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Discussione: Si ricomincia

  1. #1
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    Predefinito Si ricomincia

    Durare è tutto, governare è niente...

    ...titola l'editoriale di Ferrara su il Foglio del 29 giugno

    Puntellare Berlusconi non è leale, non serve, non è intelligente, sicofanti e ruffiani inoltre abbondano.
    Picconarlo è stolto, non ci sono alternative serie.
    L’opposizione va rispettata, ma la sua inclinazione alla demagogia bisogna trattarla come merita.
    Poi il Cav. è simpatico, folle, stralunato, addirittura sconcertante, inaudito nel suo cocciuto infantilismo, mentre quelli sono cuori
    in grisaglia, gente perbenino che può far sognare il ceto medio riflessivo, non certo animali da strada come noi.

    Brutta botta, quella di Milano, e brutta situazione.
    Perché prevedibile e prevista, perché la reazione alle sconfitte è da perfetti sore losers, cattivi perdenti. I brogli.
    Il difetto di comunicazione, che fa ridere.
    La scusa della fragilità nel “territorio”.
    Il riequilibrio dei posti di potere assistenziale senza lo scambio con una nuova politica che mostri almeno un traguardo.
    Due anni a venire di ulteriore tediosa verifica con le insofferenze, gli aventinismi, gli sgambetti, le solite veline ai giornali, l’assenza di una discussione seria.
    Fossimo un partito, sarebbe il momento di battersi per una svolta, di insidiare e minacciare il torpido potere dei burocrati del berlusconismo, come quel Paolo Romani che spiega la sconfitta con l’apparizione di due spilloni di Filippo Penati ai seggi: che un pezzo del potere televisivo e politico del berlusconismo milanese sia affidato a un simile esempio di vanità e balordaggine, fa specie, e qualcuno che lo dica ci vorrà pure.
    Un piccolo giornale semilibero, destinato alla chiacchiera, che non si prende mai troppo sul serio, può e deve fare questo: nominare il falso, denunciare i piccoli idoli di teatro, criticare.
    Di lavoro ne avremo, nei prossimi due anni, che saranno anni duri.
    Può darsi che alla fine, nel 2006, ce la faranno lo stesso.
    E che sarà augurabile la sconfitta dei loro avversari. E’ probabile. Vedremo.
    Dipende anche dalla ripresa economica, dalle elezioni americane, dal quadro internazionale in cui Berlusconi si muove a suo agio non perché comunichi bene o controlli il territorio, ma perché ha una politica, giusta o sbagliata, ha un’identità.

    Dipendesse da loro, dal modo in cui pensano e discutono oggi il “nuovo slancio riformatore”, diremmo di no. Diremmo che il declino è in pieno svolgimento e che i delusi si conteranno a valanghe.
    Cisl e Confindustria erano fino all’altro ieri il perno di un nuovo patto sociale di modernizzazione, ed è tutto finito nella pattumiera in cui è stata gettata la riforma dello Statuto dei lavoratori, il mancato decreto di San Valentino del governo Berlusconi.
    Ora va di moda la concertazione, si passerà di cerimonia in cerimonia fino alla firma della Costituzione taroccata a Roma,
    sai che piacere mondano.
    Non abbiamo i conti a posto, da bravi bambini indebitati e cartolarizzati e condonati, ma nemmeno quel deficit che osa e stravolge con la rivoluzione fiscale gli assetti consolidati che il berlusconismo era venuto per alterare, quella era la promessa: liberalizzazioni e crescita, responsabilità e libertà.
    L’establishment si riorganizza e si prenota stancamente con le sue mazurke per il nuovo potere prossimo venturo.
    Le banche astute la faranno sempre più da padrone, l’industria vivacchierà senza fallire né seriamente ristrutturarsi, il capitalismo
    familiare convivrà tranquillo con il nuovo capitalismo cosiddetto. Alitalia sarà rifinanziata in perdita, come il calcio.
    Continuerà il tormentone verbale del federalismo e dell’interesse
    nazionale, nell’iter improbabile della riforma costituzionale. Rinascerà il velleitario penchant proporzionalista, così, il solito diversivo di mezza stagione.
    Tutto sarà insieme composto e rinviato, nelle migliori tradizioni di quando c’erano, caro lei, il sistema proporzionale e la dittatura degli apparati di partito.

