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    Lightbulb Filosofia e Teologia: contrasto superabile?

    [mid]http://www.govisalia.com/Sounds/TVMovies/psycho.mid[/mid]

    Posto questo articolo della Vazzano riguardante il nuovo e interessantissimo testo di Dario Antiseri ("Cristiano perchè relativista, relativista perchè cristiano. Per un razionalismo della contingenza".) sperando di poter aprire un vivo dibattito. Antiseri, infatti, affronta la nota problematica valicando antiche contrapposizioni. I molti limiti della ragione umana che si lacera tra assurdo e fiducia, tra mero relativismo e vivo cristianesimo.

    Saluti


    Filosofia e teologia: contrasto superabile?
    di Sonia Vazzano

    Provocatorio da subito, già nel titolo, il libro di Dario Antiseri chiarisce sin nella premessa la posizione del filosofo circa il grande problema del rapporto che lega tra loro la fede e la ragione. La prima parte del titolo è spiegata da Antiseri con la consapevolezza dei fallimenti della ratio e con la possibilità di trovare un senso assoluto, non costruibile, però, dall'uomo. La seconda parte, invece, si rispecchia nella convinzione di quelle persone che abbracciano la fede cristiana, per le quali solo Dio è assoluto. Il filosofo, di fronte a questa biforcazione della vita degli uomini di ogni tempo, si definisce, allora, "relativista", nel senso che si fa promotore di un "razionalismo della contingenza", il quale, partendo dal fallibilismo della conoscenza, rafforzi così la posizione della fede. Si tratta di un "relativismo", inteso come impossibilità di costruire "assoluti terrestri". Il percorso seguito nel volume si avvale, quindi, dell'antica problematica concernente i rapporti che intercorrono tra fede e ragione, ma la indaga con particolare riferimento al nostro tempo, in cui si potrebbe sostenere, parafrasando i sostenitori del cosiddetto "pensiero debole", che "l'unica certezza è la certezza della non-certezza". In tale scenario la fede e la ragione potrebbero apparire come due rette parallele o assomigliare piuttosto a quelle "particolari" del teorema di Euclide che per assurdo si incontrerebbero in un punto. Una concezione così tipicamente matematica potrebbe esserci utile per comprendere il metodo utilizzato da Antiseri per spiegare la sua posizione. Egli, infatti, facendo proprie le suggestioni kantiane e quelle popperiane, cerca di rispondere alla provocazione di Ugo Spirito: "Tu non puoi essere filosofo. Non puoi esserlo perchè sei credente. Un cattolico non può essere filosofo." Il cuore del volume evidenzia perciò i passi compiuti in tal senso da idealisti, positivisti, neopositivisti e scientisti, nella loro pretesa di assolutizzare il pensiero, eliminando la fede.
    Il "relativismo" di cui si fregia Antiseri è inteso come l'accettazione della decadenza di una "ragione" che ha preteso troppo da se stessa, finendo, invece, per mostrare un panorama di "scienza senza certezze", di "etica senza verità" e di "metafisica senza fondamenti assoluti". La ragione scientifica, scoprendo così la sua irrazionalità, finisce per accettarne le conseguenze, come quella della riconquista di uno spazio relativo alle scelte di fede. E se, dunque, la ricerca della scienza è un continuo tentativo di soluzione di problemi, essa finisce con l'essere senza fine nonchè soggetta ad errori e critiche. Per questo motivo Antiseri, insieme a Popper e Einstein, abbraccia il cosiddetto "fallibilismo epistemologico", per il quale la conferma di una teoria non è mai logicamente definitiva. Tenendo presente tale posizione, l'autore si muove accostando tra di loro biologi, medici e storici, quindi fisici ed ermeneuti, che sono uniti dallo stesso modo di procedere nella ricerca della verità, cioè seguendo lo schema "problemi-teorie-critiche". L'indagine serve al nostro filosofo per mostrare come la scienza non sia assoluta e quindi come sia stato facile per la ragione perdere nel corso del tempo la sua infallibilità. La componente razionale viene poi ulteriormente messa da parte, in un certo senso, nella morale e nella politica, dove regnano libertà, responsabilità e relativismo dei valori. In realtà, ad essere colpita non è la ragione in sè, quanto piuttosto il suo abuso. Contro quest'ultimo si definisce il compito dello scienziato sociale, che si trova a fare i conti con i "collettivisti" e i "nominalisti", vale a dire rispettivamente con coloro i quali credono nel valore della società e, al contrario, con chi è convinto che solo gli individui "esistono, pensano, e agiscono". In un tale panorama Antiseri prende in esame il contributo del filosofo De Mandeville, nonchè della sua opera "La favola delle api". Il problema della lotta tra "assoluti terrestri" e "assoluto trascendente", due sinonimi forti degli ambiti della razionalità e della fede, sembra trovare, quindi, una parziale conclusione nell'ultima parte del volume. "L'ateismo è difficile...Ma anche credere non è facile", sostiene Antiseri parafrasando Etienne Gilson: "Dio abita dove lo si fa entrare", proclama con Martin Buber; "ho limitato il sapere per fare spazio alla fede", conclude con Kant. Questa, in particolare, è la posizione finale che, con ogni probabilità, è fatta propria dall'autore. Ad essa replicano, alla fine del volume, monsignor Rino Fisichella col suo "Da credente in difesa della ragione" e Sergio Galvan con "Per una razionalità senza dicotomie". Tali contributi arricchiscono ulteriormente il lavoro di Antiseri, che mostra il coraggio di mettersi in discussione, ponendosi tra due "fuochi", che rappresentano proprio i due poli principali del suo discorso.
    Fisichella, pur definendosi difensore della fede cristiana, sottolinea il rilievo della ratio in tale campo, un'importanza, però, intesa nel senso che la posizione della ragione è peculiare, ma non assoluta nè esclusiva. Infatti, la fede risponde alla Rivelazione e non alla ratio. Avendo come punto di riferimento forte l'enciclica "Fides et Ratio", il prelato pone l'influenza della ragione non fondando in essa la fede, ma sostenendo solo la possibilità che la prima possa condurre alla seconda. In definitiva, la sua risposta alle tesi di Antiseri si basa sulla non-assolutezza di entrambe e sulla convinzione del fatto che la tradizione cattolica non indebolisce la ragione, perchè non c'è bisogno di una ragione che crolli per rafforzare la fede.
    Galvan, invece, convinto come Antiseri della fallibilità della nostra conoscenza, specie di quella scientifica, non lo è invece di alcune conseguenze che quest'ultimo fa discendere da ciò, nè del fatto di volere escludere la ragione teoretica nella trattazione dei problemi circa l'esistenza e la trascendenza. Galvan proprugna piuttosto, in contrapposizione al "relativismo" antiseriano, una sorta di "realismo ontologico", per il quale "la realtà non sia costituita dal soggetto, ma sia da questo riconosciuta come qualcosa di indipendente da esso (anche se intrascendibile dal pensiero.)"
    Il volume si conclude così allo stesso modo in cui era iniziato e cioè con una divisione netta all'interno di un interrogativo forte. A questo, l'autore in cuor suo ha cercato di rispondere, senza la pretesa di volerlo condurre a termine, visto che forse una tale conclusione non potrà mai essere possibile. Infatti, tra fede e ragione la ricerca della verità è e resta pur sempre una ricerca, che dà a suo modo un senso al Senso...
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  2. #2
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    Predefinito Re: Filosofia e Teologia: contrasto superabile?

