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    Predefinito Marco Rizzo: Perchè è successo?

    Marco Rizzo: Perchè è successo? Dalla fine di questa sinistra una critica alla politica, per una nuova fase di riscossa. Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte.

    I Comunisti per una Sinistra Popolare



    Scritto da Marco Rizzo

    Dalla relazione di Marco Rizzo tenuta a Roma 24 ottobre 2009 in occasione della Presentazione Nazionale di "Comunisti - Sinistra Popolare"
    Perchè è successo? Dalla fine di questa sinistra una critica alla politica, per una nuova fase di riscossa. Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte. I Comunisti per una Sinistra Popolare. Queste sono le domande ed i propositi da cui ripartire. Da tempo abbiamo svolto questi punti di riflessione con una critica della politica attuale. Il progetto di Comunisti Sinistra Popolare nasce appunto non come l’ennesimo partitino, ma invece con l’ambizione di rilanciare l’idea comunista in termini moderni e costituenti per tornare ad avere una sinistra riconosciuta da tutto il popolo. Siamo coscienti delle difficoltà, ma proprio questa consapevolezza ci consente, a differenza di altri, di non avere fretta, di non essere “ingabbiati” dalle scadenze elettorali. Nel “toccare il fondo” la polverizzazione dei comunisti e della sinistra ha e avrà bisogno di un punto saldo di analisi e di progetto organizzativo. Comunisti Sinistra Popolare vuole contribuire a costruire la “massa critica” sufficiente per portare a termine questo progetto ambizioso per poi sciogliersi –assieme a tutti gli altri- nella costruzione di un soggetto politico unitario dei comunisti, condizione essenziale per tornare ad avere una vera sinistra al servizio dei lavoratori in questo Paese.

    Questa è un’epoca di mutamenti complessi e profondi. Forse non c’è stato mai un altro periodo che abbia concentrato in così poco tempo un così alto tasso di mutamenti tecnologici, delle culture, della comunicazione e dello stesso “senso comune” della vita sociale. Il futuro appare meno prevedibile, e questo accade principalmente nei paesi e per i popoli più ricchi, quelli cioè con forti tradizioni e plausibili certezze: in sostanza nell’occidente industrializzato, ma in particolar modo l’Europa e di certo l’Italia. La globalizzazione capitalistica è il frutto di decisioni economiche e politiche internazionali relative alla liberalizzazione dei mercati e agli investimenti transnazionali; in verità esiste da sempre come tentativo di concentrare sempre di più il comando del capitalismo, ma se nel passato più recente i processi produttivi avevano una base sostanzialmente nazionale, oggi la “produzione totale” è stata allocata a livello planetario, costruendo una nuova classe con una unica dimensione, quella internazionale.

    In Europa dopo l’89, questo è avvenuto con la delocalizzazione produttiva principalmente verso Est. Di fronte al dispiegarsi delle contraddizioni economiche, sociali ed ambientali che emergono nel mondo, le politiche nazionali hanno evidenziato tutta la loro debolezza. Questi mutamenti hanno modificato profondamente le condizioni di classe, tanto più nell’Occidente, provocando cesure nette non solo nel confronto tra materialità e forma del lavoro, ma anche nella percezione dell’identità e della coscienza di classe stessa. Li vediamo tutti i ragazzi a “partita Iva” con la giacca e la cravatta, a pensar di esser nuovi imprenditori e a non vedere soluzione per il livello di sfruttamento senza diritti cui sono sottoposti.

    E’ proprio dentro questo contesto che in Italia si è concretizzata la fine della sinistra in termini ideali e culturali prima, politici e di rappresentanza poi. Da tempo ormai nel nostro Paese è l’economia che detta le regole e definisce il contesto a tutto e a tutti. In una società in cui trionfano solamente la competitività, la primitiva legge del mercato e l’esaltazione del vincente, non ci si può poi stupire se la destra trionfa. Perchè i lavoratori e gli strati più deboli della popolazione non solo non votano più a sinistra ma tra loro hanno perso di credibilità le stesse opzioni anticapitaliste e comuniste?

    Alla fine degli anni ‘60 gli operai arrabbiati nei confronti di una sinistra forte ma ancora “tiepida” verso di loro e nei confronti di un sindacato presente ma non sufficientemente battagliero, obbligarono entrambi a diventare decisamente più combattivi. Arrivò infatti la stagione dell’ “autunno caldo”e del “potere operaio”, che tante conquiste sociali e civili portò. Oggi invece tra la “nostra gente” l’amarezza è tale che interi settori di proletariato si sentono perduti e si aggrappano non a possibili soluzioni del loro profondo disagio, ma a disvalori e stili di vita che li “consolano” artificialmente: identità territoriale, sicurezza, individualismo e demonizzazione del diverso. I ragazzi delle periferie incamerano subito questo concetto: chi perde è perduto, contano i soldi e conta solo farli, non importa in che modo, in alternativa eventualmente conta il sembrare forti e spietati; così si hanno delle nuove generazioni che si dividono tra il “rampantismo” per pochi ed il “bullismo” e la pratica del “branco” per molti. Una violenza fine a sè stessa assume nelle periferie improbabili rituali nazifascisti, ma alla fine, tutti tornano col cellulare ultimo modello nelle loro case fatiscenti ai margini delle città, miseri appartamenti con tre televisori sempre accesi, nessun libro e soprattutto nessuna solidarietà e nessuna socialità. Falsi miti di un “arianesimo straccione” che producono disvalori e arroganze, angosce e miseria. E’ fortemente necessario “strappare” ai neofascisti le nuove generazioni delle periferie. Se è vero che questi gruppi non hanno leadership particolarmente forti, si potrebbero sempre configurare come “camicie brune” da spazzare via al momento giusto, per farne prendere in eredità i manipoli a qualche potere forte. A nessuno deve essere consentito di consumare una nuova generazione nella vecchia pratica degli “opposti estremismi” invece che nella lotta al capitale!

    I ragazzi che fanno la celtica sui muri o salutano col braccio teso hanno spesso le facce dei nuovi proletari, certo si sentono ribelli, altrettanto certamente sbagliano i bersagli. Dovremmo avere un linguaggio nuovo per sottrarli ai loro cattivi maestri.

    Hanno cominciato a far politica allo stadio, pensano che i politici si occupino solo dei loro affari, è mai possibile che non possiamo strapparli alle teorie elitarie di Evola o ai superomismi di Nietzsche. Saranno ben in antitesi con i pensatori delle vecchie e nuove aristocrazie? Per questo possiamo e dobbiamo “competere” contro i “fasci” per far sì che i giovani proletari tornino ad approdare alla “parte giusta”. La lotta per una nuova identità di classe deve porsi anche questi obbiettivi.

