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  1. #1
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    Predefinito 29 giugno - S. Pietro, apostolo e martire

    IL PRIMATO DI PIETRO SULL'OCCIDENTE E IL PIANO DELLA PROVVIDENZA.

    Dopo Antiochia Pietro arriva a Corinto dove pare già ci fosse una comunità cristiana all'arrivo di San Paolo e dove incontrerà i coniugi Aquila e Priscilla provenienti da Roma con sulle spalle una formazione cristiana e scritturistiaca non indifferente dato che riescono a insegnare ad Apollo il retto modo di interpretare le scritture e ad essere dei validi collaboratori di Paolo in Asia.
    Essi risentono della formazione della Chiesa romana con Pietro a capo, il quale ,secondo la tradizione si riuniva proprio nella casa dei due coniugi per le assemblee liturgiche a Roma e una delle 21 Chiese Titolari nasce ancora oggi sulla casa dei due coniugi (Santa Prisca).
    Sono loro che informano Paolo dello stato delle cose in Italia e del grande successo dell'apostolato di Pietro a Roma per cui Paolo nella sua Lettera ai Romani si mostra molto informato.
    Se a Roma la comunità giudaica cristiana sotto Claudio era in subbuglio ,ciò dipendeva dal conflitto che il messaggio di Pietro aveva provocato e la lotta tra gli israeliti che avevano accettato il vangelo e quelli che lo rifiutavano ritenendo che questo nuovo insegnamento fosse contrario alla legge di Mosè.
    Proprio come succedeva nelle comunità dell'Acaia e a Filippi dove operava Paolo ,che fu arrestato sotto istigazione dei Giudei.
    Gli Apostoli andavano a predicare innanzitutto nelle sinagoghe ,dove erano esistenti nelle città pagane , oppure si informavano dove fossero i luoghi di preghiera il sabato ,spesso nascenti fuori città e in prossimità di un fiume per la purificazione e lì parlavano agli israeliti che Gesù è il Cristo.
    San Pietro fu il primo ad aprire la porta del battesimo ai pagani dopo l'episodio del centurione Cornelio ,episodio sul quale San Paolo che in quel perodo era in ritiro a Tarso e ancora non iniziava il ministero ,rifletterà profondamente .
    Se un giudeo entrava nella casa di un pagano veniva contaminato e perciò aveva bisogno di lavarsi e purificarsi ,ecco che nelle città pagane i giudei preferiscono luoghi dove c'era l'acqua a portata di mano.
    Quando Paolo inizia il primo viaggio, Pietro si trova ad Antiochia e non può più avvicinarsi a Gerusalemme ,ivi rimane Giacomo "fratello del Signore" alla guida di quella comunità formata quasi esclusivamente da ebreo-cristiani che non avevano problemi di rapporti sociali quotidiani con i pagani.
    Successivamente in seguito a ispirazione Pietro si sposta attraverso alcune città greche tra cui Corinto in occidente e sbarca in Puglia anche se affronta sotto le coste pugliesi un naufragio che però non lo porta verso Malta come nel caso di Paolo.
    Porta d'obbligo verso l'oriente, allora come oggi, era e rimane la Puglia, e Pietro in cammino verso Roma la percorre tappa dopo tappa predicando e fermandosi secondo le necessità delle varie comunità nascenti.
    Egli ha percorso la via via Appia-Traiana discostandosi solo per raggiungere alcune località più consistenti della Puglia greco-romana.
    Quindi la Puglia è stata la prima terra ad avere delle comunità cristiane formate da giudeo-cristiani con dei vescovi a capo e la tradizione dice che ne creò circa settanta solo in Puglia, ma questa regione in alcuni periodi , nominalmente si estendeva fino in Sicilia .
    L'Italia non ha conosciuto nessun altro Apostolo come missionario e fondatore di comunità cristiane se non Pietro.
    Non c'è alcuna traccia che San Paolo abbia mai fondato una sola comunità in occidente anche se lo abbia desiderato molto ,lui l'apostolo dei gentili!
    Il suo desiderio apostolico di andare in Spagna non ha mai avuto attuazione in quanto non c'è alcuna traccia nelle tradizioni locali in Spagna , come invece ne ha a iosa Pietro in Puglia e in Italia.
    Sarà la Provvidenza stessa a bloccare l'impazienza dell'apostolo che tante volte ha desiderato venire a Roma.
    Egli avrebbe costruito sul fondamento di un'altro Apostolo e la sua missione si sarebbe confusa con quella , per questo ne sarà più volte impedito di venire , perchè se nell'Illiria il suo lavoro era ormai completato (Rom.15.), in Italia tutto era pure completato per opera di Pietro , perciò il viaggio di Paolo non ripercorrerà la stessa strada di Pietro attraverso la Puglia dove era diretta la nave se non ci fosse stato il naufragio senza la provvidenziale tempesta che l'ha sospinta verso Malta.
    La Provvidenza ha voluto che l'opera e l'apostolato dei due testimoni prescelti non fosse confusa ,cosa che noi oggi abbiamo fatto tranquillamente.Infatti ancora oggi si legge di esperti biblisti che ancora parlano di Paolo fondatore di comunita'cristiane in occidente come in oriente, ma come prendere in seria considerazione questi tali che dimostrano di non avere mai letto personalmente una sola volta la Lettera ai Romani , ma soltanto studi di critica alla lettera ai Romani ? L'apostolato di Pietro in Italia ha avuto un successo superiore a quello di Paolo sia per l'autorita' riconosciuta dell'Apostolo e sia perché, al contrario che in Asia minore , le comunità ebraiche erano meno consistenti che in Italia e gli ebrei erano gli unici che con la legge potevano opporre un bagaglio culturale di tutto rispetto alla dottrina di Pietro.In seguito il paganesimo cercherà di reagire con lo stoicismo e con Plotino, ma senza successo perché era ormai troppo tardi.
    Ma già sotto Claudio la nuova dottrina professata soprattutto da giudeo-cristiani si era allargata in Italia a macchie di leopardo a tal punto che Claudio avverte l'urgenza e la necessità di fare un editto di allontanamento contro i giudei riguardante l'Italia intera e non solo Roma . Egli ancora non conosceva la distinzione tra giudei e cristiani .Era un editto soprattutto rivolto contro ebreo-cristiani convertiti e a nulla servirà questa misura transitoria ; in seguito si farà ricorso alle persecuzioni per tentare di bloccare la diffusione del cristianesimo.
    In tutta l'Italia meridionale tante piccole comunità cristiane per lo più fondate da Pietro o promosse dai suoi collaboratori e da San Marco, ormai non si contavano piu'.
    Se si collegassero tante leggende e tradizioni locali, ancora esistenti ,ma ognuna indipendente dall'altra, che hanno al centro sempre Pietro ,a quest'ora sarebbero già diventate storia .
    Collegando tra loro queste tradizioni e pie leggende di cui ognuna ignora l'altra ,ne verrebbe fuori una vera e proprio storia con basi scientifiche e testimonianze dimostrabili .
    Era nei piani della Provvidenza la distinzione tra oriente ed occidente avvenuta fin dai tempi apostolici ,ma non la separazione che ne hanno fatto successivamente.
    Il carattere del Primato di Pietro sull'Oriente era un pò diverso da quello sulle comunità da lui fondate in Occidente ; il primato di Pietro è e sarà in Oriente soprattutto dottrinale.
    Basti pensare con quale autorità Papa Gelasio ( IV secolo)si rivolge alle diocesi e ai vescovi pugliesi che egli sa di sua giurisdizione , mentre un ' autorità pastorale ben diversa avrebbe avuto sulle comunità occidentali non risalenti alla sua diretta autorità e tradizione di fondazione.
    Nel VII secolo un Imperatore bizantino tenterà di interrompere per sempre con la forza delle armi anche questo primato dottrinale di Pietro sull'Oriente che non fu mai messo in discussione prima.
    Da allora e anche prima i Papi incominciarono a favorire e auspicare la politica dei Franchi che avrebbe loro permesso una maggiore autonomia e libertà nei confronti dell'Oriente e degli stessi Longobardi , in parte ariani ,che il Papa aveva in casa .Roma con piu' decisione si rivolgera' ai "barbari" d'Europa.
    I Longobardi infatti si erano appropriati di molte diocesi in Italia stabilendo loro vescovi ,cosa che non poteva andare a genio a Roma,che reagì con una politica antiariana e filofrancese.