    Chiacchiere da spogliatoio
    La società di cui il berlusconismo doveva essere espressione sarà di nuovo invitata a dormire, poi ci si stupisce che non si svegli il giorno del voto o vada al mare quando c’è il sole.
    La penetrazione in partibus infidelium, lo spiazzamento del governare con indipendenza, quando ci vuole anche “da sinistra”, è cosa rinviata: più delle battaglie di giustizia e di libertà, per tutti, vale la chiacchiera da spogliatoio, l’eterno dopopartita.
    Sarà approvato con la fiducia un riformone della giustizia che suscita l’opposizione dei superconservatori in toga, li porta a scioperare arcigni, ma non gli taglia le unghie: fatiche inutili.
    Quei delinquenti di intellettuali, che se ne stiano tutti con l’Ulivo e con i girotondi, gente estranea in giro la Casa delle Libertà non ne vuole.
    Non vuole i radicali, pericolosi a sé e agli altri, quando la logica è quella del tran tran. Non è che sia facile costruire da zero una nuova classe dirigente, affermare una cosa che si chiama
    “destra”, e magari di governo, in un paese che non l’ha mai conosciuta.
    Non è facile praticare il decisionismo in Italia, non è facile sorprendere un paese strutturalmente scettico, indolente, con un tasso di agonismo derisorio, pari a quello della sua recente nazionale di calcio.
    Ma è anche difficile escludere dal campo in modo tanto meticoloso tutto, ma proprio tutto quel che potrebbe portare, forse, domani, a questo risultato.
    Durare è tutto, governare è niente. Questa filosofia, se vogliamo chiamare così la più soporifera delle ideologie italiane, ricomincia a prevalere perfino nella coalizione diretta da un attore che ha conosciuto il dolore, che è entrato in scena nel pieno di un dramma vero dieci anni fa, che ha il talento del colpo di teatro, che potrebbe a ragione dire “dotto’, la mia vita è un romanzo”.
    Se non ce la fa lui, non ce la fa nessuno.
    E pare proprio, non tanto per il voto e i ballottaggi ma per la stizza maldestra con cui vengono accolti e giudicati, pare proprio che non ce la faccia.

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Aumentare le entrate? Diminuire....

    ...le tasse

    Roma. Diceva Antonio Gramsci che “gli intellettuali sono ‘i commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico”.
    Una conferma del tutto inopinata è venuta sul tema dell’abbattimento del prelievo fiscale. Su cui la stragrande maggioranza dei commentatori italiani oppone un fiero e secco no.
    Finché si tratta di Eugenio Scalfari domenica su Repubblica, passi, in lui la politica prevale.
    Ma a colpire è che sui giornali borghesi editorialisti e analisti non affrontino il tema in punta di merito, alla luce delle esperienze storiche comparate, e del livello del prelievo che asfissia l’economia italiana mentre i nuovi entranti da est nell’Unione europea non a caso stanno realizzando spettacolari boom proprio grazie a serie correzioni al ribasso delle imposte.
    Nessuno nota che l’Austria sta mandando in crisi il tradizionale buon vicinato con la Germania proprio per effetto dell’energico abbattimento delle sue aliquote.
    L’unica cosa a contare è che l’attuazione della riforma Irpef su due sole aliquote costituirebbe il compimento del famigerato contratto con gli italiani firmato da Silvio Berlusconi in quell’anomalo studio notarile coram populo che è Porta a porta. Di conseguenza, qualunque argomento valga a escludere possibilità e opportunità dell’abbattimento delle aliquote è benvenuto, concorre splendidamente al grande coro a cappella il cui fine non è rilanciare la crescita, ma pregiudicare la già assai malmessa credibilità del governo.
    Alle ragioni dell’equilibrio del bilancio, ieri non troppo a sorpresa ha aggiunto del suo la Corte costituzionale.
    Pronunciandosi sulle eccezioni di costituzionalità al condono edilizio presentate da numerose Regioni italiane (anche dal Lazio di Francesco Storace), ha accolto in parte i rilievi dei proponenti, sentenziando che il governo centrale può certo disporre opportunità e tetti massimi delle misure di condono, ma spetta poi alle Regioni disporre concretamente volumetrie e tipologie condonabili entro i limiti posti dall’autorità centrale.
    Dunque, serve una nuova legge statale.
    Poi occorre che ciascuna Regione provveda con una propria deliberazione, e si può certo immaginare sollecitudine e dispositivi da parte di quelle governate da chi in Parlamento siede all’opposizione.
    Infine occorrerà riaprire i termini per chi intende ricorrervi. Il risultato di questa sentenza della Corte è che ci sono 4 miliardi di buco aggiuntivo nelle entrate previste per l’anno in corso, e oggi saranno in molti a scrivere che a maggior ragione certo non si deve pensare a tagliare le imposte.
    Senza contare che An e Udc, dopo l’esito dei ballottaggi amministrativi, anch’essi mostrano verso l’abbattimento fiscale una curva di attenzione che va dall’indifferenza all’insofferenza.

