scriptorium dei suoi commentari biblico-liturgici.

    Possiamo ipotizzare che vi trovasse, oltre a un valido sussidio nelle biblioteche, dei collaboratori a livello di scrivani e magari di aiutanti nella stesura del testo.


    I Sermones antoniani vanno considerati come l’opera letteraria di carattere religioso più notevole compilata in Padova durante l’epoca medievale.
    E ancora, la città euganea interessava vivamente Antonio per la sua università. Egli aveva un debole per i centri di alti studi. Aveva prediletto, dopo Bologna, Montpellier, Tolosa, Vercelli… Lui stesso era, sia pure fuori di strutture burocratiche, un emerito cattedratico. Ma dire università era soprattutto sinonimo di concentrazione di elementi giovanili. Antonio era un esperto “pescatore di giovani”.


    Presentisse o meno che il suo peregrinare sulla terra volgeva al termine, egli aspirava a reclutare nuove leve nell’oneroso entusiasmante incarico di portatori del Vangelo.

    Poi, la terra veneta viveva una pace malferma.
    Antonio sentiva forte l’invito a intervenire, moltiplicando ogni sforzo per scongiurare il riattizzarsi dei conflitti. E ancora, non mancavano nemmeno nella fedele Padova, in forme ora subdole, ora palesi, gli adepti dell’eresia.

    I giorni di salvezza

    Allo spuntar del 5 febbraio, il Santo sospese la fatica di carta, penna e calamaio.
    La città viveva un magico intervallo di pace dentro e fuori dei suoi confini.
    Si diffuse la voce che sant'Antonio intendeva predicare giornalmente, prendendo spunto dai testi offerti dalla liturgia.
    Ben presto non solo l'angusta chiesetta di S. Maria, ma le più ampie chiese della città risultarono via via incapaci di contenere la moltitudine crescente.
    La gente affluiva a grandi schiere, dove accoglierla?
    La voce non faceva problema, essendo Antonio dotato di un volume vocale d'eccezione. Si riunivano nelle piazze. Ma queste pure si mostrarono anguste.
    Anche a Padova, com'era già accaduto in Francia, sant'Antonio si vide costretto a parlare fuori città, in mezzo ai prati.
    Nobili e popolani, donne e uomini, giovani e vecchi, praticanti fervorosi e persone indifferenti o “lontane”, galantuomini e mariuoli, ecclesiastici e laici si disponevano in ordine sparso, aspettando con pazienza l’arrivo dell’uomo di Dio.
    Il vescovo Jacopo insieme con gruppi del clero prendeva parte personalmente al cammino quaresimale, da lui stesso autorizzato e seguito con la gioia del pastore che vede riunito il suo gregge in pascoli ubertosi.
    Di sermone in sermone si dilatava la fama di quanto stava accadendo a Padova, provocando un continuo accrescersi dell’uditorio.
    Una folla incessante si assiepava intorno al suo confessionale. Era impossibile farvi fronte, sebbene dei confratelli sacerdoti e una schiera di presbiteri della città cercassero di alleggerirgli tale fatica. Non gli restava che aspettare il deflusso dei penitenti al calar della sera.
    L’Assidua informa che si rassegnava a rimaner digiuno fino al tramonto.
    Alcuni accorrevano al sacramento della penitenza, dichiarando che un’apparizione li aveva spinti alla confessione e a mutar vita.
    Testimonia l’Assidua: “Riconduceva a pace fraterna i discordi; ridava libertà ai detenuti; faceva restituire ciò ch’era stato rapinato con l’usura e la violenza”.

    Si giunge a tanto che, ipotecati case e terreni, se ne poneva il prezzo ai piedi del Santo, e su consiglio di lui restituito ai derubati quanto era stato loro tolto con le buone o con le cattive.
    Distoglieva le prostitute dal turpe mercato; ladri famigerati per misfatti, tratteneva dal metter le grinfie sulle proprietà altrui.
    In tal modo, compiuti felicemente i quaranta giorni, grazie al suo zelo, raccolse una messe gradita al Signore.
    Non posso passar sotto silenzio come egli induceva a confessare i peccati una moltitudine così grande di uomini e donne, da non essere bastanti a udirli né i frati, né altri sacerdoti, che in non piccola schiera lo accompagnavano”.

    Antonio intervenne anche a modificare la legislazione comunale di Padova. Si tratta di uno statuto relativo ai debitori insolventi, datato 17 marzo 1231, lunedì santo.