  2. #2
    Affus
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    PIETRO E LA GIUSTIFICAZIONE MEDIANTE LA FEDE

    Gli studiosi sono spesso d'accordo che la dottrina della giustificazione mediante la fede sia un concetto eminente paolino, ma si sbagliano di grosso. Fanno affermazioni dettate dalla voce di popolo più che da uno studio serio e meditato delle Sacre Scritture; essi non fanno altro che seguire la corrente dottrinale che in un dato periodo va per la maggiore e solo scoprendo nuovi elementi, cambiano pure loro, tutti in branco.
    È chiaro che san Paolo è colui che si è soffermato di più su questo tema, anzi è colui che lo ha sviluppato, ha lottato e portato alle estreme conseguenze dottrinali questo concetto che però, cronologicamente parlando, non è suo.
    Il concetto della giustificazione mediante la fede non è suo ma di Pietro!
    San Paolo, infatti, dopo il primo viaggio apostolico e subito dopo aver costituito anziani per quelle comunità Atti 14,21.23, ritorna alla chiesa madre d'Antiochia e trova alcuni provenienti dalla Giudea che vogliono imporre il fardello delle prescrizioni mosaiche ai pagani e allora decidono di andare a Gerusalemme dagli Apostoli; così nasce il primo Concilio.
    A parte che i fatti narrati in questo capitolo sembrano scollegati da alcuni capitoli precedenti; come fanno gli Apostoli a stare a Gerusalemme se Pietro ha appena subito una persecuzione dove Erode fa uccidere le guardie che non hanno saputo incarcerarlo?
    Sembra più una precisazione posteriore a conclusione dell'opera.
    A Gerusalemme dopo molte discussione Pietro prende la parola e afferma innanzitutto che egli in primo luogo, ben prima degli altri, ha ricevuto il mandato di annunziare il vangelo ai pagani e condurli alla fede, e nessuno gli contesta quest'affermazione (Atti 15,7).
    In secondo luogo egli ha visto che Dio ha concesso anche a loro, ai pagani lo Spirito Santo (Cornelio docet) "come a noi non facendo alcuna discriminazione purificandone i cuori con la fede" (Atti 15,9).
    Questo dogma di Pietro scaturito dal primo Concilio di Gerusalemme resterà inciso nella mente di Paolo che lo riporterà in molte delle sue lettere.
    Infatti, nella prima predicazione di Paolo a Damasco, subito dopo la conversione, Luca ci dice che questa consisteva nella dimostrazione che "Gesù è il Messia "atteso dagli ebrei Atti 9.22.
    In tutte le prediche di Pietro prima dell'episodio di Cornelio, nella prima come in quella davanti al sinedrio, così pure quella di Stefano davanti al sinedrio ed il racconto della conversione dell'eunuco da parte di Filippo: il concetto chiaro della giustificazione mediante la fede non è espresso. Sono presenti altri temi.
    In Atti 3,16, nell'episodio della guarigione dello storpio davanti al tempio, Pietro parla della guarigione" fisica "dello storpio avvenuta perché egli ha creduto nel nome di Gesù, "solo nome sotto il cielo in cui vi è salvezza ", ma ancora non compare chiaramente il tema della remissione dei peccati e giustificazione mediante la fede; in quest'episodio Pietro si è soltanto avvicinato.
    Quando compare per la prima volta chiaramente ed esplicitamente questo tema nella predicazione apostolica?
    Il primo cronologicamente è stato l'apostolo Pietro a parlarne proprio nel racconto dell'episodio di Cornelio, il centurione pagano.
    "In realtà sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone.....Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati mediante il suo nome".
    "Se dunque Dio ha dato loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io da porre impedimento a Dio? " (Atti 10,34).
    La precedente predicazione di Pietro verteva prima di allora su altri temi, quali: "pentitevi e fatevi battezzare nel nome di Gesù": Gesù è il salvatore promesso dai profeti ":"noi siamo testimoni della sua risurrezione" :"convertitevi e ricevete lo Spirito", ecc. .
    Paolo inizia la sua missione insieme a Barnaba esattamente parecchio tempo dopo l'episodio di Cornelio, dopo avere a lungo consultato gli apostoli e lo stesso Pietro che incontrerà una seconda volta durante la sua prima missione da Antiochia a Gerusalemme per recarvi le offerte di quella comunità con Barnaba, Atti 11,30.
    Perciò il chiaro concetto della giustificazione mediante la fede nella predicazione apostolica dei primi apostoli compare per la prima volta in bocca a Pietro e non a Paolo; ce lo attesta lo stesso san Luca.
    Così la fortuna teologica di Paolo, l'apostolo delle genti, se così possiamo dire, non è sua ma di Pietro, in quanto Pietro anche lui apostolo delle genti (Atti 15,6), può benissimo affermare davanti a tutta la comunità, senza timore di essere contraddetto e senza autoesaltazione, che "Dio ha purificato il cuore dei pagani con la fede ".

  3. #3
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    Predefinito Dai Discorsi di Gregorio Palamas

    Homilia 28. PG 151, 355‑362.

    Gli apostoli fanno brillare una luce che non conosce mutamento o declino sopra coloro che abitano nella regione delle tenebre, poi li rendono partecipi di questa luce, anzi suoi figli. Cosi ognuno di essi potrà splendere come un sole quando nella sua gloria si manifesterà il Verbo, uomo e Dio, luce sovressenziale.

    Tutti questi astri, che oggi sorgono, rallegrano la Chiesa, perché le loro congiunzioni non producono nessuna eclissi, ma accendono una sovrabbondanza di luce. Cristo splende nella sua sfera eccelsa, senza gettare ombra su quelli che ruotano in regioni meno elevate. E tutti questi astri si muovono in piena luce, senza che vi sia alternanza fra il giorno e la notte, o i loro raggi differiscano per luminosità, dal momento che il loro splendore proviene da un'unica f onte.

    Tutti coloro che fanno parte di Cristo, fonte perenne di luce eterna, hanno il medesimo fulgore e la sua gloriosa luminosità. La congiunzione di questi astri si manifesta cosi agli occhi dei fedeli attraverso un duplice sfavillio.

    Satana, il primo ribelle, riuscì a far apostatare Adamo, il primo uomo, il progenitore dell'umanità. Quando dunque Satana vide Dio creare Pietro, il capostipite dei fedeli, e dirgli: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt 16,18), nella sua malvagità suicida, cercò di tentare Pietro come aveva tentato Adamo.

    Colui che è il maligno per eccellenza sapeva che Pietro era dotato d'intelletto e incendiato d'amore per Cristo. Perciò non s'azzardò ad assalirlo di petto, ma con fare sornione lo aggredì di fianco, per spingerlo a violare il suo dovere.

    Nell'ora della passione il Signore disse ai suoi discepoli: Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte (Mt 26,31). Pietro, incredulo non solo lo contraddice, ma si esalta sopra gli altri, affermando: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai (Mt 26,33).

    Dopo l'arresto di Gesù, Pietro, come punito per la sua presunzione, abbandona il Signore più degli altri. Ma più degli altri umiliato, egli avrebbe a suo tempo ritrovato un onore più grande.

    Infatti il suo comportamento è ben differente da quello di Adamo. Questi, una volta tentato, era caduto vinto precipitando cosi nella morte, mentre Pietro, dopo essere stato atterrato, riesce a rialzarsi e trionfa sul tentatore.

    In che modo Pietro fu vincitore? Rendendosi conto del suo stato, provandone un dolore cocente, effondendosi in lacrime di penitenza, assai preziose per espiare. Il salmo dice infatti: Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi (Sal 50,19), perché il rincrescimento di avere offeso Dio opera una guarigione irreversibile. E chi semina una preghiera intrisa di pianto, meriterà il perdono intessuto di allegrezza.

    Possiamo notare che Pietro espiò in modo adeguato il suo rinnegamento, non solo pentendosi e facendo penitenza, ma anche perché l'orgoglio che lo spingeva al protagonismo fu espulso radicalmente dalla sua anima.

    Il Signore lo volle dimostrare a tutti quando il terzo giorno risuscitò dai morti, dopo la passione sofferta per noi nella sua carne. Nel vangelo infatti egli dice a Pietro, accennando agli apostoli: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? (Gv 21,15).

    La risposta ci rivela un Pietro umile, davvero convertito. Al Getsemani, senza essere interpellato, si era spontaneamente messo sopra gli altri, dicendo: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai (Mt 26,33).

    Ma dopo la risurrezione, quando Gesù gli domanda se lo ama più degli altri, Pietro risponde di si, sul fatto di amare, ma tralascia di far menzione del grado, limitandosi a dire: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo!

    Gesù disse a Simon Pietro: ''Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo" (Gv 21,15).

