GIOVANNI PAOLO II COME PAOLO VI "PROCLAMA" DELLE DONNE "DOTTORI DELLA CHIESA"
ERA IL 19 0TT0BRE 1997
Giovanni Paolo II ha “proclamato” Santa Teresa di Lisieux, “dottore della Chiesa”, e questo nel centenario della morte della grande Santa. Non vogliamo qui discutere se la dottrina spirituale di S. Teresa del Bambin Gesù può essere para-gonata a quella di un San Tommaso o di un San Bonaventura: lo stesso Giovanni Paolo II non nasconde che S. Teresa non ebbe un corpus dottrinale completo e sistematico. Il problema è un altro: può una donna, sia pure una grande Santa, essere nominata “dottore della Chiesa”? Pare che qualcuno avesse proposto a Pio XI, che considerava Teresa di Lisieux la più grande santa dei nostri tempi, di attribuire all’umile carmelitana il titolo di “dottore della Chiesa”. Il Papa avrebbe rifiutato la proposta rispondendo: obviat sexus, una donna non può essere “dottore” della Chiesa. Questa dottrina fu appannaggio pacifico della Chiesa fino al Vaticano II: nessuna donna, pur eminente in santità e sapienza, fu inclusa tra i Padri della Chiesa o tra i Dottori della medesima. Il primo a infrangere questa regola fu Paolo VI, il quale "proclamò" “dottore della Chiesa” prima Santa Teresa d’Avila (il 27 settembre 1970) e poi Santa Caterina da Siena (il 4 ottobre successivo). A dire il vero, Paolo VI non evitò la difficoltà: “Santa Teresa d’Avila - dichiarò il 27 settembre 1970 - è la prima donna alla quale la Chiesa conferisce il titolo di dottore. E allora non si può non pensare a quel severo avvertimento di san Paolo: Le donne tacciano nelle assemblee (1 Cor 14, 34), il che
significa, ancor oggi, che la donna non è destinata ad avere nella Chiesa delle funzioni gerarchiche di magistero e di ministero. Questo precetto apostolico è stato forse violato oggi? Possiamo rispondere chiaramente: no. In realtà, non si tratta di un titolo che comporta funzioni gerarchiche di magistero e di ministero” (cf Documentation Catho-lique, anno 1970, col. 908, che traduce in francese da L’Osservatore Romano del 28-29 settembre 1970). Paolo VI pose il problema. Lo risolse correttamente? Vediamo innanzitutto l’insegnamento della Sacra Scrittura. San Paolo insegna: Le donne nelle assemblee tacciano (1 Cor 14, 34) e Alla donna non permetto di insegnare (1 Tim 2, 12). Come ha interpretato, la Chiesa, questi passaggi del Nuovo Testamento? San Tommaso, il dottore comune, riassume così la dottrina cattolica: “Della parola uno se ne può servire in due maniere. Primo, privatamente, per parlare
familiarmente con uno o con pochi. E in tal senso il carisma della parola può essere accordato anche alle donne. Secondo, per parlare in pubblico a tutta la Chiesa. E questo alla donna non è concesso. Primadi tutto e principalmente, per la condizione del sesso femminile, che deve essere sottoposto all’uomo, come dice la Scrittura (Gen 3, 16). Ora, esortare e insegnare pubblicamente in Chiesa non appartiene ai sudditi, ma ai prelati. E gli uomini, anche se sudditi, possono meglio eseguire per delega questo incarico, perché non hanno questa dipendenza come un’imposizione naturale del sesso, ma per altri motivi accidentali...” (II-II, q. 177, a. 2). Nello stesso luogo, San Tommaso aggiunge: “le donne che abbiano ricevuto i carismi della sapienza o della scienza possono metterli a servizio degli altri nell’insegnamento privato, non già in quello pubblico” (ad 3). Paolo VI, come abbiamo visto, cerca di eludere la difficoltà spiegando i testi scritturali in un senso restrittivo: San Paolo vieterebbe alle donne solo l’insegnamento gerarchico. Ora, è ben vero che i passaggi succitati di san Paolo precludono alle donne ogni potere gerarchico (di giurisdizione come di ordine); ma tale preclusione non si limita a questo campo! Ciò appare con evidenza dal contesto. Nell’epistola a Timoteo: “la donna impari silenziosa e in tutta soggezione; di far da maestra, alla donna non lo permetto, né di dominar sull’uomo, ma se ne stia zitta”. San Paolo fa una affermazione generale: la donna è subordinata all’uomo, in particolare nell’insegnamento, e non solo alla gerarchia. Così pure nell’epistola ai Corinti: “le donne nelle assemblee tacciano”. E perché? “Poiché non è loro permesso di parlare; ma stiano sottoposte, come anche dice la legge”. Sottoposte a chi? Forse solo alla Chiesa gerarchica, alla Chiesa docente? No: “se vogliono imparar qualche cosa - prosegue San Paolo - in casa interroghino i proprii mariti; è cosa indecorosa per una donna parlare in una assemblea”. La donna, quindi, non può insegnare non solo “con funzione gerarchica di magistero e di ministero”, come pretende Paolo VI, ma in ogni modo pubblico, giacché deve sottostare in ciò (e “in tutto”: cf Efesini, 5, 23) al marito, che invece non ha il divieto di parlare nelle assemblee, pur non essendo Vescovo o sacerdote! San Tommaso, nel passo citato, afferma che l’uomo, anche se suddito e non prelato, può, in un certo senso, insegnare: non così la donna. E difatti, dei 29 dottori proclamati dalla Chiesa fino a Pio XII, alcuni non erano Vescovi (cioè prelati, membri della Chiesa docente) ma solo sacerdoti e uno, addirittura, solo diacono. Il titolo di “dottore della chiesa”, quindi, non è riservato, è vero, a quanti hanno avuto un potere gerarchico di insegnamento autentico; ma include però, per sua natura, l’aver svolto un ruolo di insegnamento a tutta la Chiesa: un insegnamento pubblico pertanto, e non solo privato. Vorremmo avere la santità e la sapienza infusa di Caterina e delle due Terese! Tuttavia, questi doni eccelsi che esse hanno ricevuto dal Signore non le abilita al ruolo di “dottore” della Chiesa, ufficialmente riconosciuto dalla medesima, ruolo che, come il sacerdozio, è precluso alle donne per volontà di Dio. Questo non toglie che molte donne siano più grandi, davanti a Dio, di tanti uomini: basti pensare alla dignità unica della Madre di Dio; sola-mente, esse non hanno, nella Chiesa e nella società, lo stesso ruolo dell’uomo. A nostro parere, un vero successore di Pietro non può dichiarare una donna, per quanto santa, “dottore della Chiesa”.