Marco Rizzo: Perchè è successo? Dalla fine di questa sinistra una critica alla politica, per una nuova fase di riscossa. Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte.
I Comunisti per una Sinistra Popolare
Scritto da Marco Rizzo
Dalla relazione di Marco Rizzo tenuta a Roma 24 ottobre 2009 in occasione della Presentazione Nazionale di "Comunisti - Sinistra Popolare"
Perchè è successo? Dalla fine di questa sinistra una critica alla politica, per una nuova fase di riscossa. Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte. I Comunisti per una Sinistra Popolare. Queste sono le domande ed i propositi da cui ripartire. Da tempo abbiamo svolto questi punti di riflessione con una critica della politica attuale. Il progetto di Comunisti Sinistra Popolare nasce appunto non come l’ennesimo partitino, ma invece con l’ambizione di rilanciare l’idea comunista in termini moderni e costituenti per tornare ad avere una sinistra riconosciuta da tutto il popolo. Siamo coscienti delle difficoltà, ma proprio questa consapevolezza ci consente, a differenza di altri, di non avere fretta, di non essere “ingabbiati” dalle scadenze elettorali. Nel “toccare il fondo” la polverizzazione dei comunisti e della sinistra ha e avrà bisogno di un punto saldo di analisi e di progetto organizzativo. Comunisti Sinistra Popolare vuole contribuire a costruire la “massa critica” sufficiente per portare a termine questo progetto ambizioso per poi sciogliersi –assieme a tutti gli altri- nella costruzione di un soggetto politico unitario dei comunisti, condizione essenziale per tornare ad avere una vera sinistra al servizio dei lavoratori in questo Paese.
Questa è un’epoca di mutamenti complessi e profondi. Forse non c’è stato mai un altro periodo che abbia concentrato in così poco tempo un così alto tasso di mutamenti tecnologici, delle culture, della comunicazione e dello stesso “senso comune” della vita sociale. Il futuro appare meno prevedibile, e questo accade principalmente nei paesi e per i popoli più ricchi, quelli cioè con forti tradizioni e plausibili certezze: in sostanza nell’occidente industrializzato, ma in particolar modo l’Europa e di certo l’Italia. La globalizzazione capitalistica è il frutto di decisioni economiche e politiche internazionali relative alla liberalizzazione dei mercati e agli investimenti transnazionali; in verità esiste da sempre come tentativo di concentrare sempre di più il comando del capitalismo, ma se nel passato più recente i processi produttivi avevano una base sostanzialmente nazionale, oggi la “produzione totale” è stata allocata a livello planetario, costruendo una nuova classe con una unica dimensione, quella internazionale.
In Europa dopo l’89, questo è avvenuto con la delocalizzazione produttiva principalmente verso Est. Di fronte al dispiegarsi delle contraddizioni economiche, sociali ed ambientali che emergono nel mondo, le politiche nazionali hanno evidenziato tutta la loro debolezza. Questi mutamenti hanno modificato profondamente le condizioni di classe, tanto più nell’Occidente, provocando cesure nette non solo nel confronto tra materialità e forma del lavoro, ma anche nella percezione dell’identità e della coscienza di classe stessa. Li vediamo tutti i ragazzi a “partita Iva” con la giacca e la cravatta, a pensar di esser nuovi imprenditori e a non vedere soluzione per il livello di sfruttamento senza diritti cui sono sottoposti.
E’ proprio dentro questo contesto che in Italia si è concretizzata la fine della sinistra in termini ideali e culturali prima, politici e di rappresentanza poi. Da tempo ormai nel nostro Paese è l’economia che detta le regole e definisce il contesto a tutto e a tutti. In una società in cui trionfano solamente la competitività, la primitiva legge del mercato e l’esaltazione del vincente, non ci si può poi stupire se la destra trionfa. Perchè i lavoratori e gli strati più deboli della popolazione non solo non votano più a sinistra ma tra loro hanno perso di credibilità le stesse opzioni anticapitaliste e comuniste?