    Originally posted by Libertarian -

    Filosofia e teologia: contrasto superabile?
    Teologia, Filosofia e Scienza possono coesistere finchè l'una non confuta le altre: cosa che non è ancora accaduto per la fede giudeocristiana.

    La teoria delle teorie scientifiche è una cosmogonia monoteistica che risolva alle radici le questioni metafisiche di cui la scienza è palesemente satura: si arriva sempre ad un punto che pone il problema della sostanza metafisica dell'oggetto della ricerca.

    In tal senso si può dire che la Scienza è Filosofia Metafisica e Fenomenologia Sperimentale allo stesso tempo.

    Si tratta di far buon uso di entrambe senza anticipare inutili conflitti che lo scibile umano non è in grado di risolvere e che "forse" la la Rivelazione Cristiana sarà in grado di evitare all'Epifania del Regno di Dio.


    Il "forse" - da cui sono anche tutte le teorie creazionistiche (Big Bang incluso) per alcuni è già realtà di fede che funziona perfettamente nell'ordine del mondo e nella formulazione etico-giuridica dei fondamenti e dei principi alla base della coesistenza e della Civiltà umana.

    In politica ed economia (per quel che ci riguarda immediatamente in questo forum) le conseguenze sono enormi, in quanto l'influenza del monoteismo impedisce l'appropriazione indebita del mondo da parte di potentati tirannici di ogni colore e grado.