    La globalizzazione capitalistica comporta da parte dei poteri forti - finanza, élites economiche e politiche, comunicazione - il totale abbandono dei territori di periferia, di quasi l’intero Mezzogiorno e di tutte le comunità proletarie; e mentre questi limiti e contraddizioni si manifestano, la competizione interimperialistica si evidenzia nella instabilità internazionale e nella guerra, intesa appunto come unico “mezzo” per risolvere le controversie politiche. E dentro questi processi, la sinistra dov’era e dov’è? Ora più che stordita non esiste quasi più. Purtroppo inseguiva il “nuovismo”. ed in questo profondo processo di sradicamento, invece di riconquistare i territori abbandonati a se stessi, invece di ricompattare le comunità distrutte, si è al contrario impegnata ad apparire moderna, liberal e non violenta. Sí! Era contro la globalizzazione, ma guai ad apparire anche un poco critica nei confronti del processo d’integrazione europeo. Sì! Era contro la guerra, ma mai contro fino in fondo alle cosidette ”missioni di pace” dei governi di centrosinistra. Una sinistra che si è in sostanza appiattita sui comodi privilegi istituzionali e sui proclami astratti per i diritti borghesi, piuttosto che impegnarsi rivendicando obiettivi sociali nella vita quotidiana.

    Le sezioni del partito comunista a Torino e al Nord, durante i fenomeni migratori interni degli anni ‘60 e ‘70, diventarono luoghi di nuova comunità e organizzazione per quei contadini tolti al Mezzogiorno; erano i tempi in cui si urlava: “Nord e Sud uniti nella lotta”. Così come le sezioni dello stesso partito, durante gli spaventosi terremoti che colpirono il Friuli e l’Irpinia, misero in moto una straordinaria macchina di aiuto e di solidarietà, così come ancora quella forma della militanza interveniva concretamente in ogni meandro di lotta: dal territorio metropolitano alle aride campagne. L’Abruzzo è stato abbandonato al circo mediatico di Berlusconi e quel poco che di “generoso” è stato messo in campo dalla nostra parte non è stato neanche valorizzato a sufficienza.

    Oggi ci si indigna a parole, e sempre meno, contro il lavoro che non c’è e che uccide, il precariato e la xenofobia, mentre ci sarebbe bisogno di risposte realmente alternative che coinvolgano di nuovo la “nostra gente”, costruiscano forme di solidarietà ed anche reti organizzative. I fascisti e la destra fanno le “ronde”, danno risposte inefficaci e repellenti, ma la sinistra cosa propone? Pensare ai diritti per la costruzione di una moschea va bene, ma non basta! Sarebbe meglio costruire coscienza dei diritti sindacali e di classe degli immigrati, aiutare la loro trasformazione da individui a nuovi soggetti del conflitto. Solo cosi diventerebbero parte di noi e non altro da noi.

    L’accoglienza è una nobile pratica dei cattolici, i comunisti devono in più stabilire un rapporto strategico con gli immigrati sfruttati. Il capitalismo è cambiato e ha cambiato il mondo e l’Italia; purtroppo non ci si accorge di avere ormai un “terzo mondo interno”, così come ci si dimentica della teoria attualissima “dell’esercito industriale di riserva” che oggi, a differenza del passato, ha un altro colore della pelle. Apriamo le nostre ormai rare sezioni, trasformiamole in luoghi di lotta, di solidarietà, di cooperazione sociale perchè è da questi “buchi” nelle periferie che è nata la crisi della rappresentanza democratica della sinistra e dei comunisti.

    Ci fosse stata una progettualità simile non si sarebbe persa Roma, e invece hanno ripresentato e, accettato di far ripresentare, il “replicante” Rutelli, dentro un modello di piccoli privilegi del ceto politico della sinistra da una parte ed un modello di comando sulla città, fondato in alleanza con i costruttori edili e la speculazione finanziaria, dall’altra. I recenti fatti della Capitale, con da una parte la criminalizzazione del movimento per l’occupazione delle case e dall’altra con la “scoperta” di finanziamenti dei costruttori ai partiti della cosiddetta sinistra radicale, sono il segno di una ulteriore degenerazione Le notti bianche e la festa del cinema non hanno dato certo risposte alle periferie, le cui condizioni di vivibilità sono state cancellate in termini di devastazione lavorativa, ambientale, psichica e individuale. Nel dopoguerra il forte limite che veniva contrapposto al capitalismo era la resistenza organizzata da parte del movimento operaio che si manifestava attraverso lotte e conquiste ed anche con un “senso comune” fortemente identitario pure nella vita quotidiana. Il partito comunista, il sindacato ed i movimenti costituivano forme diverse di rappresentanza che avevano il compito di salvaguardare e consolidare la forza dei lavoratori, unica trincea della società contro la violenza del capitale.

    L’evoluzione del capitalismo, unita alla contraddittoria caduta del “campo socialista” e al “tradimento” del ceto politico della sinistra, ha provocato una resa della capacità contrattuale del mondo del lavoro ed ha consentito l’affermarsi di una forma di “dittatura” del capitale: la logica del profitto non deve più rispettare alcuna legge, non vi è nulla che possa contenerla. La precarietà è diventata l’unica forma di lavoro in quanto il capitale non ha più bisogno di contrattare alcunché (vedi la fine del contratto nazionale di lavoro, in effetti non contrastata dalla maggioranza della Cgil), mentre l’intera scena istituzionale si sta ormai completamente americanizzando con partiti oligarchici e plebiscitari, come vaticinava il boss della P2 Licio Gelli. Questo avviene anche perchè negli ultimi quindici anni, la “sinistra” ha potuto governare più volte (ed era magari anche giusto provarci, tanto quanto è giusto oggi fare una netta autocritica su quelle scelte) ma il risultato è stato che ogni volta che lo ha fatto, ha saputo solo continuare l’azione della destra, diminuendo ogni difesa sociale, per rendersi strumento di sottomissione al profitto. E’ successo due volte nell’Italia di Prodi, così come nella Gran Bretagna di Blair e nella Germania di Schroeder.

    Dal 1945 in poi, nel nostro Paese, la società e la politica avevano creato modelli non del tutto sottomessi allo sfruttamento, purtroppo nell’ultimo periodo il ceto politico della sinistra ha svenduto sempre di più queste caratteristiche in cambio di qualche piccolo potere e di qualche grande privilegio individuale. E ancora oggi la gente si chiede perché i litigi siano così accesi tra simili (abbiamo visto le “botte” vere al congressino dei Verdi), la risposta è chiara e triste: semplicemente ci si accapiglia perché si vuole ancora qualche briciola di potere, per qualche “strapuntino” concesso a chi si adegua… “Democrazia vuol dire potere agli operai” recitava uno slogan dei primi anni ‘70, quando i rapporti di forza nella società parevano volgere al meglio per le classi proletarie.

    Era una formula un pò rozza, ma in realtà rendeva bene il senso della richiesta: la democrazia è il luogo in cui i lavoratori possono scontrarsi contro il capitale contando su proprie forze organizzate, e al tempo stesso la società può conservare una relativa autonomia rispetto all’economia predatoria del profitto.

