Vladimir Bukowski: «Il Parlamento europeo discute solo quanto grasso deve esserci nello yoghurt. A decidere tutto è la Commissione che è fuori dal controllo dei cittadini. Come il Soviet supremo». L’ex dissidente russo parla dei risultati elettorali e di come la gente risponde con la difesa della propria identità all’invadente burocrazia europea

’Europa, fondamentalmente, non piace. Era un’idea astratta che affascinava, ma quando si è trattato di metterla in pratica ne sono venuti fuori tutti i limiti. Il primo dei quali è la rinuncia alle proprie identità culturali. Un concetto al quale gli europei, pur non sapendolo, evidentemente tengono molto. E, al contrario, soprattutto all’Est, mal digeriscono un parlamento europeo che ha l’aria di un Soviet supremo: un fantoccio messo lì simbolicamente, mentre a governare sono altri. Intoccabili. Ecco spiegato il fiorire di partiti o movimenti politici localistici tendenzialmente euroscettici che hanno “fatto il pieno” alle recenti elezioni europee. L’unione europea non piace per la sua iper burocrazia e per l’impossibilità dei cittadini di controllare chi conta davvero. «Il Parlamento europeo decide solo quanto grasso ci deve essere nello yogurt, è la Commissione che ha tutto il potere. E su quella noi non abbiamo alcun controllo». A parlare è Vladimir Bukowski, scrittore, professore all’università inglese di Cambridge, ex internato nei gulag sovietici per la sua opposizione al regime comunista.
Professor Bukowski, cosa pensa dei risultati dell’ultima elezione europea? Perché i perdenti sono i partiti di governo?
«Ovviamente tali risultati indicano la disapprovazione delle politiche dei loro governi. E, poiché stiamo parlando delle elezioni europee, questo deve essere interpretato come segnale della disapprovazione popolare di un’ulteriore integrazione europea».
«Nel senso che gli europei non vogliono ulteriori allargamenti?
«Esattamente».
Nei Paesi entrati di recente nell’Unione, penso in particolare alla Polonia, c’è stato un forte astensionismo. Cosa pensa di questi dati?
«Io non guarderei solo ai Paesi dell’Est europeo. Il dato della scarsa affluenza, è riscontrabile quasi dappertutto. Anche qui da noi in gran Bretagna abbiamo avuto percentuali molto basse di votanti. Anzi, in questa occasione è stata semplicemente un po’ superiore all’usuale (40%) perché le elezioni europee hanno coinciso con le elezioni locali. Poi lei mi parlava riguardo al voto che ha punito i partiti di governo. Secondo me non esistono ragioni comuni a ogni Paese. La guerra, per esempio. Francesi e tedeschi sono usciti male da queste elezioni eppure loro erano e sono tutt’ora contrari all’intervento in Iraq. Le ragioni di questo voto sono da ricercare a livello locale. Qui in Gran Bretagna, per esempio, la gente è andata a votare contro il governo a causa di tasse locali molto alte. Se vuole una percentuale “molto locale”, le dico che nella mia contea c’è stato un astensionismo del 20% quest’anno. Quindi una percentuale di votanti dell’ottanta. Perché l’interesse era diretto, reale. La tassazione eccessiva ha portato i cittadini a votare in massa, non certo le europee».
Ma una volta nella cabina elettorale hanno votato anche per le europee.
«Certo. E hanno votato contro l’integrazione europea. Fra il 49 e il 70% (stando a diversi sondaggi dell’opinione pubblica) della gente britannica è fortemente anti-europeista».
Torniamo ai Paesi dell’Est, perché l’astensione dell’Europa orientale, in fondo è interessante: appena entrati nell’Unione, poco avvezzi al voto. Sarebbero dovuti accorrere in massa alle urne.
«Forse sono più disincantati di quel che si creda. Non credono che queste elezioni cambieranno qualcosa. E hanno ragione. Il Parlamento Europeo è una punta dell’iceberg, come lo era il Soviet supremo nell’ex Unione Sovietica: chi ha peso è nascosto e il Parlamento, come l’ex Soviet supremo, non prende alcune decisioni importanti. Nel caso sovietico era il Vôzdt, il capo, che decideva tutto».
E adesso il parlamento europeo dovrà affrontare una serie di problemi di non poco conto: Paesi come la Germania, l’Olanda, la Francia hanno un deficit superiore al fatidico 3%. E poi c’è la costituzione europea che non si riesce a concludere, la difesa comune, il terrorismo: come se ne viene fuori da questa situazione?
«Come le dicevo, il Parlamento europeo ha un potere davvero ridotto. Per lo più decidono quale percentuale di grasso ci deve essere nello yoghurt. Tutte le decisioni più importanti sono prese dalla Commissione europea, che però non viene eletta. E la Commissione ha tutto l’interesse nel preservare il suo potere e i suoi privilegi. In questo modo non esiste un meccanismo legale per rinunciare alla Ue. Anche la nuova costituzione offre procedure estremamente complicate per uscire dall’Unione in base alla quale è necessaria una richiesta che deve essere approvata dagli altri membri dell’Unione. In termini legali, nessuno può andarsene, può uscire. In particolar modo i Paesi che fanno parte dell’area Euro. Ma io ritengo che se la gente lo chiedesse massicciamente e scendesse in strada così come per andare alle elezioni i governi dovrebbero essere obbligati a terminare l’accordo de facto».
In pratica lei dice che se tutti i milioni di euro scettici che hanno votato esponessero le loro opinioni anche per strada i governi sarebbero obbligati a rinunciare a stare nella zona euro indipendentemente dai vincoli legali che si frappongono all’uscita?
«Proprio così».
Sarebbe un movimento di non poco conto. I reali vincitori di queste elezioni sono stati gli euro scettici: l’Ukip inglese, il Vlaams Blok fiammingo, La Lega Nord, Samobroona (Autodifesa) polacca. Gli europei dimostrano di non volere rinunciare alle proprie identità?
«Sì. Le persone sono ansiose di preservare la propria identità nazionale, le proprie tradizioni e la propria cultura. L’idea del dissolvimento dello Stato-nazione nell’Unione europea è estranea alla maggior parte dei cittadini europei. La maggior parte di loro sono spaventati dall’emersione di questo mostro burocratico nei confronti del quale non c’è alcun controllo».