    Eccolo, tradotto dall’originale latino.

    A richiesta del venerabile fratello Antonio, dell’Ordine dei frati Minori, fu stabilito e ordinato che nessuno sia detenuto in carcere, quando non sia reo che di uno o più debiti in denaro, del passato o del presente o del futuro, purché egli voglia cedere i suoi beni. E ciò vale sia per i debitori che per gli avallatori. Se però una rinuncia o cessione o un’alienazione sia fatta frodolentemente, sia da parte dei debitori, sia degli avallatori, essa non abbia alcun valore e non porti danno ai creditori. Quando poi la frode non possa venir dimostrata in modo evidente, della questione sia giudice il podestà. Questo statuto non possa subire modificazioni di sorta, ma resti immutato in perpetuo”.

    L'ultimo periodo


    Nell’eremo di Camposampiero


    Diversi i motivi per cui Antonio si ritirò nel romitorio di Camposampiero.

    Il primo è sottaciuto, ma intuibile. Dopo l’intenso, sfibrante lavoro della quaresima e del periodo pasquale, le forze del Santo erano pressoché esauste.


    Seconda motivazione, espressa dall’Assidua (15,2) ed echeggiata dagli agiografi successivi.

    Bisognava sospendere la predicazione e la disponibilità per chi veniva a confessarsi o consigliarsi, allo scopo di lasciar libera la gente per attendere alle occupazioni rurali, essendo imminente il tempo della mietitura.


    Terzo motivo: isolarsi in una località tranquilla e difficilmente accessibile, al fine di seguitare e, chissà, ultimare la stesura dei Sermoni festivi.

    Quarto movente: allontanarsi dagli occhi affettuosamente scrutatori dei confratelli padovani, che avrebbero potuto allarmarsi notando le sue condizioni di salute in crescente peggioramento e soffrirne.


    Quinto scopo, il più alto e desiderato: quello di sottrarsi alla morsa della vita attiva, frastornante e alienante se protratta sopra certi livelli, per tuffarsi nell’orazione, nel raccoglimento dello spirito, in vista del grande appuntamento.


    Possiamo ipotizzare che il Santo abbia lasciato Padova il lunedì 19 maggio, e pertanto il suo soggiorno a Camposampiero sia durato, compresa l’ipotetica parentesi dell’andata-sosta-ritorno da Verona, sui 25 giorni.


    La morte

    Nella tarda primavera del 1231, Antonio fu colto da malore.
    Deposto su un carro trainato da buoi venne trasportato a Padova, dove aveva chiesto di poter morire.
    Giunto però all'Arcella, un borgo della periferia della città la morte lo colse.
    Spirò mormorando: “Vedo il mio Signore”.
    Era il venerdì 13 giugno. Aveva 36 anni.

    Il Santo venne sepolto a Padova, nella chiesetta di santa Maria Mater Domini, il rifugio spirituale del Santo nei periodi di intensa attività apostolica.


    Al termine dei festosi funerali, il corpo del Santo venne sepolto nella chiesetta del conventino francescano della città.


    Probabilmente non interrato, ma anzi un po’ sopraelevato, in maniera che i devoti, sempre più frequenti e numerosi, potessero vederne e toccarne l’arca-tomba.

    Un anno dopo la morte la fama dei tanti prodigi compiuti convinse Gregorio IX a bruciare le tappe del processo canonico e a proclamarlo Santo il 30 maggio 1232, a soli 11 mesi dalla morte.

    La chiesa ha reso giustizia alla sua dottrina, proclamandolo nel 1946 “dottore della chiesa universale”, col titolo di Doctor evangelicus.


    Tratto da: www.santantonio.org

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    St. Anthony of Padua

    Franciscan Thaumaturgist, born at Lisbon, 1195; died at Vercelli [actually Arcella --Ed.]*, 13 June, 1231. He received in baptism the name of Ferdinand.

    Later writers of the fifteenth century asserted that his father was Martin Bouillon, descendant of the renowned Godfrey de Bouillon, commander of the First Crusade, and his mother, Theresa Tavejra, descendant of Froila I, fourth king of Asturia. Unfortunately, however, his genealogy is uncertain; all that we know of his parents is that they were noble, powerful, and God-fearing people, and at the time of Ferdinand's birth were both still young, and living near the Cathedral of Lisbon.