    Per troppo tempo non abbiamo più potuto né scegliere né identificare la destra e la sinistra in rapporto al capitale e al lavoro, e per quale motivo dovremmo ora, parlando della ricostruzione, non attenerci rigorosamente a idee, a contenuti e a forme organizzate che tengano conto di questa durissima lezione? Perché dovremmo rimpiangere questa sinistra, che quando era al governo (pensiamo agli ultimi due anni del governo Prodi con oltre un centinaio di deputati e senatori comunisti e della sinistra radicale) non ha saputo eliminare neppure una delle leggi berlusconiane, né ha saputo impedire il massacro sociale del TFR, del Welfare e delle pensioni? Per non parlare poi della subordinazione atlantica ed europea alle guerre imperialiste! Perchè dovremmo ricostruire una sinistra e ancor di più un nuovo partito comunista se non partendo dall’analisi degli errori del passato? Per questo bisogna non costruire un nuovo ceto politico autorappresentativo, del quale più nessuno avverte il bisogno, ma una nuova struttura di resistenza e attacco al servizio delle nuove classi proletarie.

    Oggi il lavoro è in frantumi ed in più i lavoratori sono diventati una merce come le altre. Dove una volta c’era un’azienda con un unico contratto sindacale, oggi c’è ne sono dieci, dal part-time al lavoro interinale. Dove una volta c’erano i settori produttivi, dall’agricoltura al terziario, oggi esiste una “mucillaggine” produttiva. Il lavoro frantumato non è politicamente né visibile né percepibile.

    Questa è invece la visione ideologica e identitaria tra vecchi e nuovi lavori che bisogna ristabilire.

    Fare una dura critica ai “lavoratori ridotti merce” significa parlar chiaro e cioè ricordare ai legislatori, sia di centrodestra che di centrosinistra, che se un automobile o un frigorifero si possono sostituire o rottamare, così non si può fare con le persone in carne ed ossa. Cosa che purtroppo avviene nelle leggi e nelle relazioni sindacali che informano oggi il mondo del lavoro. La difesa dei lavoratori oggi si è drasticamente ridotta e non è un caso se situazioni di crisi generano forme di lotta “estreme” come il salire su una ciminiera od incatenarsi ai cancelli. Ha un bel dire Cofferati quando segnala la sua contrarietà a queste forme di lotta perché deleggittimano il sindacato; è vero il contrario, queste lotte ci sono perché putroppo il sindacato ha smarrito la sua funzione. Si tratta di costruire un “filo rosso” che colleghi tutte le situazioni di lavoro; alla politica spetta la capacità di offrire un “fuoco” intorno a cui costruire, per unire la ricchezza di esperienze, di rappresentanza sociale e di movimento che le contraddizioni odierne del mondo del lavoro fanno emergere con grandi potenziali di lotta; al sindacalismo spetta la rappresentanza dei lavoratori e del conflitto e quindi diventa fondamentale un impegno decisivo sulla rappresentanza sindacale basato anch’esso sul principio “una testa, un voto”, con buona pace di un certo sindacalismo confederale teso solo a garantire la propria riproduzione. Dentro questa dinamica si inserisce la nostra proposta di una Iniziativa di legge popolare “contro il lavoro precario, per l’estensione delle garanzie dei lavoratori e per l’istituzione di un fondo straordinario contro la disoccupazione” che presentiamo in questa occasione e che da qui inizia la distribuzione operativa dei moduli per la raccolta delle firme, con questa presentazione politica:

    “La situazione drammatica del lavoro all’interno di una crisi sociale di carattere strutturale, oggi è segnata dalla mancanza praticamente totale di diritti, di assoluta precarietà e da un concerto culturale, politico e legislativo che rende i lavoratori stessi alla stregua di una semplice merce. Risulta evidente che solo una azione complessiva può ridare voce e rappresentanza ad una classe sempre più estesa di sfruttati senza alcun futuro. Riteniamo che uno dei punti di attacco più efficaci possa essere quello dello strumento dell’iniziativa di legge popolare. Consente infatti di attivare iniziativa politica e lotta sul territorio e nei luoghi di lavoro e di studio, mantenendo alto il confronto sul merito della lotta alla precarietà ed alla disoccupazione. Proprio sul merito vogliamo dire apertamente che la precarizzazione odierna di ogni forma di lavoro, anche quelle più professionali ed intellettuali, è ormai inaccettabile e che solamente una profonda rottura -appunto politica, culturale e legislativa- potrà fermare questa deriva. Contro la precarietà diffusa vogliamo rompere quello che appare un dato immutabile dello status-quo precario e flessibile, contrapponendovi l’antica ma efficace idea del “posto fisso”. Questa iniziativa ha certamente un aspetto provocatorio, ma è concretamente realizzabile con rapporti di forza sociali e politici diversi da quelli di oggi. Siamo di fronte “all’uovo di Colombo”, ma da qualche parte bisogna pur ripartire, e la rottura del binomio “compatibilità/senso di responsabilità” crediamo sia il punto su cui forzare. Ad esempio, non è forse abbastanza incompatibile ed irresponsabile una situazione in cui giovani laureati con il massimo dei voti facciano master a 500 euro al mese, per esser poi sfruttati di nuovo con altri inutili stages sempre con “salari da fame”? Già li sentiamo i “soloni” dell’esthablisment economico, politico e sindacale pontificare sulla irrealizzabilità della proposta, asserendo che il ritorno al lavoro a tempo indeterminato per tutti e la fine della precarietà produrrebbero ulteriore crisi alle imprese e quindi addirittura maggiore disoccupazione. A tal fine abbiamo voluto rispondere richiamandoci all’intervento pubblico con una compensazione sugli effetti occupazionali mediante la proposta di un Fondo Straordinario contro la Disoccupazione. Una proposta che certamente richiede il recupero di ingenti risorse pubbliche, non recuperabili attraverso l’aumento della normale tassazione, ma grazie ad un piano di attacco al capitale finanziario speculativo. In sostanza, un provvedimento legislativo di classe che sarebbe un beneficio per l’intera popolazione italiana che vive del proprio lavoro. Molti, sfibrati dalla sbornia liberista di questi anni, sfiduciati dalla mancata rappresentanza parlamentare dei partiti della sinistra, sarebbero oggi “disponibili” a battersi, non avendo ormai più nessun argine normativo che li difenda. Si tratta di “osare” dal punto di vista politico e culturale, serve coraggio anche nelle scelte legislative proponibili. L’iniziativa questa volta parte “dal basso”, a maggior ragione dopo il fallimento della partecipazione ai governi di centro sinistra nella difesa degli strati popolari. Contro l’idea della precarietà e della flessibilità, cara solo ai poteri forti ed ai loro servi sciocchi, rilanciamo l’esigenza del “lavoro fisso come diritto inalienabile”. Su questo terreno di iniziativa auspichiamo una forte tensione unitaria dei singoli e dei soggetti politici e di movimento.”