    Non sarà a questo punto l’esempio dell’Estonia, a convincerli. Eppure abbassando il prelievo Irpef all’aliquota massima del 26 per cento, da 8 anni è passata dalla stasi a crescere del 5,2 per cento annuo.
    Né varrà la Lettonia, dove l’aliquota marginale è stata portata al 25 per cento dopo che in 5 anni il pil si era ristretto della metà, col risultato che negli ultimi 4 anni è cresciuta in media del 3,9 per cento annuo.
    Né tanto meno c’è da sperare si possano piegare le resistenze
    “sociali” dei membri più pugnaci di An citando l’esempio della Russia, unico vero grande paese continentale a batterci per evasione fiscale. Da che l’Irpef è stata drasticamente ridotta di oltre il 50 per cento, portandola alla “flat tax” con aliquota al 13 per cento, il gettito raccolto a livello federale è letteralmente raddoppiato in 3 anni, passando dai 965 miliardi di rubli del 2000 ai 1892 del 2003.
    Paradossalmente ma non troppo, più si dichiarano e sembrano
    “sociali” – le preoccupazioni degli esponenti di An che si battono per tenere le aliquote attuali del 45 e del 39 per cento, riducendo la riforma solo a lievi correzioni delle aliquote sottostanti – più in realtà sono conniventi con l’elevata evasione connessa alle alte aliquote “formali”.
    Ma in questo concerto di no ci sono ragioni “sistemiche”.
    Come quelle suggestivamente messe a fuoco in un recentissimo paper a firma di Vincenzo Atella, del dipartimento di Economia di Tor Vergata, di Federico Perali, dell’Università di Verona, e di Jay Coggins, della Minnesota University.
    Hanno studiato andamenti e ragioni dell’avversione all’ineguaglianza nella società italiana, concentrandosi sui dati tra il 1985 e il 1996.
    L’avversione all’ineguaglianza è in Italia tra le più elevate in tutti i paesi occidentali, e varia naturalmente in ragione di molte condizioni, a partire dal reddito disponibile delle famiglie.
    Gli autori evidenziano come l’aggiustamento fiscale compiuto quasi integralmente sul versante del maggior prelievo, in vista dell’ingresso nell’euro, abbia sostanzialmente modificato il reddito disponibile, abbattendone la quota da lavoro rispetto ad altre fonti, e limandone sostanzialmente nella componente finanziaria quella in precedenza assicurata dagli alti tassi d’interesse praticati sui titoli del debito pubblico.
    Quanto maggiori sono le compressioni del reddito disponibile, tanto più si accentua l’avversione all’ineguaglianza e la richiesta di politiche di intervento pubblico di tipo egualitario.
    Il paradosso è che grazie alla sinistra che ha alzato le tasse, molti italiani temono il loro abbattimento perché pensano che le diseguaglianze crescerebbero ulteriormente.

    E’ lo statalismo, da sempre, il miglior sfamatore di se stesso.
    Ma c’è un ma. I dubbiosi della maggioranza dovrebbero osservare un dato del 1996, l’ultimo anno studiato dai ricercatori.
    E’ quello in cui la polarizzazione eguaglianza-diseguaglianza si accentua di più tra gli italiani.
    Non a caso, come riconoscono gli stessi autori, in presenza di un importante occasione elettorale col sistema maggioritario.
    La politica può correggere e vincere timori e fallaci aspettative, se solo ha voglia e coraggio di farlo.

    Oscar Giannino su il Foglio del 29 giugno

    saluti

  3. #3
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    Predefinito Se c'è la Tv la legge...

    ...è un optional

    Carlo Nordio, un magistrato abituato a cantare fuori dal coro, si interroga sulle ragioni che hanno portato polizia e magistratura salernitane a non accorgersi dei numerosi reati commessi dai manifestanti che da giorni occupano la stazione di Montecorvino. L’azione penale, si dice, è obbligatoria, le “notizie di reato” erano evidenti, ma non si è fatto nulla, il che tecnicamente mette “i vertici della polizia e della magistratura del luogo” in condizione di essere incriminati per concorso nei reati commessi dai manifestanti.
    Nordio chiarisce che tutto ciò vale “in linea teorica”, visto che “la giustizia opera fin dove è assistita dalla spada, cioè dalla forza”. E qui si è deciso di non usarla, forse in considerazione di ragioni di ordine pubblico rispettabili, forse per opportunità di ordine elettorale, un po’ meno nobili.
    Resta il fatto che costituisce un precedente assai preoccupante dell’impunità dei reati collettivi o a sfondo sociale.
    “Se uno di noi attraversa di corsa i binari – osserva Nordio – arriva il poliziotto, se blocchiamo la ferrovia in cento, arriva il questore, se siamo in mille arriva la televisione”.
    Una volta affidata al sistema mediatico, si direbbe, ogni vicenda perde rilievo per il giudice naturale, sostituito dal “pubblico”.
    Così i manifestanti organizzano il loro spettacolino, recitano il rosario e cantano l’inno di Mameli, per acquisire la benevolenza del nuovo giudice, il telespettatore.
    E il controllo di legalità “senza guardare in faccia a nessuno”, che fine ha fatto?
    Era anche quello, in realtà, un argomento retorico, impiegato per alimentare il circuito mediatico giudiziario, e quindi non vale quando entrano in campo le telecamere. Insomma anche il “fiat justitia et pereat mundus” si è rivelato per quello che era: uno spot.
    Contro questa messinscena pagata caramente dagli utenti si è levata la voce del Quirinale, che suona come un monito contro le agitazioni irresponsabili, ma che dovrebbe far riflettere anche nei palazzi di giustizia e in quello del Viminale.
    Far rispettare la legge non è sempre un optional.

