...Kerry

Ha notato ieri George Melloan nel Wall Street Journal che John Kerry combatté contro i vietcong con valore cinque mesi, cosa che rivendica come il suo principale titolo di merito in quanto candidato alla carica di commander in chief, ma poi tornato in patria combatté alcuni anni per l’obiettivo opposto, riportare a casa le truppe che cercavano di contenere l’avanzata armata del comunismo tonchinese e lasciare campo libero al generale Giap. Di che cosa è veterano il candidato democratico alla Casa Bianca, dipinto spesso come un politico opportunista che fa flip-flop su ogni tema strategico, della guerra o del pacifismo?
Il giudizio è forse brusco e ingeneroso sul piano morale, perché si può ben essere patrioti in divisa (giusto o sbagliato, è il mio paese) e pacifisti nella vita civile, ma resta curiosa una Convention che si scortica le mani per l’imboscato Bill Clinton e tributa un trionfo marziale al veterano di due campagne, quella contro Giap e quella a suo favore.
A parte il sapore della questione sul piano del senso comune, che mostra nei sondaggi di percepire con qualche diffidenza la volatilità dello sfidante di Bush, c’è un problema storico che riguarda la cultura e l’impostazione dei democratici nella politica estera e di sicurezza dell’America, chiave della sua identità.
Per quanto si sforzino di mettersi addosso i panni del combattente e cerchino di trasformare le loro manifestazioni in parate militari (“I’m John Kerry, reporting for duty”), consapevoli che il paese più forte dell’occidente è in guerra contro il terrorismo, i democratici restano invariabilmente figli delle grandezze e delle miserie del Dipartimento di Stato e della sua organica cultura dello status quo, diventata nel tempo, e in particolare dopo l’11 settembre, una grottesca parodia della dottrina del containement di George Kennan, anni Quaranta e Cinquanta.

Domenica scorsa, recensendo un libro sulla fine della guerra fredda scritto dall’ex ambasciatore di Reagan a Mosca, il presidente della molto rispettata e molto liberal Brookings Institution, il democratico Strobe Talbott, ha cercato di dimostrare nel New York Times che Reagan era il diplomat in chief degli Stati Uniti, che il suo flirt con Gorbaciov escludeva ogni prospettiva di cambiamento di regime a Mosca, e che aveva piena fiducia nella rivoluzione democratica e riformista dell’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica.
Il prezzo di queste tesi vagamente surreali è risultato però piuttosto salato: Talbott ha dovuto cancellare dalla sua analisi (o nascondere) i missili di teatro in Europa, lo scudo stellare, i finanziamenti a Solidarnosc, la spericolata campagna armata in Afghanistan a fianco di Osama bin Laden contro l’invasione sovietica, e quella frase di Ronnie destinata a restare famosa:
“Signor Gorbaciov, tiri giù questo muro”.
Con queste premesse non sarà una passeggiata il tentativo di Kerry di risalire la china della credibilità come comandante in capo, nonostante gli errori o le incertezze del suo avversario.

saluti