    Having been educated in the Cathedral school, Ferdinand, at the age of fifteen, joined the Canons Regular of St. Augustine, in the convent of St. Vincent, just outside the city walls (1210). Two years later to avoid being distracted by relatives and friends, who frequently came to visit him, he betook himself with permission of his superior to the Convent of Santa Croce in Cóimbra (1212), where he remained for eight years, occupying his time mainly with study and prayer. Gifted with an excellent understanding and a prodigious memory, he soon gathered from the Sacred Scriptures and the writings of the Holy Fathers a treasure of theological knowledge.

    In the year 1220, having seen conveyed into the Church of Santa Croce the bodies of the first Franciscan martyrs, who had suffered death at Morocco, 16 January of the same year, he too was inflamed with the desire of martyrdom, and resolved to become a Friar Minor, that he might preach the Faith to the Saracens and suffer for Christ's sake. Having confided his intention to some of the brethren of the convent of Olivares (near Cóimbra), who came to beg alms at the Abbey of the Canons Regular, he received from their hands the Franciscan habit in the same Convent of Santa Croce. Thus Ferdinand left the Canons Regular of St. Augustine to join the Order of Friars Minor, taking at the same time the new name of Anthony, a name which later on the Convent of Olivares also adopted.

    A short time after his entry into the order, Anthony started for Morocco, but, stricken down by a severe illness, which affected him the entire winter, he was compelled to sail for Portugal the following spring, 1221. His ship, however, was overtaken by a violent storm and driven upon the coast of Sicily, where Anthony then remained for some time, till he had regained his health. Having heard meanwhile from the brethren of Messina that a general chapter was to be held at Assisi, 30 May, he journeyed thither, arriving in time to take part in it. The chapter over, Anthony remained entirely unnoticed.

    "He said not a word of his studies", writes his earliest biographer, "nor of the services he had performed; his only desire was to follow Jesus Christ and Him crucified". Accordingly, he applied to Father Graziano, Provincial of Cóimbra, for a place where he could live in solitude and penance, and enter more fully into the spirit and discipline of Franciscan life. Father Graziano, being just at that time in need of a priest for the hermitage of Montepaolo (near Forli), sent him thither, that he might celebrate Mass for the lay-brethren.

    While Anthony lived retired at Montepaolo it happened, one day, that a number of Franciscan and Dominican friars were sent together to Forli for ordination. Anthony was also present, but simply as companion of the Provincial. When the time for ordination had arrived, it was found that no one had been appointed to preach. The superior turned first to the Dominicans, and asked that one of their number should address a few words to the assembled brethren; but everyone declined, saying he was not prepared. In their emergency they then chose Anthony, whom they thought only able to read the Missal and Breviary, and commanded him to speak whatever the spirit of God might put into his mouth. Anthony, compelled by obedience, spoke at first slowly and timidly, but soon enkindled with fervour, he began to explain the most hidden sense of Holy Scripture with such profound erudition and sublime doctrine that all were struck with astonishment. With that moment began Anthony's public career.

    St. Francis, informed of his learning, directed him by the following letter to teach theology to the brethren:

    To Brother Anthony, my bishop (i.e. teacher of sacred sciences), Brother Francis sends his greetings. It is my pleasure that thou teach theology to the brethren, provided, however, that as the Rule prescribes, the spirit of prayer and devotion may not be extinguished. Farewell. (1224)

    Before undertaking the instruction, Anthony went for some time to Vercelli, to confer with the famous Abbot, Thomas Gallo; thence he taught successively in Bologna and Montpellier in 1224, and later at Toulouse. Nothing whatever is left of his instruction; the primitive documents, as well as the legendary ones, maintain complete silence on this point. Nevertheless, by studying his works, we can form for ourselves a sufficient idea of the character of his doctrine; a doctrine, namely, which, leaving aside all arid speculation, prefers an entirely seraphic character, corresponding to the spirit and ideal of St. Francis.