    Anche in questo modo, concreto e partecipativo, riprendiamo in pugno la grande idea del cambiamento per un nuovo inizio. Finchè si farà politica ,o più semplicemente si andrà a votare ( come diceva Karl Popper), per soddisfare le individualità, vincerà sempre la destra o prevarrà una falsa sinistra, perché il mestiere della destra è “parlare al ventre delle persone e dare voce agli egoismi”. Quando invece si tornerà a militare per il “bene comune”, per la collettività e quindi per una idea, la politica di una vera sinistra potrà tornare se non a vincere almeno a combattere e ad appassionare. Per questo serve attaccare duramente chi, specie a sinistra, continua con l’elogio del libero mercato.

    Qui in Italia chi lo fa non si accorge neanche che così non si selezionano neanche i migliori, anzi è quasi regola il contrario. Basti vedere le elites delle professioni prive di ogni mobilità sociale (se sei figlio di un operaio farai l’operaio, se sei figlio di notaio seguirai la professione paterna). Addirittura nel Mezzogiorno ed in altre parti del Paese esiste una sorta di società “al contrario” dove sono puniti gli onesti e premiati i delinquenti.

    Insomma vorremmo fare una critica vera alla politica. Alla politica che abbiamo conosciuto e frequentato negli ultimi ventanni. Oggi la politica sta alla società come un motore che gira “in folle” sta ad un automobile. La politica serve a sé stessa, la politica è diventata un esercizio totalmente scollegato dalle dinamiche e dagli stessi rapporti di forza che si esercitano nella quotidianità. La politica è diventata un mestiere, un mestiere come un altro, con le sue competenze e la sua mobilità da un luogo ad un altro. Praticamente non esiste più, neanche a sinistra, neanche nei partiti che si definiscono ancora comunisti, una “coerenza” di rappresentatività rispetto alle classi sociali di riferimento.

    I comportamenti non sono più dettati da strategie e tattiche ma solo da limitatissimi orizzonti individuali, questo provoca il disastro del “sono tutti uguali” e neutralizza in larga parte i tentativi di ricostruzione. In tale contesto è chiaro che a prevalere sono le politiche che puntano a mantenere inalterati i rapporti di forza nella società ( o a sfruttarli ulteriormente a loro favore). Un capitalismo globalizzato che non riesce a vedere i propri limiti in quanto responsabile del collasso ambientale del pianeta. Una sorta di “comunismo salvatore” si imporrà prima o poi per la sopravvivenza, perché il pianeta ha dei limiti, le sue risorse non sono infinite.

    Questa consapevolezza è uno dei motivi innovativi che anima la “rinascita” del continente latino-americano. Seguendo la irriducibile lotta di Cuba e della rivoluzione castrista, le classi dirigenti di larga parte di quelle immense terre hanno scelto il socialismo del XXI secolo, da Chavez a Morales, passando per Correa sino a Lula, sono tutti impegnati in questo coraggioso processo di emancipazione dagli USA e dal famelico e distruttivo modello di sviluppo yankee, che oggi si confronta con la sfida tutta interna di un Obama che ha una capacità di reale trasformazione inversamente proporzionale alla sua immagine mediatica. Non sarà un caso che il golpe fascista in Honduras, (in Italia completamente oscurato dalla cosidetta “stampa libera”) è stato il primo segnale in America latina dell’era Obama. Tornando alla nostra storia, alla storia italiana, qualcuno continua a dire che il PCI divenne più grande quando abbandonò il carattere ideologico a favore di quello programmatico. Sarà anche vero in parte, ma erano altri tempi, con altri rapporti di forza e poi chi ci dice che il disastro di oggi non nasca anche da lì, cioè da quando le anticipazioni della cosiddetta “contaminazione” della Bolognina favorirono la quasi integrale sostituzione dei quadri dirigenti di origine proletaria provenienti dalla Resistenza con personaggi figli della borghesia ? E poi ancora sempre guardando al passato, il progressivo appannarsi della diversità comunista ed il graduale inserimento del PCI nella logica del “sistema dei partiti” aprirono la strada, tra il 1976 ed il 1979, con i governi di “unità nazionale” e con la “linea sindacale dell’Eur”, al consolidarsi della “mutazione genetica” di quel partito. Non sarà un caso che quelle vicende siano state vissute come un “tradimento” da parte di coloro che il 15 giugno 1975 (data della conquista delle grandi città: Torino, Roma e Napoli ebbero per la prima volte un sindaco comunista) si erano accostati per la prima volta al PCI.

    Lo storico Giorgio Galli scrisse su quel periodo: ”…in quel periodo, la scelta astensionistica rispetto al governo da parte del PCI – ambigua e deludente comunque la si voglia considerare – avvenne proprio mentre fervevano spinte innovative nella società italiana, che proprio il voto delle amministrative del 1975 e le politiche del 1976 aveva confermato. Tale vicenda saldò la frustrazione della base PCI a quella dei militanti della nuova sinistra senza peraltro”recuperare” i gruppi conservatori (per i quali il ruolo del PCI non può che essere all’opposizione e mai essere legittimato a governare né a partecipare ad una qualsiasi forma di maggioranza parlamentare)”. Chissà quanto questo avrà pesato nell’adesione giovanile quasi di massa al fenomeno del terrorismo di sinistra. E’ altamente probabile che i margini concessi dal Kejnesismo alle politiche redistributive del PCI si siano bruscamente ridotti per poi scomparire del tutto con l’arrivo delle nuove tecnologie e, soprattutto, con il neoliberismo che non sopporta più neanche la benché minima politica di riformismo sociale. Non sarà un caso se nel decennio che va dal 1968 al 1977 i forti movimenti cercarono, con un forte scontro sociale, di ritardare quell’ondata di privatizzazioni e di liberismo che, in Italia, giunse almeno con una decina di anni in ritardo rispetto alla totalità degli altri paesi europei. Negli anni a venire venne distrutto, mattone dopo mattone, pezzo dopo pezzo, ogni bastione di idealità e di passione politica. Anche i simboli lasciarono il posto ai nuovi totem del pragmatismo e della governance. Infatti per tornare ai tempi del “nuovismo” nel PCI, periodi in cui molti hanno lavorato per schiantare ogni barlume di identità proletaria e popolare, da allora ad oggi, la strada in negativo è stata tutta percorsa.

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    Viva la Comune

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    Predefinito Rif: Marco Rizzo: Perchè è successo?

    Marco Rizzo: Perchè è successo? Dalla fine di questa sinistra una critica alla politica, per una nuova fase di riscossa. Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte.