Alla fine degli anni ‘60 gli operai arrabbiati nei confronti di una sinistra forte ma ancora “tiepida” verso di loro e nei confronti di un sindacato presente ma non sufficientemente battagliero, obbligarono entrambi a diventare decisamente più combattivi. Arrivò infatti la stagione dell’ “autunno caldo”e del “potere operaio”, che tante conquiste sociali e civili portò. Oggi invece tra la “nostra gente” l’amarezza è tale che interi settori di proletariato si sentono perduti e si aggrappano non a possibili soluzioni del loro profondo disagio, ma a disvalori e stili di vita che li “consolano” artificialmente: identità territoriale, sicurezza, individualismo e demonizzazione del diverso. I ragazzi delle periferie incamerano subito questo concetto: chi perde è perduto, contano i soldi e conta solo farli, non importa in che modo, in alternativa eventualmente conta il sembrare forti e spietati; così si hanno delle nuove generazioni che si dividono tra il “rampantismo” per pochi ed il “bullismo” e la pratica del “branco” per molti. Una violenza fine a sè stessa assume nelle periferie improbabili rituali nazifascisti, ma alla fine, tutti tornano col cellulare ultimo modello nelle loro case fatiscenti ai margini delle città, miseri appartamenti con tre televisori sempre accesi, nessun libro e soprattutto nessuna solidarietà e nessuna socialità. Falsi miti di un “arianesimo straccione” che producono disvalori e arroganze, angosce e miseria. E’ fortemente necessario “strappare” ai neofascisti le nuove generazioni delle periferie. Se è vero che questi gruppi non hanno leadership particolarmente forti, si potrebbero sempre configurare come “camicie brune” da spazzare via al momento giusto, per farne prendere in eredità i manipoli a qualche potere forte. A nessuno deve essere consentito di consumare una nuova generazione nella vecchia pratica degli “opposti estremismi” invece che nella lotta al capitale!
I ragazzi che fanno la celtica sui muri o salutano col braccio teso hanno spesso le facce dei nuovi proletari, certo si sentono ribelli, altrettanto certamente sbagliano i bersagli. Dovremmo avere un linguaggio nuovo per sottrarli ai loro cattivi maestri.
Hanno cominciato a far politica allo stadio, pensano che i politici si occupino solo dei loro affari, è mai possibile che non possiamo strapparli alle teorie elitarie di Evola o ai superomismi di Nietzsche. Saranno ben in antitesi con i pensatori delle vecchie e nuove aristocrazie? Per questo possiamo e dobbiamo “competere” contro i “fasci” per far sì che i giovani proletari tornino ad approdare alla “parte giusta”. La lotta per una nuova identità di classe deve porsi anche questi obbiettivi.
La globalizzazione capitalistica comporta da parte dei poteri forti - finanza, élites economiche e politiche, comunicazione - il totale abbandono dei territori di periferia, di quasi l’intero Mezzogiorno e di tutte le comunità proletarie; e mentre questi limiti e contraddizioni si manifestano, la competizione interimperialistica si evidenzia nella instabilità internazionale e nella guerra, intesa appunto come unico “mezzo” per risolvere le controversie politiche. E dentro questi processi, la sinistra dov’era e dov’è? Ora più che stordita non esiste quasi più. Purtroppo inseguiva il “nuovismo”. ed in questo profondo processo di sradicamento, invece di riconquistare i territori abbandonati a se stessi, invece di ricompattare le comunità distrutte, si è al contrario impegnata ad apparire moderna, liberal e non violenta. Sí! Era contro la globalizzazione, ma guai ad apparire anche un poco critica nei confronti del processo d’integrazione europeo. Sì! Era contro la guerra, ma mai contro fino in fondo alle cosidette ”missioni di pace” dei governi di centrosinistra. Una sinistra che si è in sostanza appiattita sui comodi privilegi istituzionali e sui proclami astratti per i diritti borghesi, piuttosto che impegnarsi rivendicando obiettivi sociali nella vita quotidiana.