    Tutto si svolge attorno ad un principio di fede di grande utilità giuridica e fondamentale per la fondazione dell'Etica (benchè spesso si chiami col nome di "Legge Naturale"): Dio è Signore, Eterno, Sovrano e Sommo Architetto dell''Universo " - di altri presunti sovrani imperatori non ne abbiamo nè posto nè bisogno, qualunque sia la strada e la strategia (illegali entrambe) di questi signorotti retorici della libertà!

    Il principio della Sovranità di Dio permette pure condizioni di libertà e dignità che il Cristianesimo ha trasferito dalla teocrazia alla Democrazia Repubblicana quale privelegio e conseguenza del tempo della Grazia.

    Tolto questo (al tempo, per gradi, per fede ed evidenza) rimane solo caos nell'apparente ordine, ignoranza nell'apparente conoscenza, arroganza sotto la tonaca della competenza, pusillanime tirannide nella parvenza di governo!

    Saluti

  3. #3
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    Predefinito tratto da http://www.pri.it

    Eutanasia: agiamo in base alla volontà espressa dal paziente/Dopo il caso Terri Schiavo l'argomento è divenuto un forum di discussione mondiale

    L'autodeterminazione come una via da seguire

    di Carmen Attisano*

    Il tema dell'eutanasia, per i problemi religiosi, morali e umani che pone, è sempre stato al centro di discussioni e questioni in bioetica. Negli ultimi anni, il dibattito sull'eutanasia, ma anche sul suicidio assistito, si è ampliato ulteriormente, incuriosendo anche il grande pubblico, per non parlare delle categorie coinvolte nella cura di malati inguaribili.

    L'argomento è ora tornato di attualità con il caso di Terri Schiavo, donna della Florida che da quindici anni viveva in stato vegetativo. Il dibattito è stato aperto dopo la battaglia legale tra il marito che ha ottenuto di staccare la spina e i genitori della donna che si opponevano. La questione ha davvero diviso l'America: la morale e l'etica di ognuno si mescolano alla cronaca politica e giudiziaria (anche se secondo recenti sondaggi, l'80% degli americani è favorevole all'eutanasia). In ogni caso la spina è stata staccata, con gli esiti che sappiamo.

    I riflettori sull'argomento, poi, si erano accesi anche grazie al grande schermo: due Oscar "coraggiosi" sono stati assegnati al film "Million Dollar Baby" e "Mare Dentro" che affrontano due diverse situazioni di dolore e di morte. Ed entrambi hanno aperto lo scomodo e difficile dibattito sull'eutanasia come soluzione finale - seppur drammatica - alle agonie del malato. È necessario, però, prima di affrontare tutti i problemi che l'eutanasia solleva, definire bene il termine.

    Definire i termini

    L'eutanasia, scientificamente parlando, è "l'atto compiuto da medici o altri avente come fine quello di accelerare o causare la morte di una persona". La morte è procurata con il fine di alleviare i tormenti dell'agonia o il dolore che accompagna alcune malattie allo stato terminale (coma irreversibile). È diventata comune, anche se poco felice, la distinzione tra eutanasia attiva e passiva, ed è importante sottolinearla: la prima consiste nel somministrare all'ammalato una sostanza che ne accelera la morte, nella seconda vi è l'omissione di atti medici che potrebbero prolungare la vita al paziente. Il suicidio assistito indica l'atto mediante il quale il malato si procura una rapida morte con l'assistenza del medico. Il termine eutanasia, nel suo significato etimologico, sostanzialmente è quello di "buona morte". Non c'è dubbio su come, oggi, la medicina riesca ad allungare la vita di un paziente grazie a tecnologie mediche sempre più complicate e costose, ma in alcuni casi si può anche dire che non si sa se in realtà venga aggiunta "vita ai giorni" o solo "giorni alla vita". In questo contesto, il vero problema è quello dei limiti: fino a quanto è lecito insistere in questi tentativi? Dove comincia il dovere di sospenderli davanti alla morte ormai inevitabile del paziente? Si tratta di evitare di rendere ancora più opprimente e angosciante la morte stessa. Sul piano strettamente etico, l'argomento posto spesso nelle argomentazioni contrarie all'eutanasia, è la cosiddetta "sacralità della vita" portata avanti dalla Chiesa. Secondo l'etica religiosa, "la vita è data all'uomo da Dio che è il solo a poter disporne e non è lecito all'uomo stesso di intervenire attivamente per abbreviarla. Solo Dio è padrone della vita e della morte".