    I Comunisti per una Sinistra Popolare

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    Se ad un operaio del Nord dici per oltre vent’anni che le ideologie non esistono più; se ogni volta che governa la sinistra fa una riforma delle pensioni che lo frega; se gli porti via il TFR; se gli consegni un sindacato sempre più concertativo e se infine lo fai rappresentare anche plasticamente da dirigenti come Rutelli, D’Alema o Bertinotti non risulta poi così difficile che quell’operaio faccia un semplice ragionamento e dica: “non mi difendete più, non mi rappresentate più, almeno le tasse che pago per uno stato troppo inefficiente, lasciatemele qui” e che dunque voti anche la Lega. L’impopolarità del governo di Prodi è stato anche questo.

    In quei due anni di governo infatti quel processo si è moltiplicato indefinitivamente, deteminando poi le premesse del disastro. Mentre i lavoratori, i precari, i pacifisti, i giovani di Genova, le popolazioni della Val di Susa e di Vicenza si sono sentiti traditi ed abbandonati. Eppure di segnali ne erano arrivati! I fischi indirizzati ai sindacalisti alla Fiat Mirafiori erano infatti il sintomo di una classe operaia che non si sentiva più rappresentatala da una sinistra che “tanto diceva e che nulla faceva”. Nel migliore dei casi erano “strilli” sulle agenzie stampa subito sedati dalle “rassicuranti” interviste in cui si ricordava che “mai si farà cadere il governo”.

    Scriveva argutamente il “riformista” Michele Salvati sulla prima del Corriere della Sera del primo gennaio 2007: “I partiti dell’estrema sinistra hanno combattuto per ottenere significative modifiche al protocollo sul welfare e pensioni nelle direzioni da loro preferite. Alla fine, però, hanno accettato la mediazione diktat del presidente del Consiglio Prodi, che sostanzialmente ribadiva il testo originale , ed è molto improbabile che ricominci il tiramolla in Senato. Ora minacciano che , passata la legge finanziaria, potrebbero sfilarsi dalla maggioranza. Appunto, ‘passata la Finanziaria’, il che assomiglia un poco alle minacce di quei bambini i quali, avendo avuto la peggio in una baruffa in classe, si rivolgono a chi li ha picchiati frignando–ci vediamo fuori-“

    Ricordate quel 9 giugno 2007, quando i quartieri generali della “sinistra radicale”si ritrovarono a Roma in una Piazza del Popolo deserta, soli mentre il loro popolo, in oltre centomila persone, aveva giustamente scelto di manifestare contro Bush, al di là delle indicazioni di subalternità e compatibilità col “governismo”? E poi ancora l’ultimo grande segnale dato dalla manifestazione del 20 ottobre di due anni fa: un milione in piazza per chiedere ai due partiti comunisti al governo di dimostrare la loro identità, commisurandola alla loro “utilità sociale” nella battaglia contro il pessimo protocollo su pensioni e welfare! Ed anche lì nessuna comprensione di cosa stava accadendo, poi ancora la miopia sull’abolizione della “falce e martello”e di quello che rappresentava ed infine sono arrivati gli tzunami dell’Arcobaleno e della lista comunista.

    Ora serve ripartire , ma, per favore, non facciamo più errori! E quanti sbagli sono stati fatti anche sulla questione dell’Europa unita, che merita una riflessione molto approfondita. Un‘Europa, dove la borghesia, soprattutto dopo l’unificazione tedesca e gli accordi di Maastricht, si è mossa consapevolmente e in modo organizzato per realizzare il suo progetto. E’ intervenuta con forza e determinazione in tutti gli aspetti essenziali dell’economia e della società. Ha dedicato grande attenzione alla questione della formazione e dell’educazione, con la «strategia di Lisbona» e con le successive direttive nel campo della formazione. Ha regolamentato la concorrenza, con tutti i sistemi di authority e di garanti, è intervenuta sui contratti di lavoro, chiedendo piena concorrenza tra i lavoratori e flessibilità. Non ha respinto brutalmente gli immigrati, ma ha richiesto un disciplinamento e una loro integrazione subordinata all’interno della UE. Culturalmente puritana, questa borghesia preferisce da sempre una certa regolamentazione (in taluni casi fino all’eccesso della definizione degli standard di alcune produzioni o delle norme di sicurezza), piuttosto che il capitalismo da giungla. In questo senso il modello di capitalismo europeo è piuttosto distante da quello statunitense.

    Questo modello fu in fondo ben espresso da Prodi nel suo libro sull’Europa di qualche anno fa, in cui coniava la formula del «liberismo temperato». Il nucleo storico della grande borghesia europea, quello che ha cercato di tessere le fila del progetto di costruzione europea, con la brusca accelerazione dell’ingresso di dodici nuovi Paesi tra il 2005 e il 2007 (di cui ben dieci appartenenti all’ex blocco socialista), si è mossa e si muove lungo direttrici di prudente e controllato sviluppo capitalistico, teme i grandi sconvolgimenti, adopera la BCE come strumento importante di controllo dell’inflazione, vuole bilanci in pareggio (i parametri di Maastricht). La borghesia europeista si fonda ancor oggi più sul capitale industriale che non sul capitale della speculazione finanziaria, che però avanza fortemente. Essa mira a fare dell’Europa un’area stabile (una sorta di Repubblica Federale Tedesca allargata…) esente da tempeste monetarie e finanziarie. Le borghesie tedesca e francese – con il Benelux – intendono lasciarsi alle spalle il secolo dell’instabilità, dell’inflazione selvaggia, della disoccupazione incontrollabile, che potrebbero favorire ondate demagogiche e la ricomparsa di fenomeni di tipo populista e anche nazifascista. La politica del capitale europeo è limitatamente aggressiva, con una politica militare moderata ma in crescita. È una borghesia che vuol dominare serenamente, “pacatamente” seduta sul suo capitale. La tempesta maggiore che essa ha attraversato è stata il crollo dei Paesi dell’Est con il disfacimento di Stati e le guerre jugoslave degli anni Novanta.

    Ma, pur tra incertezze ed errori, in particolare in Jugoslavia, essa è riuscita, dopo un quindicennio, ad assorbire gli Stati dell’Europa orientale, al punto da imporre a tutte le loro economie una transizione regolamentata secondo i parametri monetaristi di Maastricht. Senza particolari colpi di teatro, la borghesia europeista è riuscita ad affrontare la crisi più grave del secondo dopoguerra, a irreggimentare lo sconquasso delle società dell’europa orientale, rendendo attraente la prospettiva dell’ingresso nella UE. A tutti i candidati impone il diritto della UE e le sue regole. Tra queste regole si è da tempo insinuato un anticomunismo (concreto) che ha recentemente portato alla messa fuorilegge dell’organizzazione giovanile dei comunisti cechi (il terzo partito in quella nazione), all’incriminazione dei dirigenti del Partito comunista ungherese e alla legge vergogna con cui il corrotto governo polacco obbligava all’autodenuncia i cittadini che avessero avuto incarichi statali nel periodo del socialismo reale. (Il momento più drammatico della crisi europea è stato quello dell’annessione della Germania Est, che i soci europei hanno dovuto digerire, accettando di pagarne i costi). Tuttavia questo modello di liberismo temperato potrebbe trovarsi oggi di fronte a scelte drammatiche e a imprevedibili scossoni sociali. La borghesia europeista è finora riuscita a promuovere sviluppo. Paesi come l’Irlanda e la Spagna hanno conosciuto forti ritmi di crescita grazie agli investimenti europei. È riuscita a integrare aree diverse. Ha imposto degli standard nella formazione, nei brevetti, nella sicurezza dei prodotti, ha regolamentato il mercato. Insomma la burocrazia di Bruxelles ha svolto benino il suo lavoro… Ma ora diventerà tutto più difficile.