Le sezioni del partito comunista a Torino e al Nord, durante i fenomeni migratori interni degli anni ‘60 e ‘70, diventarono luoghi di nuova comunità e organizzazione per quei contadini tolti al Mezzogiorno; erano i tempi in cui si urlava: “Nord e Sud uniti nella lotta”. Così come le sezioni dello stesso partito, durante gli spaventosi terremoti che colpirono il Friuli e l’Irpinia, misero in moto una straordinaria macchina di aiuto e di solidarietà, così come ancora quella forma della militanza interveniva concretamente in ogni meandro di lotta: dal territorio metropolitano alle aride campagne. L’Abruzzo è stato abbandonato al circo mediatico di Berlusconi e quel poco che di “generoso” è stato messo in campo dalla nostra parte non è stato neanche valorizzato a sufficienza.
Oggi ci si indigna a parole, e sempre meno, contro il lavoro che non c’è e che uccide, il precariato e la xenofobia, mentre ci sarebbe bisogno di risposte realmente alternative che coinvolgano di nuovo la “nostra gente”, costruiscano forme di solidarietà ed anche reti organizzative. I fascisti e la destra fanno le “ronde”, danno risposte inefficaci e repellenti, ma la sinistra cosa propone? Pensare ai diritti per la costruzione di una moschea va bene, ma non basta! Sarebbe meglio costruire coscienza dei diritti sindacali e di classe degli immigrati, aiutare la loro trasformazione da individui a nuovi soggetti del conflitto. Solo cosi diventerebbero parte di noi e non altro da noi.
L’accoglienza è una nobile pratica dei cattolici, i comunisti devono in più stabilire un rapporto strategico con gli immigrati sfruttati. Il capitalismo è cambiato e ha cambiato il mondo e l’Italia; purtroppo non ci si accorge di avere ormai un “terzo mondo interno”, così come ci si dimentica della teoria attualissima “dell’esercito industriale di riserva” che oggi, a differenza del passato, ha un altro colore della pelle. Apriamo le nostre ormai rare sezioni, trasformiamole in luoghi di lotta, di solidarietà, di cooperazione sociale perchè è da questi “buchi” nelle periferie che è nata la crisi della rappresentanza democratica della sinistra e dei comunisti.
Ci fosse stata una progettualità simile non si sarebbe persa Roma, e invece hanno ripresentato e, accettato di far ripresentare, il “replicante” Rutelli, dentro un modello di piccoli privilegi del ceto politico della sinistra da una parte ed un modello di comando sulla città, fondato in alleanza con i costruttori edili e la speculazione finanziaria, dall’altra. I recenti fatti della Capitale, con da una parte la criminalizzazione del movimento per l’occupazione delle case e dall’altra con la “scoperta” di finanziamenti dei costruttori ai partiti della cosiddetta sinistra radicale, sono il segno di una ulteriore degenerazione Le notti bianche e la festa del cinema non hanno dato certo risposte alle periferie, le cui condizioni di vivibilità sono state cancellate in termini di devastazione lavorativa, ambientale, psichica e individuale. Nel dopoguerra il forte limite che veniva contrapposto al capitalismo era la resistenza organizzata da parte del movimento operaio che si manifestava attraverso lotte e conquiste ed anche con un “senso comune” fortemente identitario pure nella vita quotidiana. Il partito comunista, il sindacato ed i movimenti costituivano forme diverse di rappresentanza che avevano il compito di salvaguardare e consolidare la forza dei lavoratori, unica trincea della società contro la violenza del capitale.