    saluti

  4. #4
    brescianofobo
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    Predefinito Re: Si ricomincia

    In origine postato da mustang
    Un piccolo giornale semilibero, destinato alla chiacchiera, che non si prende mai troppo sul serio, può e deve fare questo: nominare il falso, denunciare i piccoli idoli di teatro, criticare.
    Se queste cose invece le fa il Brunik è un agit-prop oppure un bamboccetto.

    Ha fatto l'autocritica Ferrara, fatela anche voi, Pieffebi e Mustang. Fuori le palle, il pollismo è finito, cercate di diventare seri anche voi, una buona volta.

  5. #5
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    Predefinito L'assedio degli....

    ...alleati

    Roma. Silvio Berlusconi è costretto a chiudere la verifica in tre giorni per poi annunciare nel quarto il rinnovato accordo tra alleati e il via libera al decreto tagliaspese.
    Chiudere prima della riunione di Ecofin (lunedì prossimo), riacciuffando le redini di una coalizione pencolante, ormai rassegnata a governare ricorrendo al voto di fiducia:
    annunciato sulla riforma della giustizia ma indispensabile anche su quella previdenziale, come ha anticipato ieri il premier.
    Venerdì i leader della maggioranza si troveranno finalmente faccia
    a faccia dopo settimane di reciproche accuse.
    Entro sabato, giorno in cui si riunisce il Consiglio dei ministri, come
    che vadano le cose la verifica all’interno della Casa delle libertà dovrebbe trovare il suo epilogo.
    Il Consiglio sarà preceduto da una riunione in cui i leader della maggioranza dovranno scoprire le carte.
    Intanto è stato rinviato il vertice sulle riforme istituzionali previsto stasera, cui non avrebbero partecipato i centristi. Slittato proprio per “rispetto” verso la direzione nazionale dell’Udc fissata domani mattina, hanno fatto sapere i vertici leghisti dopo l’incontro di ieri con il premier. Aggiungendo in privato che “c’è bisogno di attendere la linea politica che Follini imprimerà al suo partito e intanto stringere il Cav. perché adotti una tattica di contenimento”.
    Insomma serve tempo anche se di tempo ce n’è davvero poco.
    “Quella riunione l’avevo chiesta io – ribadisce al Foglio il senatore Udc Francesco D’Onofrio – e prima del voto europeo.
    Perché non si può andare avanti alla Camera con un ddl uscito dal Senato senza un punto d’equilibrio accettabile sul sistema elettorale”.
    Quando si parla di legge elettorale il pensiero corre alla proposta di recupero del meccanismo proporzionale alla tedesca che l’Udc si prepara a ufficializzare. Un macigno in più sulla verifica, perché An sosterrà il premierato forte e soprattutto la Lega va megafonando che l’obiettivo centrista sia l’affossamento del federalismo.
    Un assaggio di quel che accadrà venerdì, se è vero quel che dice D’Onofrio: “La discussione sulle riforme sarà cruciale per il destino della verifica”.
    Ma “non è detto che dall’Udc giunga una bocciatura complessiva della devolution”, filtra da ambienti vicini alla segreteria.