    Quando Gesù vede che Pietro gli ha conservato l'amore e ha acquistato l'umiltà, da compimento alla sua promessa e gli dice: Pasci i miei agnelli (Gv 21,15).

    In precedenza, quando il Signore aveva paragonato l'assemblea dei fedeli a una costruzione, aveva promesso a Pietro di costituirlo a fondamento, dicendo: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt 16,18). Nel racconto evangelico della pesca miracolosa, Gesù aveva pure detto a Pietro: D'ora in poi sarai pescatore di uomini (Lc 5,10).

    Infine, dopo la risurrezione, Gesù paragona i suoi discepoli ad un gregge e chiede a Pietro di esserne il pastore, affermando: Pasci i miei agnelli (Gv 21,15).

    Vedete, fratelli, come il Signore arde dal desiderio della nostra salvezza! Non cerca che il nostro amore, in modo da poterci guidare ai pascoli e all'ovile della salvezza. Desideriamo perciò anche noi la salvezza, obbediamo in parole e nei fatti a coloro che devono essere le nostre guide in questo cammino. Basterà che bussiamo alla porta della salvezza e subito si presenterà la guida designata dal nostro Salvatore. Nel suo amore eterno per gli uomini, il Signore stesso sembra non aspettare che la nostra richiesta, anzi la previene e si affretta a presentarci il capo che ci guiderà alla salvezza definitiva.

    Davanti alla triplice interrogazione del Signore, Pietro è addolorato, perché pensa che Gesù non si fidi di lui.. E' convinto di amare Gesù e che il Maestro lo sa meglio di lui. Con le spalle al muro e senza via d'uscita, Pietro dichiara il suo affetto e proclama l'onnipotenza del suo interlocutore, dicendo: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo (Gv 21,17).

    Dopo una simile confessione, Gesù costituisce Pietro pastore, anzi supremo pastore della sua Chiesa e gli promette la forza necessaria per resistere fino alla morte di croce, mentre per l'innanzi Pietro era crollato davanti alle parole di una servetta.

    Gesù gli afferma: In verità. in verità ti dico: quando eri più giovane ‑ non solo di corpo, ma spiritualmente ‑ ti cingevi la veste da solo. e andavi dove volevi. ossia seguivi i tuoi impulsi e vivevi secondo i tuoi desideri naturali. Ma quando sarai vecchio ‑ quando cioè sarai pervenuto anche alla maturità dello spirito ‑ tenderai le tue mani. E queste ultime parole alludono alla morte di croce; il verbo tendere è alla forma attiva, per specificare che Pietro si lascerà crocifiggere di sua libera volontà.

    Tenderai le tue mani,, e un altro ti cingerà la veste cioè ti fortificherà ‑ e ti porterà dove tu non vuoi (Gv 21,18).

    Il testo da un lato segnala che la nostra natura non vuole dissolversi nella morte per l'istinto congenito verso la vita, e d'altro canto il martirio di Pietro oltrepassa ampiamente le sue forze naturali. Il succo delle parole del Signore è questo: "A causa mia e rafforzato da me, tu sopporterai supplizi che normalmente la natura umana è incapace di assumere''.

    Questo è Pietro e assai pochi lo conoscono sotto tale angolatura.
    E Paolo, chi è? Chi potrà far conoscere la sua pazienza nel sopportare ogni cosa per Cristo, fino alla morte? La morte, Paolo l'affrontava ogni giorno, pur continuando a vivere. Rammentiamoci di quando ha scritto: Non sono più io che vivo. ma Cristo vive in me (Gal 2,20).

    Per amore di Cristo, egli considerava tutto come spazzatura, al punto da stimare il futuro come qualcosa di secondario nei confronti di quell'amore. Egli dice infatti: Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne avvenire, ne potenze, ne altezza ne profondità, ne alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore (Rm 8,39).

    Pieno di zelo per Dio, Paolo non mirò che a infonderlo anche in noi.
    Tra gli apostoli, Paolo non è inferiore per gloria al solo Pietro. Considera la sua umiltà quando esclama: lo sono l'infimo degli apostoli. e non sono degno neppure di,essere chiamato apostolo (1 Cor 15,9).

    Se Paolo eguaglia Pietro per la fede, lo zelo, l'umiltà .e la carità, perché non ricevette in parte il medesimo premio da parte di Dio che giudica con giustizia e tutto pesa su un'esatta bilancia?

    All'uno il Signore dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. In ordine all'altro, dichiara ad Anania: Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli (At 9.15). Di che nome si tratta? Certamente di quello della Chiesa di Cristo di cui Pietro garantì la costruzione.

    Vedete come Pietro e Paolo sono eguali in gloria, come la Chiesa di Cristo riposa sul fondamento di loro due? Ecco perché in questo giorno la Chiesa gli attribuisce una solennità comune, per cui oggi celebriamo una festa in loro onore.

  4. #4
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    Predefinito Dai Discorsi di Luigi di Granada

    Serm. I-II par. 29/6. Sermones para las principales fiestas de los Santos, Madrid, a cura di P.B. Lopez, 1792‑93, t. XII, 260‑297.

    La fede in Gesù Cristo è il fondamento della nostra religione. Volendo stabilire saldamente questa virtù della fede nell'animo dei discepoli, nostro Signore procede con discrezione e prudenza, poiché conosce il fondo dei cuori e sa perfettamente ciò che vi è in quello degli apostoli.

    Gesù vuole dunque che Pietro gli renda testimonianza; dopo aver confermato tale testimonianza, il Signore ricompensa Pietro, mettendolo a capo della sua Chiesa, perché gli altri imparino dal capo degli apostoli quello che devono credere a proposito del Messia.

    Il metodo che Gesù ha per insegnare è molto più modesto che se avesse proclamato senza ambagi: "Io sono il Figlio del Dio vivente". Leggiamo qualcosa di analogo in san Giovanni; dopo la lavanda dei piedi, Gesù non dice agli apostoli: "Io sono Maestro e Signore ma usa parole più umili: Voi mi chiamate Maestro e Signore (Gv 13,13).

    Gesù domanda inizialmente ai discepoli che cosa la gente pensi di lui. "Alcuni Giovanni il Battista ‑ essi rispondono ‑ altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti Disse loro: "Voi chi dite che io sia?".

    Pietro, illuminato con una rivelazione del Padre ed elevandosi sopra il corpo e la materia, oltre la carne e il sangue, risponde a nome di tutti: Tu sei il Cristo , il Figlio del Dio vivente. Gesù gli risponde proclamandolo beato, perché non grazie a una sapienza puramente umana egli ha reso quella testimonianza, ma per ispirazione dell'alto. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.

    In questo passo Gesù da un nome nuovo al suo Apostolo, che inizialmente si chiamava Simone. Un tempo era successa la medesima cosa con il Patriarca degli Ebrei, quando era stato scelto come padre di una moltitudine di nazioni. Allora Dio aveva cambiato il suo nome in quello di Abramo, per indicare la sua numerosa posterità.

    Qui Gesù, volendo fare del figlio di Giovanni il fondamento saldo e incrollabile della sua Chiesa, lo chiama "Pietro". Il nome vuole sottolineare la perenne stabilità e resistenza che balza chiara dal seguito del testo evangelico: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Sono parole che offrono un sostegno stupendo alla fede cristiana.

    Non passiamo sotto silenzio l'altra magnifica promessa che Gesù fa a Pietro, quella cioè di dargli le chiavi del regno dei cieli. Un simile potere non è conferito a Pietro solo per la sua gloria, ma in vista della nostra salvezza. Non per se Pietro riceve le chiavi, ma per noi.

    La grazia delle chiavi non fa riferimento alla legge antica, ma all'evangelo. C'è una gran differenza tra la legge e il vangelo: la legge chiede, il vangelo da; la legge spaventa, il vangelo consola; quella comanda, questo conferisce la grazia per obbedire. La prima addita la via del cielo, mentre il vangelo da la forza adeguata a percorrere quell'itinerario.

    La legge racchiude la lettera che uccide, il vangelo contiene lo Spirito che da la vita. L'Apostolo definisce la legge ministero di morte e il vangelo ministero di Spirito e vita (2 Cor 3,7.8).

    L'annunzio a Pietro delle chiavi del Regno appartiene al vangelo, non,alla legge. E poi non soltanto al capo degli apostoli, ma a tutti quelli che tengono il suo posto nella Chiesa è concesso il potere meraviglioso di rimettere i peccati, di conferire la grazia dello Spirito Santo, di riconciliare gli uomini con Dio, d'aprire loro le porte del cielo e renderli compagni degli angeli.