L’evoluzione del capitalismo, unita alla contraddittoria caduta del “campo socialista” e al “tradimento” del ceto politico della sinistra, ha provocato una resa della capacità contrattuale del mondo del lavoro ed ha consentito l’affermarsi di una forma di “dittatura” del capitale: la logica del profitto non deve più rispettare alcuna legge, non vi è nulla che possa contenerla. La precarietà è diventata l’unica forma di lavoro in quanto il capitale non ha più bisogno di contrattare alcunché (vedi la fine del contratto nazionale di lavoro, in effetti non contrastata dalla maggioranza della Cgil), mentre l’intera scena istituzionale si sta ormai completamente americanizzando con partiti oligarchici e plebiscitari, come vaticinava il boss della P2 Licio Gelli. Questo avviene anche perchè negli ultimi quindici anni, la “sinistra” ha potuto governare più volte (ed era magari anche giusto provarci, tanto quanto è giusto oggi fare una netta autocritica su quelle scelte) ma il risultato è stato che ogni volta che lo ha fatto, ha saputo solo continuare l’azione della destra, diminuendo ogni difesa sociale, per rendersi strumento di sottomissione al profitto. E’ successo due volte nell’Italia di Prodi, così come nella Gran Bretagna di Blair e nella Germania di Schroeder.
Dal 1945 in poi, nel nostro Paese, la società e la politica avevano creato modelli non del tutto sottomessi allo sfruttamento, purtroppo nell’ultimo periodo il ceto politico della sinistra ha svenduto sempre di più queste caratteristiche in cambio di qualche piccolo potere e di qualche grande privilegio individuale. E ancora oggi la gente si chiede perché i litigi siano così accesi tra simili (abbiamo visto le “botte” vere al congressino dei Verdi), la risposta è chiara e triste: semplicemente ci si accapiglia perché si vuole ancora qualche briciola di potere, per qualche “strapuntino” concesso a chi si adegua… “Democrazia vuol dire potere agli operai” recitava uno slogan dei primi anni ‘70, quando i rapporti di forza nella società parevano volgere al meglio per le classi proletarie.
Era una formula un pò rozza, ma in realtà rendeva bene il senso della richiesta: la democrazia è il luogo in cui i lavoratori possono scontrarsi contro il capitale contando su proprie forze organizzate, e al tempo stesso la società può conservare una relativa autonomia rispetto all’economia predatoria del profitto.
Per troppo tempo non abbiamo più potuto né scegliere né identificare la destra e la sinistra in rapporto al capitale e al lavoro, e per quale motivo dovremmo ora, parlando della ricostruzione, non attenerci rigorosamente a idee, a contenuti e a forme organizzate che tengano conto di questa durissima lezione? Perché dovremmo rimpiangere questa sinistra, che quando era al governo (pensiamo agli ultimi due anni del governo Prodi con oltre un centinaio di deputati e senatori comunisti e della sinistra radicale) non ha saputo eliminare neppure una delle leggi berlusconiane, né ha saputo impedire il massacro sociale del TFR, del Welfare e delle pensioni? Per non parlare poi della subordinazione atlantica ed europea alle guerre imperialiste! Perchè dovremmo ricostruire una sinistra e ancor di più un nuovo partito comunista se non partendo dall’analisi degli errori del passato? Per questo bisogna non costruire un nuovo ceto politico autorappresentativo, del quale più nessuno avverte il bisogno, ma una nuova struttura di resistenza e attacco al servizio delle nuove classi proletarie.
Oggi il lavoro è in frantumi ed in più i lavoratori sono diventati una merce come le altre. Dove una volta c’era un’azienda con un unico contratto sindacale, oggi c’è ne sono dieci, dal part-time al lavoro interinale. Dove una volta c’erano i settori produttivi, dall’agricoltura al terziario, oggi esiste una “mucillaggine” produttiva. Il lavoro frantumato non è politicamente né visibile né percepibile.
Questa è invece la visione ideologica e identitaria tra vecchi e nuovi lavori che bisogna ristabilire.