    L’ottimismo di Calderoli
    Stando a Roberto Calderoli la Lega sarebbe tornata “ottimista” grazie al colloquio con il Cav.: “Ci sono le condizioni per il rilancio dell’esecutivo”. Altri esponenti del Carroccio mostrano più cautela: “Sulla riforma federale Berlusconi si è impegnato con lo stile con cui ha sempre promesso mari e monti”. D’altra parte Umberto Bossi, in contatto telefonico con i suoi luogotenenti, è stato chiaro: “Se non viene fuori una calendarizzazione dei lavori sulla devolution, non si va più da nessuna parte e si torna a votare nel 2005”. Di fronte all’esuberanza di An e Udc, la Lega sta adottando le sue contromisure.
    Insiste perché Berlusconi, se messo all’angolo da proposte
    “provocatorie” (non tanto in tema di rimpasto, quanto sul federalismo), anticipi i centristi minacciando il ricorso alle urne e un anno di campagna elettorale in cui “potrebbe indicarli come traditori e schiacciarli con le sue tv”.
    L’ipotesi viene comunque giudicata “poco verosimile” dagli stessi leghisti. In vista di venerdì, il Carroccio sta anche tentando di stringere un compromesso con Gianni Alemanno, ministro plenipotenziario di An dacché la sua corrente, Destra sociale, ha stravinto alle europee le sfide interne al partito. E’ lui che ieri ha guidato i lavori della Consulta economica di An incaricata di elaborare un documento su Dpef e manovra (oggi gli ultimi ritocchi in presenza di Gianfranco Fini, domani riunione del coordinamento nazionale del partito). E’ sempre lui che, in coro con l’Udc, cerca di sbarrare gli spazi di manovra a Giulio Tremonti: bocciando la sua riforma dell’Irpef sulla base di due aliquote, reclamando la tutela del welfare e la garanzia di fondi per il mezzogiorno. Ciononostante Alemanno anche ieri ha ripetuto che “per quel che riguarda il via libera al federalismo, An non ha grandi problemi se è compatibile con l’interesse nazionale”. In questa frase la Lega individua l’argine contro l’invadenza degli ex Dc. “Volete il ministero per il meridione? – ragionano i vertici leghisti – Prendetevelo e fate la Lega del sud”. In cambio il Carroccio si aspetta che le parole di Alemanno trovino una ricaduta conseguente nella riunione di dopodomani. La conferma che l’intesa è possibile arriva da un deputato di An: “Ma non parlerei di scambio, e nemmeno darei per scontato che nascerà un nuovo dicastero”. Se non è quello, sono forse le deleghe per il sud in mano al Tesoro e amministrate dal viceministro Gianfranco Miccichè.

    il Foglio del 30 giugno

    saluti

  6. #6
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    Predefinito L'ora di...

    Roma. Marco Follini chiede con fermezza (e fermamente attende una “risposta positiva” da Berlusconi e dalla maggioranza) la fine della “monarchia”, sostituita dalle “virtù repubblicane”, attraverso il ritorno al sistema proporzionale, e mai come ora, dentro il partito e fuori, si muove da monarca assoluto.
    Pacato e ultra misurato, fa però sapere che,
    se per il momento non c’è stato alcun contatto
    tra lui e il premier, probabilmente il motivo
    sta nella “reciproca” poca voglia di incontrarsi;
    intanto si compiace per i buoni risultati
    elettorali e concede generosamente parte
    del merito al presidente della Camera (“…
    devo ricordare che con i voti presi Pier Ferdinando
    Casini c’entra. E c’entra anche più di
    me”, ha detto ieri alla Repubblica), ora che,
    finalmente, si può tirare il fiato, perché la decisione
    da lui difesa di correre soli alle europee
    (in contrasto con la propensione di
    Casini per la Lista unica del Polo) si è rivelata
    più che vincente. E ora nell’Udc
    la leadership non si discute più -”ormai
    parla da pari a pari con Casini”, dicono
    i suoi amici più stretti - e gli appartenenti
    al Cdu sono rassegnati alla “fine
    della lotta per la supremazia,
    visto che la supremazia è
    assoluta, ed è quella di
    Casini e Follini”. E’ un
    asse che molti, soprattutto
    tra quelli che dall’Udc
    sono emigrati un po’ più a
    sinistra, vorrebbero in sotterranea ma costante lotta per il potere (a breve e lungo termine) e in assoluta “divergenza di vedute”, ma che finora evidentemente ha agito “come una specie di testuggine, prima dividendo, poi disordinando e infine totalmente emarginando, prima di buttare a mare quelli del Cdu”. Cioè Rocco Buttiglione (a cui graziosamente Follini concederà di fare il Commissario europeo), Giampiero Catone, Luca Volonté, Giovanni Mongiello, Vito Bonsignore, Mario Tassone, Gianfranco Rotondi (“Non si può correre dietro ai pettegolezzi di gente che nessuno sa chi sia”, è il commento di chi sta vicino a Follini). Va aggiunta la preparazione di quello che molti vedono come “un congresso di epurazione, per creare un Ccd allargato agli amici stretti”. La testuggine Casini-Follini “agisce divisa per colpire unita”, e ieri il segretario e il presidente hanno pranzato insieme per decidere i prossimi passi. Funziona così, solitamente:
    Casini invita Follini a non esagerare con i no e con i però, Follini ci pensa sopra e poi decide, ma prima lo chiama per lunghi aggiornamenti, e Casini si fida. “Hanno aspirazioni diverse – dicono nell’Udc – e vengono da correnti diverse, ma sono trent’anni che lavorano insieme e hanno ben chiaro il futuro del partito”. Adesso il futuro si gioca sulla “proposta” del proporzionale: “Non si tratta di eversione – fa sapere Follini – certo è una critica netta, ma politica, e come tale ha bisogno di una risposta politica, non di ministeri o di rimpasti”.
    Settanta parlamentari da rieleggere
    Per ora il punto è stato segnato dal segretario dell’Udc, che ha ottenuto con poco sforzo il rinvio del vertice di maggioranza (“Se non andiamo noi, non va nessuno” si compiacciono nel partito) e parecchia attesa intorno al documento che uscirà giovedì mattina dalla direzione nazionale: è certo il riferimento chiaro alla necessità del ritorno al proporzionale, molto meno certa la bocciatura esplicita della devolution –
    “L’Udc non può venir meno a un impegno che ha assunto in termini politici, seri e ufficiali” ha detto qualche spaventato deputato dell’Udc. Anche perché, e chissà se il segretario del partito ci ha pensato, nella sua “visione democratica e pluralista” della leadership, ci sono settanta parlamentari Udc eletti grazie alla Casa delle libertà. Garantirli se il premier desse quella “risposta positiva” alla richiesta di proporzionale, forse non sarà così semplice.