    Questo potere delle chiavi muta la contrizione da imperfetta in perfetta, lo stato di peccato in stato di grazia, facendo passare le anime dalla condanna eterna all'eterna salvezza.

    La bontà e la misericordia di Dio sono ineguagliabili! Ci pensate che condiscendenza sia aver affidato le chiavi del cielo a un uomo della terra? E' concesso a un mortale quanto appartiene soltanto a Dio: il potere di rimettere i peccati.

    Fratello, se le tue colpe ti hanno chiuso il cielo, non sarà necessario che tu travalichi i mari, che tu vada all'estremità della terra e che tu sparga sangue di animali secondo la legge antica. Basta che confessi i tuoi peccati a un ministro della Chiesa, unendo alla confessione il pentimento per il passato e il proposito di vivere bene in futuro. Col perdono delle tue colpe riceverai la grazia e l'amicizia di Dio.

    Ecco il vangelo! Ecco la buona, la notizia bella per eccellenza! Ecco la grazia sopra tutte le grazie, conferita al mondo per i meriti del sangue di Gesù Cristo, lui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, come si esprime l'Apocalisse (Ap 1,5).

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    Predefinito Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo (Disc. 295, 1-2. 4. 7-8; PL 38, 1348-1352)

    Il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo ha reso sacro per noi questo giorno. Noi non parliamo di martiri poco conosciuti; infatti «per tutta la terra si diffonde la loro voce ai confini del mondo la loro parola» (Sal 18, 5). Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato. Hanno seguito la giustizia. Hanno testimoniato la verità e sono morti per essa.
    Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro. Pietro deriva da pietra, come cristiano da Cristo.
    Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l'incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l'intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l'intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell'universalità e dell'unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. E' ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un'altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
    Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l'incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l'unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
    Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell'amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell'amore ciò che avevi legato per timore.
    E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.
    Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch'essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
    Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione.

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    PAOLO VI

    PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

    ESORTAZIONE APOSTOLICA

    Nel XIX centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo

    VENERABILI FRATELLI
    SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZIONE


    I santi Apostoli Pietro e Paolo sono giustamente considerati dai fedeli come colonne primarie non solo di questa Santa Sede Romana, ma anche di tutta la Chiesa universale del Dio vivo. Riteniamo, perciò, di fare cosa consona al Nostro ministero Apostolico esortando voi tutti, Venerabili Fratelli, a promuovere, spiritualmente a Noi uniti, ciascuno nella propria diocesi, una devota celebrazione della memoria, diciannove volte centenaria, del martirio, consumato in Roma, tanto dell'apostolo Pietro scelto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, e primo Vescovo di quest'alma Città, quanto dell'apostolo Paolo, dottore delle Genti (Cf 1 Tm 2,7), maestro e amico della prima comunità cristiana in Roma.

    La data di questa memorabile ricorrenza non può essere sicuramente fissata, in base ai documenti storici. È certo che i due apostoli furono martirizzati a Roma durante la persecuzione di Nerone, che infierì dall'anno 64 al 68. Il martirio è ricordato da san Clemente, Successore dello stesso Pietro nel governo della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Corinzi, ai quali propone i validi esempi dei due atleti: Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte (1 Epistula ad Corinthios, V, 1-2: ed. FUNK 1, p. 105).

    Ai due Apostoli Pietro e Paolo fece corona un gran numero di persone (Cf TACITO, Annales, XV, 44) che costituisce la primizia dei martiri della Chiesa Romana, come scrive lo stesso Clemente: A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi (Epistula ad Corinthios, VI, 1: ed. FUNK 1, p. 107).

    Noi, poi, lasciando alle erudite discussioni la precisa determinazione della data del martirio dei due Apostoli, abbiamo scelto, per le celebrazioni centenarie, l'anno corrente, seguendo in ciò l'esempio del Nostro venerato Predecessore Pio IX, il quale volle solennemente ricordare nel 1867 il martirio di san Pietro.

    E poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell'uno e dell'altro Apostolo in un'unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.

    E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l'abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un'impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L'educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull'orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell'immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l'eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1 Pt 1,4).

    E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2 Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2 Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l'incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell'universalità; l'unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.

    Per questo il Nostro invito, oltre che per la nostra diletta diocesi di Roma «di cui sono i celesti patroni», è per voi tutti, che siete Successori degli Apostoli e Pastori della Chiesa universale, in quanto componenti con Noi quel Collegio episcopale, che il recente Concilio Ecumenico, con tanta ricchezza di dottrina e con tanti presagi di futuri incrementi ecclesiali, illustrò; è per voi, fedeli e ministri tutti della santa Chiesa; e così via, a Dio piacendo, per tutti i fratelli che, sebbene non ancora in piena comunione con Noi, sono tuttavia insigniti del nome cristiano, e che ben volentieri sappiamo cultori della memoria e dello spirito dei due Apostoli. In particolare ricordiamo con viva soddisfazione del Nostro animo che le venerande Chiese Orientali celebrano solennemente nelle loro liturgie i due Corifei degli Apostoli, e ne mantengono vivo il culto tra il popolo cristiano. Ci piace altresì rilevare come presso le Chiese e le Comunità Ecclesiali separate dell'Occidente sia viva l'idea dell'apostolicità, che la presente celebrazione mira a vedere sempre più perfetta ed operante, e che san Paolo esprime con quelle mirabili parole: Edificati sopra il fondamento degli apostoli (Ef 2,20).

    In che cosa consiste praticamente il Nostro invito? Come insieme celebreremo il significativo anniversario? È costume di questa Sede Apostolica, quando intende rendere solenne e universale qualche singolare ricorrenza, elargire qualche beneficio spirituale (e non Ci rifiutiamo dal farlo anche in questa occasione); ma questa volta, più che donare, Ci piace domandare; più che offrire, vogliamo chiedere. E la Nostra domanda è semplice e grande: Noi vi preghiamo tutti e singoli, Fratelli e Figli Nostri, di voler celebrare la memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, testimoni con la parola e col sangue della fede di Cristo, con un'autentica e sincera professione della medesima fede, quale la Chiesa da loro fondata e illustrata ha raccolto gelosamente e autorevolmente formulata. Una professione di fede vogliamo a Dio offrire, al cospetto dei beati Apostoli, individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca. Vogliamo che questa professione salga dall'intimo di ogni cuore fedele e risuoni identica e amorosa in tutta la Chiesa.

    Quale migliore tributo di memoria, d'onore, di comunione potremmo offrire a Pietro e a Paolo che quello della fede stessa, che da loro abbiamo ereditata?

    Voi sapete benissimo che il Padre stesso celeste rivelò a Pietro chi era Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivo, il Maestro e il Salvatore da cui a noi deriva la grazia e la verità (Cf Gv 1,14), la nostra salvezza, il cuore della nostra fede; voi sapete che sulla fede di Pietro riposa tutto l'edificio della santa Chiesa (Cf Mt 16,16-19); voi sapete che quando molti abbandonavano Gesù, dopo il discorso di Cafarnao, fu Pietro che, a nome del Collegio Apostolico, proclamò la fede in Cristo Figlio di Dio (Cf Gv 6,68-69); voi sapete che Cristo medesimo si è fatto garante con la sua personale preghiera dell'indefettibilità della fede di Pietro, ed ha a lui affidato l'ufficio, nonostante le sue umane debolezze, di confermare in essa i suoi fratelli (Cf Lc 22,32); e voi anche sapete che la Chiesa vivente ha preso inizio, disceso lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, con la testimonianza della fede di Pietro (Cf At 2,32-40).

    Che cosa potremmo a Pietro domandare a nostro vantaggio, a Pietro offrire a suo onore, se non la fede, donde ha origine la nostra spirituale salute, e la nostra promessa, da lui reclamata, d'essere forti nella fede? (1 Pt 5,9)

    A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell'atto di fede, a lui l'affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un'unica fede, in un'unica speranza, in un'unica carità dell'unico Corpo Mistico di Cristo? (Cf Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch'egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l'esempio, col sangue, insegnò e trasmise?