Fare una dura critica ai “lavoratori ridotti merce” significa parlar chiaro e cioè ricordare ai legislatori, sia di centrodestra che di centrosinistra, che se un automobile o un frigorifero si possono sostituire o rottamare, così non si può fare con le persone in carne ed ossa. Cosa che purtroppo avviene nelle leggi e nelle relazioni sindacali che informano oggi il mondo del lavoro. La difesa dei lavoratori oggi si è drasticamente ridotta e non è un caso se situazioni di crisi generano forme di lotta “estreme” come il salire su una ciminiera od incatenarsi ai cancelli. Ha un bel dire Cofferati quando segnala la sua contrarietà a queste forme di lotta perché deleggittimano il sindacato; è vero il contrario, queste lotte ci sono perché putroppo il sindacato ha smarrito la sua funzione. Si tratta di costruire un “filo rosso” che colleghi tutte le situazioni di lavoro; alla politica spetta la capacità di offrire un “fuoco” intorno a cui costruire, per unire la ricchezza di esperienze, di rappresentanza sociale e di movimento che le contraddizioni odierne del mondo del lavoro fanno emergere con grandi potenziali di lotta; al sindacalismo spetta la rappresentanza dei lavoratori e del conflitto e quindi diventa fondamentale un impegno decisivo sulla rappresentanza sindacale basato anch’esso sul principio “una testa, un voto”, con buona pace di un certo sindacalismo confederale teso solo a garantire la propria riproduzione. Dentro questa dinamica si inserisce la nostra proposta di una Iniziativa di legge popolare “contro il lavoro precario, per l’estensione delle garanzie dei lavoratori e per l’istituzione di un fondo straordinario contro la disoccupazione” che presentiamo in questa occasione e che da qui inizia la distribuzione operativa dei moduli per la raccolta delle firme, con questa presentazione politica:
“La situazione drammatica del lavoro all’interno di una crisi sociale di carattere strutturale, oggi è segnata dalla mancanza praticamente totale di diritti, di assoluta precarietà e da un concerto culturale, politico e legislativo che rende i lavoratori stessi alla stregua di una semplice merce. Risulta evidente che solo una azione complessiva può ridare voce e rappresentanza ad una classe sempre più estesa di sfruttati senza alcun futuro. Riteniamo che uno dei punti di attacco più efficaci possa essere quello dello strumento dell’iniziativa di legge popolare. Consente infatti di attivare iniziativa politica e lotta sul territorio e nei luoghi di lavoro e di studio, mantenendo alto il confronto sul merito della lotta alla precarietà ed alla disoccupazione. Proprio sul merito vogliamo dire apertamente che la precarizzazione odierna di ogni forma di lavoro, anche quelle più professionali ed intellettuali, è ormai inaccettabile e che solamente una profonda rottura -appunto politica, culturale e legislativa- potrà fermare questa deriva. Contro la precarietà diffusa vogliamo rompere quello che appare un dato immutabile dello status-quo precario e flessibile, contrapponendovi l’antica ma efficace idea del “posto fisso”. Questa iniziativa ha certamente un aspetto provocatorio, ma è concretamente realizzabile con rapporti di forza sociali e politici diversi da quelli di oggi. Siamo di fronte “all’uovo di Colombo”, ma da qualche parte bisogna pur ripartire, e la rottura del binomio “compatibilità/senso di responsabilità” crediamo sia il punto su cui forzare. Ad esempio, non è forse abbastanza incompatibile ed irresponsabile una situazione in cui giovani laureati con il massimo dei voti facciano master a 500 euro al mese, per esser poi sfruttati di nuovo con altri inutili stages sempre con “salari da fame”? Già li sentiamo i “soloni” dell’esthablisment economico, politico e sindacale pontificare sulla irrealizzabilità della proposta, asserendo che il ritorno al lavoro a tempo indeterminato per tutti e la fine della precarietà produrrebbero ulteriore crisi alle imprese e quindi addirittura