  7. #7
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    Predefinito Un'idea tutta nuova...

    ...la proporzionale

    Deludente, a dir poco. Il Marco Follini post elettorale s’annuncia dispettoso, supercilioso, banditore di idee velleitarie un tantino spompate.
    Del leader moderato abbiamo da sempre buona considerazione, sebbene di tanto in tanto si rida qui del suo birignao televisivo, ma avevamo capito che era deluso dal luna park della leadership berlusconiana e dalle celebri intemperanze della Lega, magari con delle riserve sui capricci di Giulio Tremonti e la legittima esigenza di avere un posto di influenza e di efficacia nel governo, non avevamo pensato che si era riconvertito al più puro pomicinismo, detto con rispetto per quel testardo campione di democristianità imperitura che è Geronimo.
    Ci sembrava che Follini il moderato e il riformista, soffiato come uno zucchero filato da Paolo Franchi in un celeberrimo pamphlet, avesse una nozione meno piatta e convenzionale, a proposito della recente storia politica italiana, di quella affidata ieri alle colonne di Repubblica. Tutti giuravano su una particolarità, l’essere stato Follini un democristiano serio e l’aver superato nell’esperienza personale della politica l’eterno ritorno dell’identico a suo tempo teorizzato dal maestro Arnaldo Forlani.
    Inorgoglito oltre misura da un interessante ma infine modesto successo elettorale, profumato dalle granite di gelso dell’anomalo circuito siciliano, il leader dell’Udc alla fine dei conti propone il correttivo proporzionale come salvezza del bipolarismo, ma che ci creda egli stesso è assai dubbio, e offre il vecchio tran tran corporativo nella politica economica e sociale.
    Dieci anni di massaggi berlusconiani possono far scoppiare qualsiasi ego, perché il Cav. è il classico alleato impossibile, e Dio sa quante gliene abbiamo dette in particolare sul suo rapporto disinvolto e prepolitico con gli alleati di coalizione.
    Ma gli alleati ci devono pure mettere del loro, se siano minimamente interessati al successo di una “cosa” comune, a tirar fuori questo paese dalle secche in cui si impantanò all’epoca in cui debito pubblico da sballo e magistrature d’assalto picconarono la democrazia repubblicana e i suoi partiti, finiti alla gogna mediatica e in manette. Un uomo colto e intelligente come Follini, e politicamente assai libero, dovrebbe fare uno sforzo di prefigurazione fondato sul realismo, e cercare di immaginare, se ci creda, una svolta e un rilancio della coalizione di cui fa parte che non sia il calco del vecchio centrismo democristiano.
    Sennò, che ha scritto a fare il suo libro sulla fine della Dc e che ha fatto a fare dieci anni di politica da questa parte della barricata? Se ha cambiato idea sul progetto originale, tutto si spiega, ma per favore, onorevole Follini, si spieghi.

    Ferrara sul Foglio del 30 giugno

    saluti

  8. #8
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    Predefinito Lavorare tutti, lavorare...

    ...di più, perchè no?