    Sul piano della politica internazionale, la borghesia europea è interessata alla penetrazione imperialistica in tutte le aree del pianeta, e le sue pallottole sono i capitali, la tecnologia e il mercato, e non ancora la guerra aperta e diretta. Essa partecipa con forze di stabilizzazione delle aree in conflitto, ma non intende sviluppare – perché non ne ha ancora la struttura –il militarismo classico. Piuttosto essa ha bisogno di un esercito di pronto intervento in tutto il mondo – capace di schierarsi nel giro di ventiquattro ore con 60.000 uomini ben addestrati ed equipaggiati – per imporre stabilità. Essa è sostanzialmente estranea alle vecchie forme di colonialismo, cioè di occupazione diretta di un territorio, di cui si assume l’amministrazione. Essa è interessata alla stabilità e al controllo, che intende imporre magari anche con la forza delle armi.

    Per la sua struttura economica attuale, la UE non ha nella guerra la soluzione per la crisi economica, preferisce la partecipazione a missioni «di pace» che puntano a una pressione militare sul tipo della missione in Libano. In ciò essa diverge dagli USA, ma ne è speculare rispetto alla scelta di comando. La grande borghesia europea ha cercato di costruire il suo potere economico e politico sviluppando il ceto medio, per averlo come alleato contro l’insorgenza del proletariato. Al capitale europeo preme la stabilità sociale e questa può essere solidamente garantita da un ceto medio piuttosto soddisfatto della sua condizione, in modo da divenire calamita anche per la piccola borghesia e il proletariato. Il modello ideale di rapporti sociali della borghesia europea è la naftalina, la decongestione del conflitto, il sindacato corporativo e consociativo. L’esplosione sociale va evitata e, se non è possibile, isolata, chiusa da un cordone sanitario. Non a caso i modelli vincenti di relazioni sociali e politiche nella UE sono stati quello democristiano e quello socialdemocratico, spesso complementari. Si tratta di un riformismo o liberismo temperato, di un gradualismo di una borghesia che aborre l’estremizzazione del conflitto, che è disponibile alla concessione untuosa e fumosa, che preferisce vincere per governare a lungo piuttosto che stravincere mettendo totalmente in ginocchio l’avversario di classe. Che va invece narcotizzato. Da queste ide, da queste progettualità nasce in Italia il Partito democratico. Grazie a questa politica, la borghesia europeista è riuscita a tenere la rotta, a guidare la sua nave anche tra le grandi tempeste monetarie e i fallimenti di interi Stati, o le grandi truffe finanziarie tipo quella di Enron. È riuscita a passare quasi indenne tra il crollo dell’Est, la crisi delle «tigri asiatiche» e la bancarotta russa tra il 1997 e il 1998, il fallimento dell’Argentina…

    Le Borse europee hanno certo subito i contraccolpi di quelle mondiali, ma il sistema si è rivelato capace di tenere, con accettabili anticorpi. La leadership di questa borghesia è tedesca (ma anche olandese-belga) in condominio con quella francese, che si rivela meno capace di stabilità e più permeabile alle insorgenze (perché Parigi e non Berlino o Francoforte ha avuto la sommossa delle banlieue e i moti antiglobalizzazione?).La borghesia tedesca è stata in grado in dieci-quindici anni di riassorbire la Germania Est, imponendo agli alleati europei il pagamento degli enormi costi di quell’Anschluss, ma ha avuto meno tensioni sociali e culturali della Francia.

    L’Europa si muove come se fosse un’isola relativamente felice. Si è allargato il suo mercato interno, il suo PIL cresce poco, ma stabilmente, il conflitto sociale è limitato e regolamentato, nessuno scossone politico è all’orizzonte e la BCE governa la moneta e fronteggia la moderata inflazione con un contenuto aumento dei tassi di sconto. L’euro tiene e il tasso di cambio col dollaro è attorno quota 1,50. Per la borghesia europeista ritorna la questione di trasformare in un vero e proprio Stato quella che è oggi qualcosa di più di un’unione monetaria e doganale, ma molto meno di una nazione che possa intervenire sull’arena internazionale con una propria politica e propria politica estera. Il progetto di trattato per una Costituzione europea è stato respinto dalla Francia e dall’Olanda nelle consultazioni popolari referendarie che si sono svolte. In Irlanda è stato ripetuto il voto fino a quando il Sì ha prevalso (infischiandosi delle cosiddette regole democratiche da loro stessi varate).

    Si parla di una scelta pretenziosa e farraginosa, sostanzialmente neoliberista. L’espressione più autentica del volto del capitale europeista, dei freddi «gnomi» di Bruxelles, custodi della stabilità monetaria, della regolamentazione del conflitto, del controllo sociale.

    Manca a questa Europa una legittimazione popolare. Nonostante la UE sia fortemente presente nella economia e nelle regolamentazioni, nonché nella scuola e sanità, essa è distante anni luce dai cittadini che in essa non si riconoscono. È uno «strano animale». La grande borghesia europea – al pari dei moderati nel Risorgimento italiano – vuole realizzare il mercato nazionale ma senza l’apporto delle masse, ritenute pericolose. Tutto si svolge nelle segrete stanze della burocrazia europeista, ma così non si costruisce certo un popolo europeo. Tutti gli Stati moderni sono nati da una guerra o da una insurrezione nazionale, da una rivoluzione. La UE nasce fredda, con accordi diplomatici tra capi di Stato. Le manca «l’anima del popolo”!