    E i diritti dei malati?

    A mio avviso, la Chiesa non potrebbe certamente dire il contrario e la posizione, per sommi capi, è giusta per chi crede. Anche l'etica civile, cioè non per forza legata alla religione, fa riferimento, molte volte, all'inviolabilità della vita. Unitamente a questo va, però, considerato il diritto del malato, che deve poter decidere di porre fine ad un'esistenza per lui divenuta insopportabile. Solo una profonda relazione con lo stato di sofferenza e di dolore può permettere di dire "sì" alla richiesta di un malato di aiutarlo a morire. Quali sono le risposte, in questo caso, dell'etica religiosa, e in particolare cristiana, sulla sofferenza e sul dolore che sono solo preludio di morte certa? Sono normali? Vanno accettate? Producono salvezza? Sono d'accordo sulle prime due, ma non sul fatto che producano la salvezza dell'anima, idea che comunque in quanto tale fornisce speranza e sollievo ai soli credenti. Si parla molto del rispetto della spiritualità e dignità del malato. Ma perché tale rispetto deve finire al momento dell'eventuale libera richiesta del malato di poter morire? Quale previsione normativa o dogma religioso può contrastare la libertà (inclusa la responsabilità) di una persona, ormai inguaribile, di decidere che cosa fare del proprio corpo? Come si può non sentire la richiesta che l'altro rivolge capendo fino in fondo la gravità della propria condizione? Nessuno può impedire ad una persona capace di intendere e di volere di porre fine alla propria vita, quando questa non bbia più niente di dignitoso. Nessuno può giudicare o infierire intorno ad una scelta decisa e maturata liberamente dal paziente che chiede la morte. Alcune patologie comportano sofferenze insopportabili, per non parlare della progressiva umiliazione, non più del paziente, ma dell'uomo stesso, di badare a se stesso e di mantenere uno stato dignitoso.

    Alcuni casi specifici

    Giuridicamente, nella maggior parte dei Paesi del mondo, la pratica dell'eutanasia è vietata, se si eccettuano alcuni casi specifici. In Danimarca i parenti del malato possono autorizzare l'interruzione delle cure. In Belgio nel 2001 il Senato ha approvato un progetto di legge volto a disciplinare l'eutanasia e nel 2002 la Camera ha dato il suo consenso. In Svizzera è ammesso il suicidio assistito, negli Stati Uniti la normativa varia da Stato a Stato. Il caso più famoso è invece quello dell'Olanda dove nel 2000 il Parlamento ha approvato una normativa che prevede la legalizzazione vera e propria dell'eutanasia.

    Nel nostro Paese, l'eutanasia attiva è considerata un reato. Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato le pene vanno, comunque, dai 6 ai 15 anni. Anche il suicidio assistito è considerato reato. Nel caso di eutanasia passiva, la difficoltà di dimostrare la colpevolezza rende difficile eventuali denunce.

    Oggi abbiamo in Parlamento cinque proposte di legge: quattro a favore della legalizzazione di alcune forme di eutanasia e una, quella della Lega, a vietarla del tutto.

    Sono assolutamente consapevole che mai come in questa materia i valori e la morale di ognuno non possa trovare soddisfacente risposta in normative che non siano liberali e che consentano a tutti di poter compiere in base ai propri convincimenti la scelta che ritengono giusta. In molti paesi, tra cui anche il nostro, si sta affermando l'idea dell'opportunità di elaborare una normativa intorno al cosiddetto testamento biologico, o volontà del vivente. Ed a tal proposito una proposta di legge al Senato ha come co-firmatario il senatore Del Pennino. Una persona, supponendo che in futuro possa trovarsi nelle condizioni di malato grave non in grado di poter esprimere la propria volontà (casi di malato-non cosciente, malato-sofferente), dichiara come vorrebbe si comportassero i medici nei suoi confronti, eventualmente indicando un'altra persona a portare avanti la sua volontà e ad assistere affinché questa sua volontà sia rispettata. Si tratta di affermare concretamente il principio di autodeterminazione nel campo delle cure mediche e la consapevolezza che ogni persona ha il diritto di essere protagonista delle scelte riguardanti la sua salute. E a maggior ragione questo principio deve essere garantito in situazioni estreme dove la dignità della vita potrebbe essere maggiormente tutelata e difesa attraverso una dignitosa morte.