    Il vecchio slogan sindacale degli anni Settanta, caro soprattutto alla Cisl di Pierre Carniti – “Lavorare meno, lavorare tutti” – si sta gradualmente capovolgendo in tutta Europa.
    In Francia la legge sulle 35 ore adottata dal governo di Lionel Jospin ha allungato la durata dei weekend, ma non ha prodotto nuova occupazione, tanto che si sta pensando al suo superamento.
    In Germania, dove il sindacato metalmeccanico ha inserito nei contratti dei Laender occidentali l’orario ridotto a 35 ore, la Ig-Metall non ha centrato l’obiettivo di estendere questa normativa a quelli orientali, per il fallimento gli scioperi proclamati.
    Ora, di fronte alla minaccia della multinazionale elettronica Siemens di trasferire le produzioni di telefoni cellulari di due stabilimenti nell’Europa orientale, lo stesso sindacato ha accettato un aumento dell’orario a 40 ore settimanali per i prossimi due anni.
    La novità non è da poco, se si tiene conto che la Ig-Metall, il più grande sindacato di categoria d’Europa, ha un orientamento assai radicale, più o meno come la Fiom-Cgil in Italia.
    Il segretario Berthold Huber cerca di delimitare la portata dell’accordo, nega che rappresenti una svolta e ne sottolinea il carattere delimitato e aziendale.
    Ma la breccia ora aperta nel muro delle rigidità sindacali sembra destinata ad allargarsi. Le aziende industriali tedesche che hanno già spostato produzioni nell’Europa orientale prima dell’allargamento dell’Unione europea, ora che i vincoli sono caduti saranno ulteriormente incentivate.
    Il divario di costi derivante dalle rigidità contrattuali e dal livello salariale, fra una sponda e l’altra dell’Oder, rappresenta un’attrattiva irresistibile, per non parlare del trattamento fiscale più favorevole.
    In questa situazione la teoria sindacale che puntava a unificare diritti e retribuzioni in tutta l’Unione al livello più alto si dimostra puramente demagogica. Posti di lavoro e redditi alti si difendono lavorando meglio e di più.
    Quando la disoccupazione tedesca ha superato il 10 per cento, anche i duri della Ig-Metall se ne sono resi conto.

    e i nostri mollaccioni?

    saluti

  9. #9
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    Predefinito

    Roma. Nella corsa (e nelle rincorse) verso il Mezzogiorno quel che conta non è il ministero apposito, o la “struttura dedicata”, o la fiscalità differenziata, o l’attrattività aumentata.
    Quel che preme è il Mezzogiorno, e chi se lo piglia.
    Alleanza nazionale l’ha posto come problema principale della verifica di governo, e nel documento economico da poco stilato “il rilancio del Sud” ha grande spazio e molto peso, c’è una ricetta pronta che aspetta, cioè esige, di essere approvata, perché “solo così è possibile fare dell’Italia un sistema”.
    Luca Cordero di Montezemolo ha approvato il tutto, “perché si punta al rilancio”.
    L’Udc ha lanciato l’idea del ministero ad hoc, ma ieri ha genericamente chiesto una “profonda revisione economica e sociale”.
    Il sottosegretario al welfare Pasquale Viespoli, di An, ha detto al Foglio che “è necessario rompere la via del continuismo”, e per farlo “si può e si deve discutere con la Lega” ma, per carità, “noi non diciamo che fino ad ora è stato fatto un cattivo lavoro”.
    Non lo dicono, ma poi dicono che “Miccichè è inesistente, Miccichè è fuori gioco per qualunque ministero, Miccichè non è più quello del 61 a 0”.
    Miccichè deve aver già ingoiato e digerito gli attacchi e i bisbigli, perché non si scompone: “Sono contento di tutto questo interesse per il Sud, sicuramente c’è qualcuno che può fare meglio di quel che ho fatto io, e allora prego, si faccia avanti”. Veramente c’è la fila, e An al momento sta in cima alla lista perché, come ha detto Fabrizio Cicchitto, “l’Udc al Sud è il terzo partito, non avrà mai numeri per prendersi il Mezzogiorno”.
    Nel documento di An non si fa accenno a un ministero ad hoc perché, spiegano,“non è la ministerializzazione del sud quello che intendiamo”.
    Che cosa intendano esattamente, Miccichè giura di non saperlo: “Perché il documento io non l’ho visto: la collegialità è bella quand’è di tutti, e a oggi la delega per il Mezzogiorno ce l’ha Miccichè, che però non è stato minimamente interpellato”.
    La delega per il Mezzogiorno fa capo al Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione, voluto da Carlo Azeglio Ciampi nel 2001 dentro al ministero dell’Economia, e coordina l’attuazione in Italia del quadro comunitario di sostegno 2000-2006, attraverso il quale vengono utilizzate le risorse economiche dei fondi strutturali (i famosi 51 miliardi di euro sui quali la curva di spesa dovrebbe cominciare a impennarsi da adesso), analizza gli investimenti di Amministrazioni e soggetti che operano con finanziamenti pubblici e ne verifica l’attuazione, eroga finanziamenti secondo i progetti mandati dalle Regioni e, dice Miccichè “non si gestiscono quattrini, ma regole, indicazioni, perché ormai è tutto regionalizzato”.
    Le cose ottenute? “Il tasso di disoccupazione, sceso dal 21 per cento a sotto il 17 per cento, la crescita dei bandi di concorso dell’Anas, nel 2001 di 250 milioni di euro e nel 2003 di tre miliardi e mezzo di euro, la Palermo-Messina, che verrà inaugurata alla fine dell’anno, l’avvio potente della soluzione del problema idrico, i complimenti dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale per la rottura col passato e per l’utilizzo di tutti i fondi strutturali europei, che prima regolarmente si perdevano, il prodotto interno che da tre anni cresce al di sopra della media nazionale”. Adesso sono annunciati tagli che andranno a sforbiciare le risorse per gli incentivi alle imprese, nella manovra del governo, che dovrebbe aggirarsi sui sette miliardi di euro, tre dei quali riguardano il sud. E la legge 488, che sta molto a cuore agli imprenditori (e anche agli imprenditori sfaccendati) meridionali, traballa: “Nel bilancio del 2004 – spiega Ettore Artioli, responsabile di Confindustria per il Mezzogiorno – alle imprese vanno circa sei miliardi di euro. Di questi, circa i due terzi riguardano imprese meridionali”. La 488 filtra circa un miliardo e duecento milioni (e prevede per ogni incentivo una quota a fondo perduto più una forma di rimborso agevolato).
    Miccichè è contrario al fondo perduto, non gli piace la 488 e starebbe cercando di riformarla: “Abbiamo immaginato una legge più moderna con riduzione del finanziamento a fondo perduto, ma non l’abbiamo ancora illustrata a Confindustria e sindacati, coi quali però ci eravamo accordati per apportare modifiche”. Confindustria e sindacati assicurano che questa legge “va salvaguardata a tutti i costi” (anche se alcuni fondi giacciono inutilizzati), e che “gli incentivi alle imprese devono continuare fino al 2005, sennò si arresterebbe di colpo il sistema virtuoso che si è creato in questi anni”.
    Oggi, nel vertice di maggioranza, le modalità della rincorsa al Mezzogiorno si faranno più chiare e politiche.
    Da Forza Italia fanno sapere che “Berlusconi proverà fino all’ultimo a difendere le deleghe del viceministro, anche perché perdere il dipartimento sarebbe una deminutio ingiustificata”.
    In Alleanza nazionale già si pensa al dopo: “Una volta definito l’impianto, una volta definiti i contenuti, potrebbe esserci bisogno di una struttura dedicata, magari un ministero per lo Sviluppo”. Confindustria è contraria, sposa la linea di Guglielmo Epifani: “Un ministero ad hoc non sarebbe sufficiente a coprire questo colpevole disastro, sarebbe una scenografia di cartapesta per nascondere il deserto”, insiste Ettore Artioli.
    Miccichè alza le spalle e dice: “Oggi le garanzie sulle risorse ci sono. Domani, non so. Certo, se si tornasse alla Cassa per il Mezzogiorno originaria, quella del 1950, per il sud sarebbe la salvezza”. Forse.