    Come collocarsi di fronte all’Unione europea? Occorre prendere lucidamente atto che la costruzione europea non è stata il prodotto di una spinta progressiva delle masse, ma il risultato di accordi di vertice delle diplomazie occidentali, guidate dal grande capitale industriale e finanziario. Questa UE è l’unione dei capitali, voluta dai capitali, molto meno o nient’affatto l’unione dei popoli. Sulla base di ciò, alcuni partiti comunisti ed anticapitalisti sono in parte critici, altri si battono decisamente contro la UE, altri ancora sono per un recupero dello Stato-nazione, unico a essersi costituito – generalmente – sulla base di un movimento nazionale e popolare. La UE tuttavia rappresenta oggi una realtà, come nel XVIII secolo erano una realtà le fabbriche che il capitale inglese costruiva per sfruttare gli operai. Il processo di aggregazioni sovranazionali, imposto dal movimento del capitale, con la sua spinta a sempre maggiori concentrazioni, è un dato storico, che porta tendenzialmente all’unificazione dell’umanità. In ciò vi è un margine discreto di potenzialità progressiva. La politica dei comunisti nei confronti della UE potrebbe essere analoga a quella che essi hanno nei confronti della grande industria: non ne propongono la distruzione luddista, ma il rovesciamento della sua direzione. All’Europa dei capitali va contrapposta l’Europa dei popoli, che bisogna costruire analizzando però gli attuali rapporti di forza politici nei ventisette Paesi europei, così favorevoli alle destre e ai riformisti borghesi, quindi bisognerà impegnarsi in questa fase, anche in Italia , ad un lavoro di forte contrasto alle politiche di unità comunitaria.

    La democrazia partecipata e il conflitto di classe sono la nostra bandiera e dobbiamo quindi estendere i collegamenti e l’agire di classe in tutto il continente. I punti principali dalla nostra riflessione, oltre all’impianto classico di critica al capitalismo mai così in crisi come oggi, proseguono ricordando quanto mai sia attuale la questione comunista, a partire dalla considerazione di chiusura “dell’anomalia del caso italiano”. Per cui si passa dalla Bolognina del 1991, quando “un italiano su tre votava ancora comunista” al 2006, solo tre anni fa, dove chi votava i due partiti comunisti era superiore ai 3 milioni di unità, ad oggi con l’apocalisse dell’Arcobaleno e della lista comunista. Perché siamo arrivati a questo punto? Abbiamo già analizzato con particolare attenzione la cosidetta “contaminazione” dei gruppi dirigenti “comunisti” da parte delle forze della borghesia. L’attuazione pratica del “pensiero unico della globalizzazione capitalistica” ha sussunto questi gruppi dirigenti dentro i privilegi della “politica di mestiere”, ha emarginato e messo ai lati i compagni più conseguenti e poco alla volta il “punto di vista proletario” è stato espunto dalle leadership per lasciare spazio al trasformismo e all’opportunismo nel migliore dei casi e nella abiura anticomunista nelle modalità peggiori. Se non cominciamo da questo non riusciremo a spiegare ma nemmeno a raccontare i due anni disastrosi di partecipazione al governo Prodi.

    L’applauso finale (bipartisan, nessuno escluso) a Mastella è stato paradigmatico di questa parabola non solo governista. “Al Ministro della giustizia va tutta la solidarietà umana e politica per un atto di coerenza, di alto senso delle istituzioni e dello Stato “ titolava infatti una agenzia Ansa del 16 gennaio alle ore 12.25 a nome di un capogruppo comunista in Parlamento!!!!

    Alfine vorremmo sottolineare i punti che noi riteniamo essenziali e su cui incentrare la nostra analisi ed il nostro impegno: L’antimperialismo. Contro quello americano , quello dominante,, ma anche quello europeo, nascente. Per intenderci via le truppe dall’Afghanistan ma anche dal Libano. Il mondo dei lavori dovrà essere al centro dell’iniziativa politica come dirimente asse della centralità del conflitto tra capitale e lavoro, senza per questo dimenticare le forme vecchie e nuove di discriminazione di genere e di tendenza sessuale, nonché la battaglia per la laicità dello Stato. La necessaria e totale alternatività al PD, come conseguenza all’analisi per cui questo partito, nell’americanizzazione della politica, è il più funzionale ai poteri forti, caratterizzato come è nella narcotizzazione e conseguente neutralizzazione del conflitto di classe. La formula del che fare a sinistra e tra i comunisti. Tutti un passo indietro per costruire una direzione collettiva protesa ad un vero ricambio sostanziale e generazionale.

    Inoltre, ma non per questo meno importante, serve ricordare che, con la vittoria della destra, le classi dominanti del nostro Paese, nell’affrontare le crisi di sovrapproduzione capitalistica e l’accesa competizione internazionale, stanno lavorando per costruire un sistema in cui ogni spazio residuo di agibilità politica venga annientato in una sorta di ridimensionamento degli ambiti della democrazia formale e di entrata in una nuova “democrazia autoritaria”. Da una parte la formazione del partito democratico, dall’altra l’accettazione definitiva della concertazione da parte dei vertici confederali per costituirsi, in quanto interlocutore sindacale affidabile ed unico, al tavolo con governo e padronato.

    In questo quadro si evidenziano i problemi relativi ad un controllo sempre più pervasivo del mondo della comunicazione di massa, asservito non tanto al Berlusconi politico, quanto al modo di essere e pensare “berlusconiano”, che sta diventando il senso comune di larghissime masse , senza più esser contrastato “da un pensiero altro”. Un Berlusconi che può anche subire colpi nella politica, ma che stravince nel senso comune di massa, con disvalori i cui effetti sono sotto gli effetti di tutti. Gli ultimi eventi (a partire dalla bocciatura del lodo Alfano) ci pongono l’interrogativo sul fatto se l’equilibrio su cui si regge questa maggioranza si stia incrinando o meno. E’ possibile cioè che quel poderoso intreccio di di populismo e liberismo che ha attraversato in profondità la società italiana e che è stata la forza fondamentale del centro destra possa rompersi? E’ possibile che settori sempre più ampi dei poteri forti che hanno appoggiato, o sono rimasti indifferenti, a Berlusconi si uniscano a quella parte rappresentata dal gruppo De benedetti? E’ la borghesia europeista di Padoa Schioppa, liberista di Confindustria e della Fiat, del rigore del governatore Draghi. E’ la borghesia che sta dalla parte dei banchieri negli editoriali di Scalfari e che, volendo una politica estera filoatlantica e al più europeista, vede di malocchio le sortite filo Putin del Cavaliere. Ora tra Berlusconi e questo blocco i segnali cominciano ad essere di vera ostilità. Bisogna avere la forza di dire che ci rifiutiamo e ci rifiuteremo di scegliere tra uno e l’altro e che pensiamo che il miglior modo di battere questo governo sia quello di aumentare la conflittualità sociale e di massa con obiettivi altrettanto visibili dal punto di vista sociale. Scendiamo in piazza per la libertà di stampa vera e non per scegliere tra la Repubblica ed il Giornale che, guarda caso dimenticano allo stesso modo la significativa mobilitazione di Milano (lo fa persino il Manifesto) per i 5 patrioti cubani incarcerati da anni negli Usa, tanto quanto oscurano il golpe fascista in Honduras. Ci mobilitiamo con le lotte dei lavoratori e vediamo il ridimensionamento bipartisan mediatico nei confronti di quelle più avanzate, dallo sciopero dei metalmeccanici alle mobilatazioni del sindacalismo di base. Insomma siamo convinti che se cade Berlusconi è un bene, ma che se arriva un Montezemolo con l’appoggio di Casini e di Bersani, strizzando l’occhio a quel che resta della cosidetta sinistra radicale, per i lavoratori non cambia nulla.