    Così che arride a Noi la speranza che la commemorazione centenaria del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo si risolva principalmente per tutta la Chiesa in un grande atto di fede. E vogliamo ravvisare in questa ricorrenza la felice occasione che la divina Provvidenza appresta al Popolo di Dio per riprendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla. Non possiamo ignorare che di ciò l'ora presente accusa grande bisogno. È pur noto a voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, come, nella sua evoluzione, il mondo moderno, proteso verso mirabili conquiste nel dominio delle cose esteriori, e fiero d'una cresciuta coscienza di sé, sia incline alla dimenticanza e alla negazione di Dio, e sia poi tormentato dagli squilibri logici, morali e sociali, che la decadenza religiosa porta con sé, e si rassegni a vedere l'uomo agitato da torbide passioni e da implacabili angosce: dove manca Dio manca la ragione suprema delle cose, manca la luce prima del pensiero, manca l'indiscutibile imperativo morale, di cui l'ordine umano ha bisogno (Cf S. AGOSTINO, De civ. Dei, 8, 4: PL 41, 228-229; Contra Faustum, 20, 7: PL 43, 372).

    E mentre vien meno il senso religioso fra gli uomini del nostro tempo, privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci, ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della Sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta post-conciliare, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampli e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l'illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del magistero ecclesiastico, avessero a prevalere?

    Ed ecco che a confortare la nostra fede nel suo autentico significato, a stimolare lo studio delle dottrine enunciate dal recente Concilio Ecumenico, e a sorreggere lo sforzo del pensiero cattolico nella ricerca di nuove e originali espressioni, fedeli tuttavia al deposito dottrinale della Chiesa, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Cf VINCENZO LERINO, Commonitorium, 1, 23: PL 50, 668; D.-S. 3020), giunge sulla ruota del tempo questo anniversario Apostolico, il quale offre ad ogni figlio della santa Chiesa la felice opportunità: di dare a Gesù Cristo Figlio di Dio, Mediatore e Perfezionatore della rivelazione, l'umile e sublimante risposta: io credo, cioè il pieno assenso dell'intelletto e della volontà alla sua Parola, alla sua Persona, alla sua missione di salvezza (Cf Eb 12,2; CONC. VAT. I, Cost. dogm. de fide catholica, c. 3: DA. 3008, 3020; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 5: AAS 57 (1965), p. 7; CONC. VAT. П, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, nn. 5, 8: AAS 58 (1966), pp: 819, 821); e di onorare così quei sommi testimoni di Cristo, Pietro e Paolo, rinnovando l'impegno cristiano d'una sincera e operante professione della loro e nostra fede, e ancora pregando e lavorando per la ricomposizione di tutti i cristiani nell'unità della medesima fede.

    Noi non intendiamo indire a tal fine un particolare Giubileo, quando appena è stato celebrato quello da Noi stabilito a conclusione del Concilio Ecumenico; ma fraternamente esortiamo voi tutti, Venerati Fratelli nell'Episcopato, a voler illustrare con la parola, a voler onorare con particolari solennità religiose, a voler soprattutto recitare solennemente e ripetutamente con i vostri sacerdoti e con i vostri fedeli il «Credo», in una o in altra delle formule in uso nella preghiera cattolica.

    Ci piacerà sapere che il «Credo» è stato recitato espressamente, ad onore dei santi Pietro e Paolo, in ogni cattedrale, presenti il Vescovo, il Presbiterio, gli alunni dei Seminari, i Laici cattolici militanti per il regno di Cristo, i Religiosi e le Religiose, e quanto più numerosa possibile la santa assemblea dei fedeli. Analogamente faccia ogni Parrocchia per la propria comunità; e parimente ogni casa religiosa. Così suggeriamo che tale professione di fede sia, in un giorno stabilito, emessa in ogni singola casa ove dimori una famiglia cristiana, in ogni associazione cattolica, in ogni scuola cattolica, in ogni ospedale cattolico e in ogni luogo di culto, in ogni ambiente e in ogni riunione, ove la voce della fede possa esprimere e rinfrancare l'adesione sincera alla comune vocazione cristiana.

    Noi rivolgiamo una particolare esortazione agli studiosi della Sacra Scrittura e della Teologia, affinché vogliano contribuire col magistero gerarchico della Chiesa a preservare la vera fede da ogni errore, ad approfondirne le insondabili profondità, a spiegarne rettamente il contenuto, a proporne i sani criteri di studio e di divulgazione. Similmente diciamo ai predicatori, ai maestri di religione, ai catechisti.

    L'anno centenario commemorativo dei santi Pietro e Paolo sarà in tale modo l'anno della fede. Affinché la sua celebrazione abbia una certa simultaneità, Noi vi daremo inizio con la festa degli Apostoli medesimi, il 29 giugno prossimo venturo, e procureremo, fino allo scadere della medesima data dell'anno successivo, di renderlo fecondo di particolari commemorazioni e celebrazioni, tutte improntate al perfezionamento interiore, allo studio approfondito, alla professione religiosa, all'operosa testimonianza di quella santa fede senza la quale è impossibile piacere a Dio (Eb 1,6), e mediante la quale speriamo di raggiungere la promessa salvezza (Cf Mc 16,16; Ef 2,8; ecc.).

    Dando a voi, Venerati Fratelli e diletti Figli, questo annuncio pieno di spirituali prospettive e di consolanti speranze, sicuri di avervi tutti solidali in piissima comunione, nel nome e con la potestà dei beati Apostoli e martiri Pietro e Paolo, sulle cui tombe riposa e fiorisce questa Chiesa Romana, erede, alunna e custode dell'unità e della cattolicità da loro qui per sempre incentrate e fatte scaturire, di gran cuore vi salutiamo e vi benediciamo.

    Roma, presso S. Pietro, 22 febbraio, nella festa della Cattedra di san Pietro apostolo, dell'anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

    PAOLO PP. VI

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    PAOLO VI

    UDIENZA GENERALE


    Mercoledì, 28 giugno 1966

    Diletti Figli e Figlie!

    Oggi il Nostro pensiero è rivolto alla festa che domani celebreremo, quella dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e che interessa principalmente ed enormemente la Chiesa di Roma, la quale venera in questi due Martiri i suoi luminari, come già scriveva S. Ambrogio: «Dies factus est Petrus, dies Paulus . . .». Luce è diventato Pietro, luce Paolo (De virginitate, 19; P. L. 16, 313). «L’odierna festività, commenta San Leone Magno, oltre la venerazione che ha riscosso in tutto il mondo, dev’essere celebrata con speciale e propria venerazione dalla nostra Città, affinché dove è stato glorificato il transito dei due principali Apostoli, ivi, nel giorno del loro martirio, sia il primato della letizia» (Serm. 82, P. L. 54, 422). Si potrebbe facilmente raccogliere un’antologia di testi letterari e liturgici che celebrano insieme e la dignità di questi sommi fra gli Apostoli, e l’autorità della loro testimonianza di parola e di sangue, e il fatto che Roma raccolse il loro ministero, il loro martirio, le loro tombe, e poi la storia, per cui la loro memoria e la Chiesa da loro derivata e l’autorità della successione pontificia li ha resi, come li definisce Prudenzio (a. 405): «patroni del mondo» (P. L. 60, 257).

    Ciò che ora a Noi preme è raccomandare a voi, carissimi Figli, che rendendo visita al Papa onorate l’apostolo Pietro, di cui egli è umile successore e l’apostolo Paolo, di cui egli ha implorato la protezione assumendone il nome, di avere sempre in grande venerazione questi massimi e santissimi seguaci e annunciatori di Cristo, fondamenti della Chiesa, non solo romana, ma universale. La devozione agli Apostoli Pietro e Paolo ha avuto un’immensa importanza nella formazione della mentalità cattolica e nello sviluppo della spiritualità della Chiesa, e, com’è ovvio, in quella romana specialmente; l’ha avuta nella determinazione di grandi fatti storici, come pure nella disciplina canonica ed economica della cristianità medioevale. Questa devozione acquista oggi una nuova importanza nella ecclesiologia moderna, sia per la dottrina teologica circa la costituzione unitaria e gerarchica della Chiesa (cfr. Denz. Schoen. 942), sia per il dialogo ecumenico, a riguardo specialmente dell’apostolicità della Chiesa, delle potestà conferite a Pietro e della loro trasmissibilità, sia per le ricerche e per le discussioni archeologiche di questi ultimi anni.

    Bisogna, Figli carissimi amorosi della Chiesa di Cristo, riaccendere debitamente, nella pietà personale e nel culto liturgico, la devozione agli Apostoli e specialmente ai santi Pietro e Paolo: da loro è venuto a noi nella forma più autorevole e venerabile il messaggio di Cristo, da loro abbiamo tante pagine indimenticabili del nuovo Testamento, da loro la fede, che non tanto per la sede geografica e storica in cui ha messo radice e da cui s’è irradiata (cfr. Rom. 1, 8), ma per l’autorità che la professa e il carattere unitario che riveste, si è detta romana, non per essere qui limitata, ma per meglio qualificarsi cattolica. L’amore agli Apostoli Pietro e Paolo ci aiuterà a meglio comprendere come la fedeltà ferma e filiale a questa benedetta loro sede romana non restringe le dimensioni universali della Chiesa di Cristo, non mortifica la vitalità e l’originalità delle comunità diffuse nel mondo, non impone superflui e pesanti vincoli giuridici; sì bene pone la base ferma e sicura dell’edificio ecclesiastico, offre il punto onorevole e indiscutibile dell’unità cattolica, e alimenta la carità della famiglia cristiana.