    Credo che questa sia una soluzione legittima, e soprattutto rispettosa della persona umana. Infatti, in uno Stato liberale le leggi "giuste" sono quelle volte a tutelare e rispettare la volontà e la libertà dei cittadini.

    Non penso si arriverà facilmente, nel nostro Paese, ad avere una normativa a favore di un argomento così delicato e che divide da sempre l'opinione pubblica. Quindi, per adesso, più che porsi il problema legislativo, si tratta di sensibilizzare le coscienze di tutti affinché in situazioni estreme e delicate - come quello del caso - non si debba prevaricare la volontà della persona. Né ad opera del medico, né di altri. Questo è un problema di informazione, educazione, crescita morale e (non meno importante) di sviluppo della coscienza.

    *Componente Direzione Nazionale Fgr, Consigliere Nazionale Pri
    [mid]http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/AVUCCHELLA.mid[/mid]

  4. #4
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    Predefinito riceviamo da Maria Mantello

    La laicità e la croce
    Una gran confusione ideologica per la sesta sezione del Consiglio di Stato.

    di Maria Mantello

    L’imposizione del crocifisso nei luoghi pubblici contrasta con il supremo principio della laicità dello Stato? Nessun problema! Stabiliamo per legge che è un simbolo laico. E’ questa la verbalistica acrobazia della recente sentenza del Consiglio di Stato n.7314/2005, depositata il 13 febbraio scorso e relativa al ricorso della signora Soile Lauti che aveva chiesto la rimozione del simbolo religioso cristiano dalle aule del “Vittorino da Feltre”, la scuola di Abano Terme frequentata dai figli Dataico e Sami Albertin.

    I giudici della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, non potendo rimettere in discussione il fatto che lo Stato italiano non può essere né tutore, né propagatore di confessionalismo, quello cattolico compreso, hanno tentato di identificare la croce con la laicità. Anzi, di farne l’eccellente emblema della laicità stessa. Un tribunale amministrativo, quale appunto è il consiglio di Stato, non può contraddire infatti le autorevoli sentenze della Cassazione (in particolare 439/2000) e della Corte Costituzionale (in particolare 203/1989), che hanno sempre ribadito che la religione cattolica non è più religione dello Stato, come stabiliva lo Statuto Albertino a cui anche le normative fasciste si rifacevano per l’imposizione della croce in edifici pubblici: scuole, uffici, tribunali, ecc. Quelle stesse normative a cui si richiamano attualmente quanti vogliono oggi rimettere le croci nei locali statali. Pertanto, i giudici del Consiglio di Stato hanno cercato di dare una mano a questi ultimi impelagandosi in tutta una serie di strumentali dissertazioni linguistiche sul valore e il significato della laicità, allo scopo di individuarne nel Crocifisso il supposto simbolo identitario dell’intero popolo italiano.

    La laicità, ha sentenziato la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, non è un valore assoluto, ma va interpretata in riferimento “alla tradizione culturale, ai costumi di vita, di ciascun popolo”.

    Così, secondo una visione che ricorda la destra hegeliana, è stata riproposta la stantia assimilazione identitaria tra “spirito del popolo” e “religione cristiana”, presupponendo per il popolo italiano un’organicità statuale in chiave cattolica. Teorizzazioni queste che in Italia (non ci stanchiamo di ripeterlo) hanno avuto tanto successo nella dottrina dello stato etico fascista.

    Ma torniamo alla sentenza del Consiglio di Stato n.7314/2005, per la quale il simbolo della Croce non è da vedersi in modo univoco, ovvero come simbolo della fede cattolica, perché può assumere diversi significati e servire per intenti diversi in relazione al luogo in cui è esposto. Pertanto, se esibito in un posto dove si prega, sarebbe essenzialmente religioso, ma in una sede non religiosa, come una scuola, sebbene per i credenti continui ad avere questa valenza, per tutti gli altri potrà svolgere una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla professione di fede.

    “È evidente –si legge nella sentenza n.7314/2005- che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana. In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni”.

    Insomma, parafrasando il motto “non è l’abito che fa il monaco”, qui l’abito (ovvero il luogo) farebbe il simbolo. E che simbolo! Un Cristo ad uso e consumo del luogo. E non più, come dovrebbe essere (se non altro per rispetto alla fede) un Cristo che rende sacro il luogo in cui si trova.