    It was as an orator, however, rather than as professor, that Anthony reaped his richest harvest. He possessed in an eminent degree all the good qualities that characterize an eloquent preacher: a loud and clear voice, a winning countenance, wonderful memory, and profound learning, to which were added from on high the spirit of prophecy and an extraordinary gift of miracles. With the zeal of an apostle he undertook to reform the morality of his time by combating in an especial manner the vices of luxury, avarice, and tyranny. The fruit of his sermons was, therefore, as admirable as his eloquence itself. No less fervent was he in the extinction of heresy, notably that of the Cathares and the Patarines, which infested the centre and north of Italy, and probably also that of the Albigenses in the south of France, though we have no authorized documents to that effect. Among the many miracles St. Anthony wrought in the conversion of heretics; the three most noted recorded by his biographers are the following:
    • The first is that of a horse, which, kept fasting for three days, refused the oats placed before him, till he had knelt down and adored the Blessed Sacrament, which St. Anthony held in his hands. Legendary narratives of the fourteenth century say this miracle took place at Toulouse, at Wadding, at Bruges; the real place, however, was Rimini.
    • The second most important miracle is that of the poisoned food offered him by some Italian heretics, which he rendered innoxious by the sign of the cross.
    • The third miracle worthy of mention is that of the famous sermon to the fishes on the bank of the river Brenta in the neighbourhood of Padua; not at Padua, as is generally supposed.

    The zeal with which St. Anthony fought against heresy, and the great and numerous conversions he made rendered him worthy of the glorious title of Malleus hereticorum (Hammer of the Heretics). Though his preaching was always seasoned with the salt of discretion, nevertheless he spoke openly to all, to the rich as to the poor, to the people as well as those in authority. In a synod at Bourges in the presence of many prelates, he reproved the Archbishop, Simon de Sully, so severely, that he induced him to sincere amendment.

    After having been Guardian at Le-Puy (1224), we find Anthony in the year 1226, Custos Provincial in the province of Limousin. The most authentic miracles of that period are the following:
    • Preaching one night on Holy Thursday in the Church of St. Pierre du Queriox at Limoges, he remembered he had to sing a Lesson of the Divine Office. Interrupting suddenly his discourse, he appeared at the same moment among the friars in choir to sing his Lesson, after which he continued his sermon.
    • Another day preaching in the square des creux des Arenes at Limoges, he miraculously preserved his audience from the rain.
    • At St. Junien during the sermon, he predicted that by an artifice of the devil the pulpit would break down, but that all should remain safe and sound. And so it occurred; for while he was preaching, the pulpit was overthrown, but no one hurt; not even the saint himself.
    • In a monastery of Benedictines, where he had fallen ill, he delivered by means of his tunic one of the monks from great temptations.
    • Likewise, by breathing on the face of a novice (whom he had himself received into the order), he confirmed him in his vocation.
    • At Brive, where he had founded a convent, he preserved from the rain the maid-servant of a benefactress who was bringing some vegetables to the brethren for their meagre repast.

    This is all that is historically certain of the sojourn of St. Anthony in Limousin.

    Regarding the celebrated apparition of the Infant Jesus to our saint, French writers maintain it took place in the province of Limousin at the Castle of Chateauneuf-la-Forêt, between Limoges and Eymoutiers, whereas the Italian hagiographers fix the place at Camposanpiero, near Padua. The existing documents, however, do not decide the question. We have more certainty regarding the apparition of St. Francis to St. Anthony at the Provincial Chapter of Arles, whilst the latter was preaching about the mysteries of the Cross.

    After the death of St. Francis, 3 October, 1226, Anthony returned to Italy. His way led him through La Provence on which occasion he wrought the following miracle: Fatigued by the journey, he and his companion entered the house of a poor woman, who placed bread and wine before them. She had forgotten, however, to shut off the tap of the wine-barrel, and to add to this misfortune, the Saint's companion broke his glass. Anthony began to pray, and suddenly the glass was made whole, and the barrel filled anew with wine.

    Shortly after his return to Italy, Anthony was elected Minister Provincial of Emilia. But in order to devote more time to preaching, he resigned this office at the General Chapter of Assisi, 30 May, l230, and retired to the Convent of Padua, which he had himself founded. The last Lent he preached was that of 1231; the crowd of people which came from all parts to hear him, frequently numbered 30,000 and more. His last sermons were principally directed against hatred and enmity, and his efforts were crowned with wonderful success. Permanent reconciliations were effected, peace and concord re-established, liberty given to debtors and other prisoners, restitutions made, and enormous scandals repaired; in fact, the priests of Padua were no longer sufficient for the number of penitents, and many of these declared they had been warned by celestial visions, and sent to St. Anthony, to be guided by his counsel. Others after his death said that he appeared to them in their slumbers, admonishing them to go to confession.

    At Padua also took place the famous miracle of the amputated foot, which Franciscan writers attribute to St. Anthony. A young man, Leonardo by name, in a fit of anger kicked his own mother. Repentant, he confessed his fault to St. Anthony who said to him: "The foot of him who kicks his mother deserves to be cut off." Leonardo ran home and cut off his foot. Learning of this, St. Anthony took the amputated member of the unfortunate youth and miraculously rejoined it.