    Ci aiuta a ripensare queste semplici e fondamentali verità la festa odierna (28 giugno, trasferita al 3 luglio), dedicata a quella grande figura di maestro, di Vescovo, di martire († 200), che fu Sant’Ireneo, discepolo di Policarpo di Smirne e poi pastore e gloria della Chiesa di Lione nella Gallia. Rileggiamo il suo celebre testo (tanto apprezzato anche dal Duchesne, Eglises séparées, p. 119): «. . . a questa Chiesa - fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo - in grazia della sua sovraeminente posizione debbono confluire i fedeli di tutti i Paesi, perché in essa si è sempre conservata la tradizione apostolica» (Adv. haereses, 3, 3, 2; PG. 7, 848).

    Così la pensava un altro Santo, uno dei Padri della Chiesa del quarto secolo, a Noi molto caro, San Gaudenzio, discepolo di S. Ambrogio e Vescovo di Brescia: «Teniamo vive, fratelli, le memorie dei Santi Apostoli; teniamole vive con la fede, con l’azione, con la condotta, con la parola . . .» (Serm. XX, p. 238).

    Così essi, gli Apostoli, vi aiutino e, mediante la Nostra Benedizione, vi benedicano.

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    PAOLO VI

    OMELIA

    SOLENNITÀ DEI SANTISSIMI APOSTOLI PIETRO E PAOLO


    Domenica, 29 giugno 1969

    Fratelli e Figli, tutti in Cristo carissimi!

    Noi faremo di questa nostra celebrazione della festa di San Pietro una preghiera, una preghiera principalmente per questa sua e nostra Chiesa romana, e poi per tutta la Chiesa cattolica, e per i Fratelli cristiani, con cui desideriamo avere un giorno perfetta comunione, e per l’intera umanità, alla quale Il Vangelo, mediante la predicazione apostolica, è destinato (cfr. Marc. 16, 15).

    Potremmo, anzi dovremmo fare dapprima una meditazione, di capitale importanza nel disegno della nostra fede: dovremmo ricordare ciò che il Vangelo e altri libri del nuovo Testamento ci narrano di lui, Simone, figlio di Jona e fratello di Andrea, il pescatore di Galilea, discepolo di Giovanni il Precursore, chiamato da Gesù con un nuovo nome, Cefa, che significa Pietro (Io. 1, 42; Matth. 16, 18); e ricordare la missione, simboleggiata dalle figure di pescatore (Luc. 5, 10) e di pastore (Io. 21, 15, ss.), affidata a lui da Cristo, che, con gli altri undici e primo di essi, fece del discepolo l’apostolo (Luc. 6, 13); e ricordare poi la funzione, che questo uomo, umile (Luc. 5, 8), docile e modesto (cf. Io. 13, 9; 1 Petr. 5, 1), debole anche (Matth. 14, 30), ed incostante e pauroso perfino (Matth. 26, 40-45, 69 ss.; Gal. 2, 11), ma pieno d’entusiasmo e di fervore (Matth. 26, 33; Marc. 14, 47), di fede (Io. 6, 68; Matth. 16, 17), e di amore (Luc. 22, 62; Io. 21, 15 ss.), subito esercitò nella nascente comunità cristiana (cfr. Act. 1 - 12, 17), di centro, di maestro, di capo. Così dovremmo riandare la storia del suo ministero (cfr. Vangelo di S. Marco e Lettere di S. Pietro) e del suo martirio, e poi della successione nel suo pontificato gerarchico, e finalmente lo sviluppo storico della sua missione nella Chiesa, e la riflessione teologica, che ne risultò, fino ai due ultimi Concili ecumenici, Vaticano I e Vaticano II. Avremmo di che pensare e riflettere non più sul passato, ma sul presente, sulle condizioni odierne della Chiesa e del cristianesimo, e sull’istanza religiosa, ecclesiale ed ecumenica, con cui questo Pietro, messo da Cristo a fondamento del suo edificio della salvezza, della sua Chiesa, quasi tormentandoci e guidandoci ed esaltandoci, ancor oggi batte alla nostra porta (cfr. Act. 12, 13).

    Ma preferiamo supporre tutti questi ricordi e questi pensieri già presenti e fermentanti nelle nostre anime; essi ci hanno qua condotti, qua ci riempiono i cuori d’altri sentimenti, propri di noi tutti che qui siamo per onorare l’Apostolo, che fra tutti ci assicura della nostra comunione con Cristo, e che, per quelle Chiavi benedette, le Chiavi, nientemeno, che del Regno dei Cieli, a lui poste in mano dal Signore, ci ispira tanto semplice, filiale e devota confidenza. Più che pensare, in questo momento, desideriamo pregare. Desideriamo parlargli. Ci conforta ad assumere questo atteggiamento di umile e fiduciosa pietà la tradizione dei secoli, che fin dai primi albori del cristianesimo, e poi ai tempi successivi, registrò commoventi segni della devozione alla tomba dell’Apostolo, con iscrizioni sepolcrali, con graffiti di visitatori, con offerte di pellegrini e con riferimenti alle condizioni civili e politiche (cfr. ad es. HALLER, Die Quellen . . . n. 10, p. 95 ss.). La spiritualità locale romana è tutta imbevuta d’un culto di predilezione ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, al primo specialmente; la nostra non dovrebbe esserlo da meno. Per di più, proprio in questi ultimi anni, gli scavi e gli studi archeologici, compiuti sotto l’altare della Confessione in questa stessa Basilica, hanno portato le ricerche a rintracciare non solo la tomba dell’Apostolo Pietro (cfr. PIO XII, Discorsi, XII, p. 380), ma, secondo gli ultimi studi, le reliquie altresì (cfr. GUARDUCCI, La tomba di Pietro, 1959; Le Reliquie di Pietro, 1965). Questo luogo, questa basilica trovano in questi fatti la loro superlativa storicità e la ragione della loro eccezionale e monumentale sacralità: dovrebbe la nostra presenza trovarvi la fonte e lo stimolo ad una viva e speciale riverenza, ad una singolare commozione religiosa. Pietro è qui! (Pétros ëni), come si ritiene che ci assicuri il famoso graffito sull’intonaco del così detto «muro rosso».

    IL PRIMATO DELLA FEDELTÀ

    Se Pietro è qui, anche con i resti del suo sepolcro e delle reliquie del suo corpo benedetto, oltre che con il centro della sua evangelica potestà e della sua apostolica successione, lasciamo, Figli carissimi, che l’istintivo desiderio di parlargli, di pregarlo, sgorghi in semplice ed umile invocazione dai nostri cuori. Pietro è qui. È la sua festa, la memoria del suo martirio, che, in segno di supremo amore e di suprema testimonianza, Cristo stesso gli aveva preannunciato (Io. 21, 18). È qui: che cosa gli chiederemo?

    Noi cattolici, noi romani specialmente, gli chiederemo ciò ch’è proprio del suo particolare carisma apostolico, la fermezza, la solidità, la perennità, la capacità di resistere all’usura del tempo e alla pressione degli avvenimenti, la forza di essere nella diversità delle situazioni sempre sostanzialmente eguali a noi stessi, di vivere e di sopravvivere, sicuri d’un Vangelo iniziale, d’una coerenza attuale, di una meta escatologica. La fede, voi direte. Sì dobbiamo domandare a Pietro la fede, quella che da lui e dagli Apostoli ci deriva, quella che lo scorso anno abbiamo, in questa stessa ricorrenza, apertamente professata, quella di tutta la Chiesa. Sì, la fede: che saremmo noi, cattolici di Roma, senza la fede, la vera fede? Ma a noi è richiesto qualche cosa di più, se vogliamo essere i più vicini e i più esemplari cultori di San Pietro; è richiesta la fedeltà. La fede è di tutto il Popolo di Dio; ed anche la fedeltà; ma tocca principalmente a noi dare prova di fedeltà. «Siate forti nella fede», ci ammonisce San Pietro stesso, nella sua prima lettera apostolica: «Resistite fortes in fide» (5, 9). Cioè non potremmo dirci discepoli e seguaci e eredi e successori di San Pietro, se la nostra adesione al messaggio salvifico della rivelazione cristiana non avesse quella fermezza interiore, quella coerenza esteriore, che ne fa un vero e pratico principio di vita. Roma deve avere anche questo primato: quello, ripetiamo, della fedeltà, che traduce la fede nella sua vita, nella sua arte, un’arte di santità, di dare alla fede un’espressione costante e coerente, uno stile d’autenticità cristiana. E questa fedeltà, mentre nel cuore la promettiamo, oggi nella nostra orazione a S. Pietro la domandiamo, a lui, che come uomo ne sperimentò la difficoltà e la contraddizione, ma, come capo degli Apostoli, e di quanti gli sarebbero stati associati nella fede, ebbe da Cristo l’incomparabile favore della preghiera da Lui stesso assicurata proprio per la resistenza nella fede: «Ut non defìciat fides tua»; e insieme ebbe l’infallibile mandato di confermare, dopo l’ora della debolezza, i suoi fratelli: «Confirma fratres tuos» (cfr. Luc. 22, 31-32).