    Ma c’è dell’altro. Secondo le affermazioni di questi giudici: “è del tutto evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei sui diritti, di riguardo alla libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana”.

    Una opinione che contrasta palesemente con i fatti storici. Qualche esemplificativa domanda vorremmo porla: Era valore di tolleranza la persecuzione degli ebrei in nome della croce? Compresi i battesimi coatti dei bambini ebrei, i cui echi sinistri sono risuonati ancora in piena shoah? E anche dopo impedendone la restituzione alle loro famiglie ebree? O i roghi degli eretici o delle donne accusate di essere le amanti del diavolo, ovvero le fantomatiche streghe? E ancora: Propagavano la libertà e la valorizzazione della persona anche gli inquisitori (oggi prefetti per la difesa della fede) imponendo stermini ed indici dei libri propibiti? Oppure le bande dei sanfedisti finanziate dal clero? E le scomuniche contro il Risorgimento le vogliamo occultare? Per non parlare dei reiterati anatemi contro la libertà di pensiero in nome dell’appartenenza identitaria all’unica anima cattolica? E poi ancora contro liberali, repubblicani, socialisti, comunisti, mentre si legittimavano massacri e dittature degli “uomini della Provvidenza” in cambio di Concordati? E tutto questo (e ancora tanto altro) sempre in nome della Croce, di cui la Chiesa cattolica apostolica romana si diceva (e si dice) univoca interprete e depositaria?

    Ma la Croce, il credente, stando al dettato evangelico, non dovrebbe prenderla su di sé, invece di scagliarla sugli altri, fosse pure attraverso le pareti delle aule scolastiche?

    Questa sentenza, allora, sembrerebbe dettata più da un uso ideologico della legge che da una serena applicazione della Legge. Costituzione repubblicana in primis. Una Costituzione che è nata dalla guerra di Liberazione, anche contro chi benediceva i gagliardetti fascisti e nazisti.

    Una sentenza che assomiglia più ai virtuosismi linguistici di una summa teologica nella pretesa di ricondurre sempre e comunque ogni cosa (laicità compresa) al principio dell’universalismo confessionale cattolico.

    Una sentenza dove la laicità si dovrebbe annegare nella fede al motto di “crocifiggiamo l’Italia”. Per quello che ci riguarda auspichiamo che la Croce resti il simbolo delle fedi cristiane.

    E’ dal contrasto con le fedi che sono nate tolleranza e la libertà. In una parola la laicità. Il diritto di credere o di non credere è una conquista della laicità e non deriva certamente dall’imposizione di una Croce che dall’Editto di Teodosio in poi è stata ufficialmente causa di tante carneficine.

    Alla scuola l’ardua impresa di educare alla libertà di pensiero e di coscienza. Questo il compito che la Costituzione Repubblicana le affida per la formazione di individui liberi e responsabili. Un compito che alla scuola viene da lontano. Da quando nel V secolo la filosofia greca pose le radici laiche dell’Europa e dell’Occidente nella scelta e nel dubbio.

    Maria Mantello
    (docente, pubblicista e saggista. Vicepresidente associazione nazionale del libero pensiero Giordano Bruno)
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  5. #5
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    Bella analisi per tempi laici! Se non ve ne siete accorti, il laicismo deve cominciare a far spazio ad una nuova idea di laicità che tenga conto delle sfide dei tempi e del diritto di un popolo a riaffermare le proprie radici.
    Naturalmente servono i numeri per farlo e di questo i laici dovrebbero tenerne conto per non perdere i propri di numeri.
    Quando però le sfide dei tempi e la strumentalizzazione del laicismo cesseranno, allora lo Stato Laico potrà ritornare al numero di giri ottimali.
    Nel frattempo il carburatore funzierà a taratura ridotta e l'On. Pera avrà il diritto di chiedere i consensi necessari per farlo http://www.perloccidente.it/index.php
    E poi quale laicismo? Le ideologie cosiddette laiche sono più confessionali e precostruite delle confessioni cristiane!
    Quel che rimane dunque è la capacità della laicità proporzionata alla necessità ed alla compatibilità degli interlocutori.
    Infatti si stà a discutere se togliere o no il crocifisso, ma con certi altri monoteisti la discussione non arriverebbe neppure alla soglia della porta.
    E senza la croce, di questi tempi non resisterebbe nè il repubblicanesimo, nè il liberismo, nè il socialismo... nè tantomeno lo Stato Laico, tanto pronto (se lasciato in caduta libera) a calarsi le braghe pur di non far arrabbiare i mocciosi più discoli.