    Through the exertions of St. Anthony, the Municipality of Padua, 15 March, 1231, passed a law in favour of debtors who could not pay their debts. A copy of this law is still preserved in the museum of Padua. From this, as well as the following occurrence, the civil and religious importance of the Saint's influence in the thirteenth century is easily understood. In 1230, while war raged in Lombardy, St. Anthony betook himself to Verona to solicit from the ferocious Ezzelino the liberty of the Guelph prisoners. An apocryphal legend relates that the tyrant humbled himself before the Saint and granted his request. This is not the case, but what does it matter, even if he failed in his attempt; he nevertheless jeopardized his own life for the sake of those oppressed by tyranny, and thereby showed his love and sympathy for the people. Invited to preach at the funeral of a usurer, he took for his text the words of the Gospel: "Where thy treasure is, there also is thy heart." In the course of the sermon he said: "That rich man is dead and buried in hell; but go to his treasures and there you will find his heart." The relatives and friends of the deceased, led by curiosity, followed this injunction, and found the heart, still warm, among the coins. Thus the triumph of St. Anthony's missionary career manifests itself not only in his holiness and his numerous miracles, but also in the popularity and subject matter of his sermons, since he had to fight against the three most obstinate vices of luxury, avarice and tyranny.

    At the end of Lent, 1231, Anthony retired to Camposanpiero, in the neighbourhood of Padua, where, after a short time he was taken with a severe illness. Transferred to Vercelli, and strengthened by the apparition of Our Lord, he died at the age of thirty-six years, on 13 June, 1231. He had lived fifteen years with his parents, ten years as a Canon Regular of St. Augustine, and eleven years in the Order of Friars Minor.

    Immediately after his death he appeared at Vercelli to the Abbot, Thomas Gallo, and his death was also announced to the citizens of Padua by a troop of children, crying: "The holy Father is dead; St. Anthony is dead!" Gregory IX, firmly persuaded of his sanctity by the numerous miracles he had wrought, inscribed him within a year of his death (Pentecost, 30 May, 1232), in the calendar of saints of the Cathedral of Spoleto. In the Bull of canonization he declared he had personally known the saint, and we know that the same pontiff, having heard one of his sermons at Rome, and astonished at his profound knowledge of the Holy Scripture called him: "Ark of the Covenant". That this title is well-founded is also shown by his several works: "Expositio in Psalmos", written at Montpellier, 1224; the "Sermones de tempore", and the "Sermones de Sanctis", written at Padua, 1229-30.

    The name of Anthony became celebrated throughout the world, and with it the name of Padua. The inhabitants of that city erected to his memory a magnificent temple, whither his precious relics were transferred in 1263, in presence of St. Bonaventure, Minister General at the time. When the vault in which for thirty years his sacred body had reposed was opened, the flesh was found reduced to dust but the tongue uninjured, fresh, and of a lively red colour. St. Bonaventure, beholding this wonder, took the tongue affectionately in his hands and kissed it, exclaiming: "O Blessed Tongue that always praised the Lord, and made others bless Him, now it is evident what great merit thou hast before God."

    The fame of St. Anthony's miracles has never diminished, and even at the present day he is acknowledged as the greatest thaumaturgist of the times. He is especially invoked for the recovery of things lost, as is also expressed in the celebrated responsory of Friar Julian of Spires:

    Si quaeris miracula ...
    ... resque perditas
    .

    Indeed his very popularity has to a certain extent obscured his personality. If we may believe the conclusions of recent critics, some of the Saint's biographers, in order to meet the ever-increasing demand for the marvellous displayed by his devout clients, and comparatively oblivious of the historical features of his life, have devoted themselves to the task of handing down to posterity the posthumous miracles wrought by his intercession. We need not be surprised, therefore, to find accounts of his miracles that may seem to the modern mind trivial or incredible occupying so large a space in the earlier biographies of St. Anthony. It may be true that some of the miracles attributed to St. Anthony are legendary, but others come to us on such high authority that it is impossible either to eliminate them or explain them away a priori without doing violence to the facts of history.

    Fonte: The Catholic Encyclopedia, vol. I, 1907, New York

    ---------------------------------------------------------------------------
    NOTE

    * Erroneamente è indicato quale luogo della morte Vercelli, bensì è Arcella, che attualmente è un quartiere di Padova.

 

 
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