    MISSIONE PASTORALE

    E noi vorremmo che questa fedeltà fosse da noi considerata non soltanto nella sua immobile adesione alla verità, da noi ricevuta da Cristo ed evoluta e fissata nel magistero della Chiesa, convalidato da Pietro, ma nella sua intrinseca capacità diffusiva ed apostolica; una fedeltà cioè non così statica ed immobile nel suo linguaggio storico e sociale da precludere la comunicazione agli altri, e agli altri l’accessibilità; ma una fedeltà che trovi nella genuinità del contenuto sia la sua intima spinta evangelizzatrice (cfr. 1 Cor. 9, 16: «Guai a me, scrive San Paolo, se non predicassi il Vangelo»), sia la sua autorità per essere dagli altri accettata (cfr. Gal. 1, 8: «Anche se noi stessi - scrive ancora S. Paolo - o un angelo del cielo venisse ad annunziarvi un altro vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato noi, sia egli anatema»), e sia il carisma dello Spirito Santo che accompagna la voce del Vangelo (cfr. Io. 15, 20).

    E chiederemo a S. Pietro un’altra fedeltà, anche questa superlativamente sua, quella dell’amore a Cristo, che si effonde in concreto e generoso servizio pastorale (cfr. Io. 21, 15 ss.). Abbiamo noi a Roma, proprio per la missione di Pietro qui stabilita e da qui irradiata, grandi doveri, maggiori doveri di quanti ne abbia qualsiasi altra Chiesa.

    SERVIRE PER AMORE

    Bisogna servire per amore. Questa è la grande legge del servizio, della funzionalità, dell’autorità della Chiesa. Ed è la legge, che noi siamo felici di vedere praticata, con tanta generosità e assiduità, nel cerchio romano, e diffuso nel mondo, dei collaboratori che sorreggono ed eseguiscono il nostro ministero apostolico.

    Ma non sarà mai vano per noi, che vi parliamo, né per voi, che ci ascoltate, rinnovare cento volte il proposito di adempiere in perfezione questa legge di amore evangelico; e non sarà inutile perciò che anche di questa fedeltà, di questo carisma supremo della carità, noi facciamo oggi preghiera all’Apostolo, che sull’invito e sul favore di Cristo, ebbe l’audacia di rispondere che sì, alla domanda di Gesù se egli lo amava di più degli altri. Lo amava di più! Aveva il primato dell’amore a Cristo, e perciò quello pastorale verso il suo gregge.

    O San Pietro! ottieni anche a noi di essere forti nella fede e di amare di più. Fa’ che questa tua Roma, in codesti doni si affermi ed anche a beneficio, ad esempio dei fratelli che sono nel mondo essa si distingua.

    O Santi Pietro e Paolo («ipse consors sanguinis et diei» S. AG., Serm. 296; P.L. 38, 1354) «in mente habete»! Ricordatevi di noi! Così sia!

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    Predefinito Udienza Generale Di Paolo Vi

    PAOLO VI

    UDIENZA GENERALE


    Mercoledì, 26 giugno 1968

    PIETRO E PAOLO ALL'ORIGINE COSTITUTIVA DELLA CHIESA DI ROMA

    Diletti Figli e Figlie!

    Al termine ormai dell’«Anno della Fede», che Noi abbiamo dedicato alla memoria del XIX centenario del martirio sofferto a Roma per il nome di Cristo dai Santi Apostoli Pietro e Paolo, dobbiamo rivolgere il nostro riverente pensiero a questi Corifei del cristianesimo, che possono essere considerati, come li definisce alla fine del primo secolo il Papa S. Clemente I, terzo successore di S. Pietro, e perciò quarto Vescovo sulla cattedra romana, «le massime e giustissime colonne» (1 Cor. V) della «Chiesa di Dio pellegrina a Roma» (ibid. I), e come poi sempre furono celebrati insieme quali fondamenti apostolici della Chiesa romana e universale.

    Non è questo il momento per fare il loro panegirico, né quello di accennare alle questioni storiche, che si riferiscono alla venuta dell’uno e dell’altro Apostolo nell’Urbe e del loro martirio, né dello sviluppo che Roma e l’intera Cristianità diedero al culto di questi incomparabili testimoni del messaggio e del fatto cristiano, e nemmeno come mai la loro memoria fu sempre associata in un unico ricordo (cfr. S. Ignazio, ad Rom. IV), quantunque, come dice S. Ambrogio, Pietro sia stato il fondamento della Chiesa, e Paolo l’architetto, il costruttore (De Sp. S. II, 13, 158; P.L. 16, 808); cioè diversa sia stata la funzione da essi esercitata nella comunità cristiana di Roma, Vescovo l’uno, S. Pietro, Predicatore del Vangelo l’altro, S. Paolo, e sebbene entrambi, a quanto afferma S. Ireneo, siano all’origine della tradizione gerarchica della Chiesa di Roma (Contra haereses, III, 3; P.G. 7, 848-849).

    VENERAZIONE AMORE FEDELTÀ PER I DUE INSIGNI ARALDI

    Ciò che a Noi preme, in questo breve incontro, è di accendere nei nostri animi la venerazione, l’amore, la fedeltà verso questi Apostoli, che sono all’origine costitutiva della Chiesa romana, e le lasciano l’eredità della loro parola, della loro autorità, del loro sangue, eguali sotto diversi aspetti come declama S. Leone Magno: «electio pares, et labor similes, et finis fecit aequales», pari per l’elezione all’apostolato, simili per l’opera compiuta, ed eguali per il loro martirio (Sermo 82, 7; P.L. 54, 428); ma l’uno insignito della potestà del regno dei cieli, l’altro della scienza delle cose divine; l’uno Pastore, l’altro Dottore. A questa intensità di sentimenti ci aiutano e ci impegnano le tracce storiche e locali da loro lasciate. Non possono essere trascurati da noi Romani, a da quanti a Roma muovono i passi, questi riferimenti umani e materiali alla memoria degli Apostoli, «per quos religionis sumpsit exordium», per merito dei quali ebbe inizio la nostra vita religiosa (Colletta della Messa). Ricordiamo anche noi la prima testimonianza letteraria di questo culto locale: scrive Eusebio di Cesarea, padre della storia ecclesiastica: «Si narra che Paolo fu decapitato da lui (Nerone) e Pietro crocifisso a Roma; e ne sono riconferma tuttora i monumenti insigniti dei nomi di Pietro e di Paolo, visitati tuttora nei cimiteri della città di Roma. Del resto anche Gaio, un ecclesiastico vissuto ai tempi del Vescovo di Roma Zefirino (199-217), in un suo scritto contro Proclo, capo della setta dei Montanisti (Catafrigi), parla dei luoghi ove furono deposte le sacre spoglie dei detti Apostoli; e così si esprime: «Io posso mostrarti i trofei degli Apostoli. Se vorrai recarti al Vaticano, o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa Chiesa» (Hist. Eccl., 11, 25; P.L. 20, 207-210).