maggiore disoccupazione. A tal fine abbiamo voluto rispondere richiamandoci all’intervento pubblico con una compensazione sugli effetti occupazionali mediante la proposta di un Fondo Straordinario contro la Disoccupazione. Una proposta che certamente richiede il recupero di ingenti risorse pubbliche, non recuperabili attraverso l’aumento della normale tassazione, ma grazie ad un piano di attacco al capitale finanziario speculativo. In sostanza, un provvedimento legislativo di classe che sarebbe un beneficio per l’intera popolazione italiana che vive del proprio lavoro. Molti, sfibrati dalla sbornia liberista di questi anni, sfiduciati dalla mancata rappresentanza parlamentare dei partiti della sinistra, sarebbero oggi “disponibili” a battersi, non avendo ormai più nessun argine normativo che li difenda. Si tratta di “osare” dal punto di vista politico e culturale, serve coraggio anche nelle scelte legislative proponibili. L’iniziativa questa volta parte “dal basso”, a maggior ragione dopo il fallimento della partecipazione ai governi di centro sinistra nella difesa degli strati popolari. Contro l’idea della precarietà e della flessibilità, cara solo ai poteri forti ed ai loro servi sciocchi, rilanciamo l’esigenza del “lavoro fisso come diritto inalienabile”. Su questo terreno di iniziativa auspichiamo una forte tensione unitaria dei singoli e dei soggetti politici e di movimento.”
Anche in questo modo, concreto e partecipativo, riprendiamo in pugno la grande idea del cambiamento per un nuovo inizio. Finchè si farà politica ,o più semplicemente si andrà a votare ( come diceva Karl Popper), per soddisfare le individualità, vincerà sempre la destra o prevarrà una falsa sinistra, perché il mestiere della destra è “parlare al ventre delle persone e dare voce agli egoismi”. Quando invece si tornerà a militare per il “bene comune”, per la collettività e quindi per una idea, la politica di una vera sinistra potrà tornare se non a vincere almeno a combattere e ad appassionare. Per questo serve attaccare duramente chi, specie a sinistra, continua con l’elogio del libero mercato.
Qui in Italia chi lo fa non si accorge neanche che così non si selezionano neanche i migliori, anzi è quasi regola il contrario. Basti vedere le elites delle professioni prive di ogni mobilità sociale (se sei figlio di un operaio farai l’operaio, se sei figlio di notaio seguirai la professione paterna). Addirittura nel Mezzogiorno ed in altre parti del Paese esiste una sorta di società “al contrario” dove sono puniti gli onesti e premiati i delinquenti.
Insomma vorremmo fare una critica vera alla politica. Alla politica che abbiamo conosciuto e frequentato negli ultimi ventanni. Oggi la politica sta alla società come un motore che gira “in folle” sta ad un automobile. La politica serve a sé stessa, la politica è diventata un esercizio totalmente scollegato dalle dinamiche e dagli stessi rapporti di forza che si esercitano nella quotidianità. La politica è diventata un mestiere, un mestiere come un altro, con le sue competenze e la sua mobilità da un luogo ad un altro. Praticamente non esiste più, neanche a sinistra, neanche nei partiti che si definiscono ancora comunisti, una “coerenza” di rappresentatività rispetto alle classi sociali di riferimento.
I comportamenti non sono più dettati da strategie e tattiche ma solo da limitatissimi orizzonti individuali, questo provoca il disastro del “sono tutti uguali” e neutralizza in larga parte i tentativi di ricostruzione. In tale contesto è chiaro che a prevalere sono le politiche che puntano a mantenere inalterati i rapporti di forza nella società ( o a sfruttarli ulteriormente a loro favore). Un capitalismo globalizzato che non riesce a vedere i propri limiti in quanto responsabile del collasso ambientale del pianeta. Una sorta di “comunismo salvatore” si imporrà prima o poi per la sopravvivenza, perché il pianeta ha dei limiti, le sue risorse non sono infinite.