    da il Foglio del 2 luglio

    saluti

  10. #10
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    Le elezioni europee non hanno segnato solo il centrodestra italiano (che anzi se l’è cavata assai meglio delle altre coalizioni al governo in Europa).
    Anche il dibattito post elettorale mostra tratti comuni, indipendentemente persino dall’orientamento politico.
    La polemica scoppiata tra il cancelliere Gerhard Schroeder e la Dgb, il potente sindacato socialdemocratico, ha molti punti di contatto, per esempio, con quella che contrappone Giulio Tremonti a Gianni Alemanno, ministro dell’agricoltura e leader della corrente di Destra sociale uscita rafforzata dalle urne.
    Il presidente del sindacato tedesco delle costruzioni, Klaus Wiesenhugel, sostiene che “chi abbassa le imposte e al tempo stesso riduce le prestazioni sociali non può aspettarsi la minima approvazione”. Il cancelliere risponde che le riforme di agenda 2010, riduzione delle tasse comprese, sono lo strumento indispensabile per far ripartire l’economia tedesca.
    La situazione nei due paesi è diversa: a vantaggio della Germania per la solidità dell’apparato produttivo; ma a vantaggio dell’Italia per la tendenza crescente dell’occupazione, che invece in Germania continua a erodersi.
    Ma la questione del carico fiscale, che è al centro della discussione, è simile.
    Schroeder ha chiesto, inutilmente, all’Unione di stabilire un livello di tassazione sotto cui non si può andare, perchè teme la concorrenza fiscale dei nuovi paesi membri; mentre Tremonti indica la riduzione delle tasse come condizione per attirare capitali in Italia.
    E’ evidente la sintonia fra i due ragionamenti.
    Ma a essi si oppone una visione “sociale” piuttosto statica, che parla di sviluppo ma resiste all’esigenza, inderogabile in un’economia aperta e globale, di promuoverlo lasciando più soldi in tasca ai cittadini.
    Così si scopre che al fondo del conservatorismo della Dgb c’è un’ispirazione primordiale di nazionalismo autarchico, così come Alemanno, che parte da una forte impronta nazionale e arriva a una concezione sociale rigida come quella della Dgb.
    Per l’uno e per gli altri sociale vuol sempre dire statale.

    alla luce dei fatti di ieri sera pare al momento vincente lo "statalismo" della vecchia destra.

    saluti

 

 
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