    LA MEMORIA ANTICA E LE RECENTI INDAGINI DEL GLORIOSO «TROFEO»

    Si è parlato assai in questi ultimi anni dei menzionati «trofei»: nessun dubbio che per trofei s’intendano le tombe dei due Apostoli martiri, le quali già prima della testimonianza di Gaio, e perciò già nel secondo secolo, erano oggetto di venerazione. Ultimamente l’attenzione degli studiosi s’è fissata sul trofeo eretto sulla tomba di San Pietro, detto appunto il trofeo di Gaio. Dobbiamo questo appassionato interessamento agli scavi, che Papa Pio XII, Nostro venerato Predecessore, ordinò che si facessero sotto questo altare centrale, detto «Confessione», della Basilica di S. Pietro, per meglio identificare la tomba dell’Apostolo, sulla quale, ed in suo onore, questa Basilica è costruita. Gli scavi, difficilissimi e delicatissimi, furono eseguiti, fra il quaranta e il cinquanta, con i risultati archeologici di somma importanza, che tutti sanno, per merito degli insigni studiosi ed operatori che all’ardua ricerca hanno dedicato cure degne di plauso e di riconoscenza. Così si esprimeva Papa Pio XII, nel suo Radiomessaggio natalizio del 23 dicembre 1950: «. . . La questione essenziale è la seguente: È stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo "sì". La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata. Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute?» (Discorsi e Radiom. XII, 380). La risposta allora data dal venerato Pontefice era sospensiva, dubitativa.

    Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica.

    ANNUNZIO FELICE: RINTRACCIATI I SACROSANTI RESTI MORTALI DEL PRINCIPE DEGLI APOSTOLI

    Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche.

    Ma da parte Nostra Ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, di dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo ad onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità, le quali furono un tempo vive membra di Cristo, tempio dello Spirito Santo, destinate alla gloriosa risurrezione (cfr. Denz. Sch., 1822); e, nel caso presente, tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che sono stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti resti mortali del Principe degli Apostoli, di Simone, figlio di Giona, del Pescatore chiamato Pietro da Cristo, di colui che fu eletto dal Signore a fondamento della sua Chiesa, e a cui il Signore affidò le somme chiavi del suo regno, con la missione di pascere e di riunire il suo gregge, l’umanità redenta, fino al suo finale ritorno glorioso.

    Figli carissimi! Invochiamo il martire, apostolo, vescovo di Roma e della Chiesa cattolica, Pietro, e, con lui, Paolo, il missionario, il dottore delle genti, l’assertore principale dell’universalità del messaggio cristiano, affinché entrambi ci siano maestri e protettori dal cielo nel nostro pellegrinaggio terreno.

    Possa la Benedizione Apostolica, che a Noi da quella fonte Ci deriva, essere per voi tutti effusiva delle più abbondanti grazie del Signore Gesù.

  10. #10
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    PAOLO VI

    UDIENZA GENERALE


    Mercoledì, 22 febbraio 1967

    Questa udienza generale trova oggi, 22 febbraio, la Basilica di S. Pietro in festa per la celebrazione d’una sua particolare solennità: quella della «Cattedra di San Pietro». Dubiterà qualcuno che si tratti d’una festa di recente istituzione, dovuta allo sviluppo della dottrina circa il Pontificato romano, nel secolo scorso. No, si tratta di un’antichissima festa, che risale al terzo secolo (cf. Lexicon für Th. und K. 6, 66), e che si distingue dalla festa per la memoria anniversaria del martirio dell’Apostolo (29 giugno). Già nel quarto secolo la festa odierna è indicata come «Natale Petri de cathedra» (cf. Radò, Ench. Lit, II, 1375). Fino a pochi anni fa il nostro calendario registrava due feste della Cattedra di S. Pietro, una il 18 gennaio, riferita alla sede di Roma, l’altra il 22 febbraio, riferita alla sede di Antiochia; ma si è visto che questa geminazione non aveva fondamento né storico, né liturgico.

    A che cosa si riferisce questo culto? Il primo pensiero corre alla Cattedra materiale, cioè alle reliquie del seggio sul quale l’Apostolo si sarebbe seduto per presiedere all’assemblea dei Fedeli, perché sempre in tutte le comunità cristiane il seggio episcopale era tenuto in grande onore. Si chiama ancor oggi cattedrale la chiesa dove il Vescovo risiede e governa. Ma la questione circa l’autenticità materiale di tali reliquie riguarda piuttosto l’archeologia, che la liturgia; sappiamo che tale questione ha una lunga storia di difficile ricostruzione, e che il grandioso e celebre monumento di bronzo, eretto per ordine di Papa Urbano VIII, ad opera del Bernini, nell’abside di questa Basilica, si chiama «l’altare della Cattedra», il quale, a prescindere dai cimeli archeologici ivi contenuti, vuole onorare principalmente il loro significato: vuole cioè riferirsi a ciò che dalla Cattedra è simboleggiato, la potestà pastorale e magistrale di colui che occupò la Cattedra stessa, considerata piuttosto nella sua origine costitutiva e nella sua tradizione ecclesiastica, che non nella sua entità materiale (cf. Cabrol, in DACL, III, 88: la festa «ricordava l’episcopato di S. Pietro a Roma, piuttosto che la venerazione d’una Cattedra materiale dell’Apostolo»). «Quello che conta e che commuove e la glorificazione di questa "Cattedra", la quale, fra tanto susseguirsi e variare di sistemi, di teorie, di ipotesi, che si contraddicono e cadono l’unta dopo l’altra, è l’unica che, invitta, faccia certa, da duemila anni, la grande famiglia dei cattolici; che anche su questa terra è dato agli uomini di conoscere talune immutabili verità supreme: le vere e sole che appaghino l’angoscioso spirito dell’uomo» (cf. Galassi Paluzzi, S. Pietro in Vat., II, 65).

    Dunque: onoreremo nella Cattedra di San Pietro l’autorità che Cristo conferì all’Apostolo, e che nella Cattedra trovo il suo simbolo, il suo concetto popolare e la sua espressione ecclesiale. Come non ricordare che, fin dalla metà del terzo secolo, il grande vescovo e martire africano, San Cipriano, adopera questo termine per indicare la potestà della Chiesa Romana, in virtù della Cattedra di Pietro, donde scaturisce, egli dice, l’unità della gerarchia? (cf. Ep. 59, 16: Bayard, Correspondance, II, 184). E quanto alla festa della Cattedra basti citare una delle frasi dei tre discorsi attribuiti a S. Agostino e ad essa relativi: «L’istituzione della odierna solennità ha preso il nome di Cattedra dai nostri predecessori per il fatto che si dice avere il primo apostolo Pietro occupato la sua Cattedra episcopale. Giustamente dunque le Chiese onorano l’origine di quella sede, che per il bene delle Chiese l’Apostolo accettò» (Serm. 190, I; P.L. 39, 2100).

    Noi faremo bene, Figli carissimi, a dare a questa festività la venerazione, che le è propria, ripensando alla insostituibile e provvidenziale funzione del magistero ecclesiastico, il quale ha nel magistero pontificio la sua più autorevole espressione. Si sa, pur troppo, come oggi certe correnti di pensiero, che ancora si dice cattolico, cerchino di attribuire una priorità nella formulazione normativa delle verità di fede alla comunità dei fedeli sulla funzione docente dell’Episcopato e del Pontificato romano, contrariamente agli insegnamenti scritturali e alla dottrina della Chiesa, apertamente confermata nel recente Concilio, e con grave pericolo per la genuina concezione della Chiesa stessa, per la sua interiore sicurezza e per la sua missione evangelizzatrice nel mondo.

    Unico nostro maestro è Cristo, che più volte ha rivendicato a Sé questo titolo (Matth. 23, 8; Io. 13, 14); da Lui solo viene a noi la Parola rivelatrice del Padre (Matth. 11, 27); da Lui solo la verità liberatrice (lo. 8, 32), che ci apre le vie della salvezza; da Lui solo lo Spirito Paraclito (Io. 15: 26), che alimenta la fede e l’amore nella sua Chiesa. Ma è pur Lui che ha voluto istituire uno strumento trasmittente e garante dei suoi insegnamenti, investendo Pietro e gli Apostoli del mandato di trasmettere con autorità e con sicurezza il suo pensiero e la sua volontà. Onorando perciò il magistero gerarchico della Chiesa onoriamo Cristo Maestro e riconosciamo quel mirabile equilibrio di funzioni da Lui stabilito, affinché la sua Chiesa potesse perennemente godere della certezza della verità rivelata, dell’unità della medesima fede, della coscienza della sua autentica vocazione, dell’umiltà di sapersi sempre discepola del divino Maestro, della carità che la compagina in un unico mistico corpo organizzato, e la abilita alla sicura testimonianza del Vangelo.

    Voglia il Signore conservare ed accrescere, per i bisogni del nostro tempo, questo culto amoroso, fiducioso e filiale al magistero ecclesiastico stabilito da Cristo; e sia a noi propizio l’Apostolo, che primo ne ebbe il mandato, e che qui ancora, dalla sua Cattedra romana, per mano Nostra, tutti vi benedica.

 

 
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