Questa consapevolezza è uno dei motivi innovativi che anima la “rinascita” del continente latino-americano. Seguendo la irriducibile lotta di Cuba e della rivoluzione castrista, le classi dirigenti di larga parte di quelle immense terre hanno scelto il socialismo del XXI secolo, da Chavez a Morales, passando per Correa sino a Lula, sono tutti impegnati in questo coraggioso processo di emancipazione dagli USA e dal famelico e distruttivo modello di sviluppo yankee, che oggi si confronta con la sfida tutta interna di un Obama che ha una capacità di reale trasformazione inversamente proporzionale alla sua immagine mediatica. Non sarà un caso che il golpe fascista in Honduras, (in Italia completamente oscurato dalla cosidetta “stampa libera”) è stato il primo segnale in America latina dell’era Obama. Tornando alla nostra storia, alla storia italiana, qualcuno continua a dire che il PCI divenne più grande quando abbandonò il carattere ideologico a favore di quello programmatico. Sarà anche vero in parte, ma erano altri tempi, con altri rapporti di forza e poi chi ci dice che il disastro di oggi non nasca anche da lì, cioè da quando le anticipazioni della cosiddetta “contaminazione” della Bolognina favorirono la quasi integrale sostituzione dei quadri dirigenti di origine proletaria provenienti dalla Resistenza con personaggi figli della borghesia ? E poi ancora sempre guardando al passato, il progressivo appannarsi della diversità comunista ed il graduale inserimento del PCI nella logica del “sistema dei partiti” aprirono la strada, tra il 1976 ed il 1979, con i governi di “unità nazionale” e con la “linea sindacale dell’Eur”, al consolidarsi della “mutazione genetica” di quel partito. Non sarà un caso che quelle vicende siano state vissute come un “tradimento” da parte di coloro che il 15 giugno 1975 (data della conquista delle grandi città: Torino, Roma e Napoli ebbero per la prima volte un sindaco comunista) si erano accostati per la prima volta al PCI.
Lo storico Giorgio Galli scrisse su quel periodo: ”…in quel periodo, la scelta astensionistica rispetto al governo da parte del PCI – ambigua e deludente comunque la si voglia considerare – avvenne proprio mentre fervevano spinte innovative nella società italiana, che proprio il voto delle amministrative del 1975 e le politiche del 1976 aveva confermato. Tale vicenda saldò la frustrazione della base PCI a quella dei militanti della nuova sinistra senza peraltro”recuperare” i gruppi conservatori (per i quali il ruolo del PCI non può che essere all’opposizione e mai essere legittimato a governare né a partecipare ad una qualsiasi forma di maggioranza parlamentare)”. Chissà quanto questo avrà pesato nell’adesione giovanile quasi di massa al fenomeno del terrorismo di sinistra. E’ altamente probabile che i margini concessi dal Kejnesismo alle politiche redistributive del PCI si siano bruscamente ridotti per poi scomparire del tutto con l’arrivo delle nuove tecnologie e, soprattutto, con il neoliberismo che non sopporta più neanche la benché minima politica di riformismo sociale. Non sarà un caso se nel decennio che va dal 1968 al 1977 i forti movimenti cercarono, con un forte scontro sociale, di ritardare quell’ondata di privatizzazioni e di liberismo che, in Italia, giunse almeno con una decina di anni in ritardo rispetto alla totalità degli altri paesi europei. Negli anni a venire venne distrutto, mattone dopo mattone, pezzo dopo pezzo, ogni bastione di idealità e di passione politica. Anche i simboli lasciarono il posto ai nuovi totem del pragmatismo e della governance. Infatti per tornare ai tempi del “nuovismo” nel PCI, periodi in cui molti hanno lavorato per schiantare ogni barlume di identità proletaria e popolare, da allora ad oggi, la strada in negativo è stata tutta percorsa.
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