    Però vediamo dove ci portano i numeri, cosa il popolo repubblicanamente dirà e se non sia il caso di rendere la laicità dello Stato condizionale.
    Perché togliere il simbolo della croce in Occidente, proprio quando essa viene uccisa e bruciata in Oriente? Con tutti i martiri e gli uccisi di recente, sarebbero più opportune le condoglianze ed il lutto per la croce ogni giorno perseguitata e priva di laica reiprocità.

  6. #6
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    Divampa la polemica per il libro di Sam Harris
    Un "manifesto" contro la fede

    Antonio Fiorini

    «Una saggia valutazione della realtà e della storia ci porta a dire che è impossibile reperire prove di un creatore benevolo, onnipotente e onnisciente che prenda a cuore i destini di uomini e donne».
    Lo scrive Sam Harris autore del libro «La fine della fede – Religione, terrore e il futuro della ragione» che sta provocando polemiche a non finire perché è un manifesto contro il cristianesimo, l'Islam e l'ebraismo e, più in generale, contro il «fanatismo e la cecità di ogni credo religioso».
    È invece un inno al «laicismo razionale e indipendente dalle ingerenze spirituali ed ecclesiastiche». Insomma un libro forte che ha tenuto banco negli Stati Uniti e in Inghilterra e che approda in Italia con una precisazione dell'editore (Nuovi Mondi Media), interdetto dalle posizioni a volte estreme di Harris, a tratti «talmente politicamente scorrette da valicare il limite dell'intolleranza».
    «Pur dissociandoci in parte dai contenuti di questo libro – recita una nota dei Nuovi Mondi – riteniamo che la sua pubblicazione possa contribuire al dibattito sulla laicità».
    Ma per contrastare una teoria, si sa, è meglio conoscerla e diffonderne anche i rivolti più controversi per far sì che anche il pubblico dei lettori possa farsi un'idea precisa.
    «Ho scritto questo libro – spiega Harris nell'epilogo – per contribuire a chiudere le porte a un certo tipo di irrazionalità.
    La fede religiosa, pur appartenendo a quel genere di ignoranza umana che non ammette neanche la possibilità di correzione, è ancora al riparo dalle critiche in ogni angolo della nostra cultura.
    Rinunciando a tutte le fonti di informazioni valide di questo mondo (tanto spirituali quanto terrene in senso stretto), i nostri religiosi hanno colto al volo antichi tabù e miti pre-scientifici come se avessero una validità metafisica incontestabile.
    Libri – prosegue – che abbracciano una gamma ristrettissima di interpretazioni politiche, morali, scientifiche e spirituali (libri che, già solo in virtù della loro antichità, ci offrono il tipo di saggezza il più annacquata possibile in relazione al presente) sono ancora considerati dogmaticamente un punto di riferimento cui spetta l'ultima parola su argomenti della massima rilevanza.
    Nella migliore delle ipotesi, la fede fa sì che persone altrimenti benintenzionate non riescano a riflettere in modo razionale su molte delle cose che stanno loro più profondamente a cuore; nell'ipotesi peggiore è una fonte continua di violenza tra gli uomini".
    Nella sua ricerca delle radici del fondamentalismo religioso e del terrorismo islamico, Sam Harris si scaglia contro il dogmatismo e mette inoltre in discussione il concetto di tolleranza, uno dei pilastri del liberalismo politico: nella contrapposizione di fedi, ognuna vera per se stessa, proprio i moderati fanno il gioco dei fondamentalisti, sostiene l'autore secondo il quale non è la tolleranza il modo di combattere l'integralismo religioso che degenera in violenza.
    Per Harris occorre quindi recuperare un senso del vero razionale e accantonare ogni tesi mistica e superstiziosa, priva di fondamenti verificabili: «L'indulgenza con cui i moderati guardano ai testi sacri e alle varie identità religiose, favorisce lo svilupparsi dei conflitti fra gli uomini.
    Possono anche ignorare o sottovalutare i passaggi più barbari dei testi religiosi, ma siccome allo stesso tempo li venerano, diventa più difficile contrastare il fondamentalismo. Inoltre, proprio ignorando quelle pagine, sarà ancora più difficile cogliere il pericolo della lettura acritica che ne viene fatta.
    C'è chi ancora prende alla lettera i testi sacri e i «tolleranti» tendono a dimenticare il ruolo della fede nell'ispirare la violenza umana.
    I moderati, insomma, sono accecati dalla loro stessa moderazione.
    Si scervellano in cerca di una risposta di fronte ai filmati di combattenti kamikaze formatisi nelle università occidentali, pronti a farsi esplodere insieme a dozzine di passanti; si sorprendono quando quelli dichiarano di "amare la morte più di quanto gli infedeli amino la vita"».
    Ragione, onestà, amore: questi gli unici angeli che l'uomo deve invocare, sostiene Harris: per lui gli unici demoni da temere sono «quelli che si annidano dentro la mente di ogni uomo: l'ignoranza, l'odio, l'avidità e la fede che è sicuramente il capolavoro del diavolo».
    «Non è necessario – scrive Harris – venerare alcun Dio particolare per poter vivere lasciandoci incantare dalla bellezza e dall'immensità del creato.
    Non abbiamo bisogno di raccontarci fantasie tribali per renderci conto, un bel giorno, che amiamo il nostro prossimo, che la nostra felicità e inscindibile dalla sua, e che tale interdipendenza richiede che le persone di tutto il mondo abbiano la possibilità di prosperare.
    Le nostre identità religiose, chiaramente, hanno i giorni contati.
    Anche i giorni dell'umanità stessa probabilmente saranno contati, se non ci renderemo conto di tutto questo».