    Ci confrontiamo quotidianamente con una ricorsa tra chi promuove poltiche repressive, dai diritti sociali a quelli individuali, senza discontinuità significative nel colore politico. Politiche che passano anche inevitabilmente attraverso scelte militari e poliziesche, con cui, nel panorama globale, si accetta il ruolo imposto dall’imperialismo come “fase suprema del capitalismo” e, nel nostro paese, si tende a criminalizzare ogni barlume di opposizione sociale, alimentando le guerre tra poveri e sovradimensionando il pericolo della manodopera immigrata, nonché mantenendo inalterata la crisi ed il collasso del Mezzogiorno, ormai definitivamente in mano alle grandi organizzazioni criminali che sono spesso un tutt’uno con la finanza, l’economia e la politica. Stabilità dei governi, politiche repressive della sicurezza e tavolo della concertazione sindacale saranno i punti del paradigma di “normalizzazione” reazionaria del paese. Tutto ciò che sarà al di fuori verrà considerato non compatibile o addirittura messo fuori legge. I primi a farne le spese saranno innanzitutto i movimenti di lotta che, nell’ultimo periodo hanno costituito l’unico punto di riferimento per una opposizione alle politiche antiproletarie sia dei governi di centrodestra che di quelli di centrosinistra.



    Servirà poi una proposta forte in difesa della democrazia costituzionale. Rotto l’equilibrio democratico con l’introduzione del “maggioritario”, ogni ulteriore scivolamento istituzionale che si allontani dal patto costituzionale, dovrà esser letto sempre come un attentato alla democrazia repubblicana. Maggioritari, doppi turni, sbarramenti, bipartitismi, presidenzialismi ecc. sono ferite insanabili alla democrazia nata dalla Resistenza. Il sistema parlamentare proporzionale con “una testa, un voto” deve essere la nostra barra su cui misurare ogni azione di modifica del quadro istituzionale.

    Per ripartire serve anche un edificio ideologico all’altezza dei tempi. La parola ideologia potrà disturbare e allora si parli di idee, di progetti, di fini e di simboli. Ma alla fine sempre qua dobbiamo arrivare.

    Abbiamo bisogno di un progetto di racconto finalizzato per l’Italia, dobbiamo parlare alla maggioranza della popolazione, pur sapendo che saremo minoranza (ma mai minoritari) per un lungo periodo. E questo indipendentemente dagli appuntamenti elettorali, essendo in effetti necessario un progetto di “lungo-medio periodo”, per ridare dignità alla pratica dell’anticapitalismo e progettualità concreta ad un comunismo inteso come utile socialmente da parte del nuovo proletariato, che è composto ormai dalla maggioranza della popolazione. Saremo diffidenti verso chi parla delle prossime scadenze elettorali come obbiettivo da cui ripartire. E’ “buona pratica” evitare un elettoralismo tanto miope quanto inefficace.

    Sia benvenuta dunque la dura lezione dell’Arcobaleno ed anche della cosidetta lista comunista (oggi già di nuovo federazione della sinistra) se si capisce che non è possibile cambiare semplicemente con un altro schema elettorale, ma che bisogna invece mettere in campo una sfida strategica che vorremmo qui sintetizzare:- Le cose nel nostro Paese peggiorano. Sono sempre più numerose le persone singole e le famiglie che non vedono un futuro davanti a loro. La crisi economica, la precarizzazione del lavoro, le difficoltà ad arrivare alla fine del mese stanno diventando per moltissime persone una “crocifissione” quotidiana da troppo tempo ormai. In tale contesto la politica fa poco e conta ancora meno. Questi processi sono infatti il frutto di un progressivo controllo e comando dei “poteri forti” dell’economia e della finanza nella determinazione di tutti gli aspetti della vita civile e sociale di ognuno di noi. Berlusconi ed il “berlusconismo” imperante ne sono la prova più evidente. Quella che era una volta la sinistra si è ridotta a non fare più opposizione e a preferire ed osannare una volta il Vaticano, un’altra volta Montezemolo pur di coprire la sua mancanza totale di progettualità. I partiti che ancora si definiscono comunisti sono praticamente scomparsi, incagliati nella palude dell’Arcobaleno e pressati dalle bramosie individuali di gruppi dirigenti in cerca di personale collocazione nella giungla dei privilegi della politica. Oggi, e non a torto, la gente normale “diffida” e si tiene lontana dalla politica. Serve una svolta, serve una rinascita.

    Per farlo non ci deve essere fretta, non si possono più commettere errori, bisogna dire chiaramente che la politica non può essere esclusivamente la “ricerca di posti” ad ogni elezione. Semmai le elezioni dovrannoo essere la verifica del lavoro svolto. Chiediamo a tutti diffidare da coloro che pensano solo al momento elettorale (e quindi alle poltrone) anche se sono di sinistra, anche se si definiscono comunisti. Il problema è tra chi vuole di nuovo fare politica e chi ancora vive della politica. Non è per caso infatti che il progetto di Comunisti Sinistra Popolare si presenta con un simbolo quadrato (la legge italiana prevede per i partiti ed i movimenti che hanno intenzione di presentarsi alle elezioni il “simbolo tondo”) anche per differenziarsi visivamente dagli altri. “Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte” non è solo uno slogan di presentazione ma un progetto da rispettare. Purtroppo la sinistra ed anche chi si è definito comunista ha ultimamente in qualche modo “tradito” le aspettative del nostro popolo raccontando delle cose e poi facendone delle altre. E’ necessario riconquistare di nuovo la fiducia della nostra gente.

    Sarà questione lunga e difficile, ma va fatto. Partiremo chiedendo a quei dirigenti che hanno sbagliato di farsi da parte ed appunto ritrovando il gusto della lotta, della presenza nel territorio.I nostri padri erano sicuri che quando tornavano a casa dopo una giornata di lavoro Togliatti, Secchia, Longo, Pajetta, e Berlinguer pensavano alla risoluzione dei loro problemi. Oggi da troppo tempo non è più così. Bisogna ricominciare da lì! Ci vorrà tempo e fatica. Abbiamo bisogno di tutte e di tutti! Della vostra intelligenza, della vostra forza, del vostro impegno, della vostra creatività, insomma abbiamo bisogno di Voi!!!

    Viva la Comune

  3. #3
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    Predefinito Rif: Marco Rizzo: Perchè è successo?

    Mi sembra che l'analisi sia simile a tante altre sentite negli ultimi anni. Ci risiamo col Partito Sociale? Fatemi capire, vi prego.

 

 

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