    tratto da
    http://www.gazzettadelsud.it/index.a...ART=008&PAG=16

  7. #7
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    I DS IN ORATORIO.

    A chi frequenta certe parrocchie non può essere sfuggito che i parroci sono inclini a dialogare più coi DS che con altre forze politiche, più coi cattolici della Margherita che con quelli dell'UDC.
    Sarà forse perché c'è una coincidenza negli obiettivi tra i preti e le forze di sinistra: l'aiuto da dare ai poveri ed ai derelitti. Sì, però vi è una grande differenza nella matrice delle motivazioni che spingono gli uni e gli altri.
    Il Cattolico, il Cristiano si muove perchè spinto da un messaggio evangelico, che è un messaggio d'Amore, l'uomo di sinistra, che proviene da una cultura marxista, si muove per rivendicare dei diritti.
    Lo scopo del primo è la rigenerazione delle coscienze, lo scopo del secondo è la conquista del potere per raggiungere l'obiettivo dell'uguaglianza tra le varie classi sociali.
    Al vero Cristiano non interessa tanto la rivoluzione sociale, quanto la purificazione delle coscienze, il cambiamento della società attraverso la loro rigenerazione e la difesa di tanti valori. Il messaggio del cristiano e della Chiesa é quindi ad alto livello e fa bene la Chiesa a rimanere equidistante dalle varie forze politiche.
    Detto questo, non pare giusto che i parroci concedano la fruizione di locali appartenenti alla loro giurisdizione, e cioè alla Curia, a delle forze politiche, anzi una tale concessione potrebbe a molti apparire come un favoreggiamento a qualche partito.
    D'altro canto ai DS torna utile un dialogo con le rappresentanze ecclesiastiche: essi, avendo perso la loro base culturale, dopo il tramonto del Materialismo dialettico, hanno bisogno di appoggiarsi a culture diverse e di trovare altri sbocchi ideologici. Occorre dar loro il merito di avere cercato un rinnovamento, però il cammino è lungo:
    un habitus mentale non può essere cambiato dall'oggi al domani e la base sente solo il linguaggio dei diritti e non quello dei doveri. E' buona cosa aiutare i DS in questo percorso, ma ciò non può essere fatto da un sacerdote.
    La Chiesa del Concilio è aperta, ma non credo possa dimenticare gli eccidi dei preti fatti dai Comunisti in Russia e tutte le problematiche nate in passato nel dialogo con le forze di base marxista.
    Siamo tutti per il dialogo, per la pace sociale, ma non si può fare d'ogni erba un fascio; certi distinguo devono sempre essere presenti.
    E lo vediamo oggi con la battaglia dei Dico, che vede la Chiesa porre un argine alla liquefazione sociale in corso, al tramonto di tanti valori che erano il cardine della nostra società.
    Si vuole creare il Partito Democratico, io mi auguro che si possa fare: una forza riformista che prenda in mano la Sinistra e contrasti i tanti massimalismi ancora presenti nel nostro paese, sarebbe ben gradita, ma come farà nascere da culture così diverse?

 

 

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