Il furore con il quale Follini e compagni (è il caso di dirlo) si scagliano contro il taglio delle tasse ignora certi principi di diritto naturale difesi dalla Chiesa.
E' quanto asserisce Alberto Mingardi in un bell'articolo pubblicato sabato su Il Foglio.

Che ne pensate?

Teologia fiscale

Obiezioni a Follini in nome del
cattolicesimo liberale di Rosmini e
della dottrina sociale della Chiesa



C’è qualcuno – e spiace dirlo, ma Marco
Follini dev’essere tra questi – che pensa
che la progressività dell’imposta sgorghi
da qualche passo evangelico, che ci sia, ben
sedimentato fra le tante prerogative della
collettività, un diritto all’esproprio via via
più gravoso, in proporzione al reddito dell’espropriato.
San Martino divide col mendicante
il mantello, ma, fosse più ricco, dovrebbe
sacrificargli pure cavallo e spada.
Eppure, nel ristretto perimetro di quel
personalismo cattolico, in cui Follini e i
suoi dicono di riconoscersi, scorre un fiume
carsico di autori e pensieri che sul dogma
politico della tassazione progressiva hanno
preso posizione ben diversa. Gli argomenti
a favore della proprietà privata, e di converso
contro una tassazione oppressiva, sono
ben radicati in quella tradizione, e sorgono
su robuste radici tomiste, le stesse che
riecheggiano in questo passo della Rerum
Novarum: “Quando gli uomini sanno di lavorare
in proprio, faticano con più alacrità
e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato
di propria mano, da cui attendono, per
sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma
una certa agiatezza. Ed è facile capire come
questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere
la produzione del suolo e la ricchezza
della nazione… tali vantaggi dipendono da
questa condizione, che la privata proprietà
non venga oppressa da imposte eccessive.
Siccome il diritto della proprietà privata
deriva non da una legge umana ma da quella
naturale, lo Stato non può annientarlo,
ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo
col bene comune. E’ ingiustizia ed inumanità
esigere dai privati più del dovere
sotto pretesto di imposte”.
Siamo a tutt’altre latitudini, rispetto all’impostazione
mentale palesata da Follini.
Ci piacerebbe essere “generosi col contribuente”,
spiegava al Corriere, tutto sta a vedere
quel che ci consente la finanza pubblica.
Il ragionamento, di per sé, filerebbe. Il
problema è che le parole non cadono per
sbaglio in una frase, specie quando a incastrarle
è un democristiano accorto. La “generosità”
preclude a un capovolgimento della
logica, o perlomeno alla chiusura repentina
di un vocabolario politico per aprirne un
altro. Se si parla di “diritti naturali”, si postula
silenziosamente che esista un – pur ipotetico
– “prima” rispetto al quale lo Stato è
una variabile successiva. Resiste un catalogo
di libertà e doveri che precede l’entrata in
gioco del governo. La proprietà ne fa parte –
specie la proprietà del reddito che si produce,
cioè di una torta che si è fatta lievitare.
Nella Laborem Exercens, del resto, si legge:
“l’uomo realizza se stesso per mezzo della
sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare
questo, assume come oggetto e come strumento
le cose del mondo e di esse si appropria.
In questo suo agire sta il fondamento
del diritto all’iniziativa e alla proprietà individuale”.
Parlare di “generosità verso il contribuente”
significa ribaltare l’equazione e
immaginare che tutto sia dovuto allo Stato,
se non in qualche fortuita eccezione. La proprietà
perde lo scudo della legge naturale, e
si fa sottoprodotto del diritto positivo.
L’autore che più di tutti ha investito sulla
proprietà come pietra di paragone di un’autentica
“giustizia sociale” (termine di cui
detiene il conio) è stato Antonio Rosmini.
Nel suo progetto di carta fondamentale per
la nascitura Italia, “La Costituzione secondo
la giustizia sociale”, Rosmini – oltre a immaginare
l’abolizione delle imposte sui consumi
e dei dazi doganali – legge la società
civile come “società di contribuenti” e si
scaglia contro l’“uguaglianza materiale ed
aritmetica”, difendendo per contro il principio
liberale dell’uguaglianza formale, “in
faccia ai tribunali”. Il personalismo di Rosmini
è “proprietarismo”, per lui “la proprietà
costituisce una sfera intorno alla persona,
di cui la persona è il centro”. Per questo
non esita a condannare senza appello
quel principio di progressività dell’imposta
a difesa del quale oggi i centristi sublimano
l’arrocco. “La progressione di questa tassa…
è un furto mascherato che fa il potere
legislativo in nome della legge. Ella dunque
viola l’altro principio di diritto naturale che
tutte le proprietà sono inviolabili”. La sottolineatura
cade sul “tutte”. “Voi dunque fate
due parti della nazione: i proletari e i minimi
proprietari sono l’una, i maggiori proprietari
l’altra: questi li cancellate dal vostro
ruolo e pretendete che la nazione sieno
solamente i primi, e che questa vostra nazione
debba vivere colle sostanze di quelli
che avete divisi dalla nazione. Ecco l’artificio,
ecco il furto legislativo”. “L’assolutismo
consiste principalmente nel comandare alla
borsa degli altri”.
Teorico ante litteram della flat tax
Questa lotta di classe determinata dal
sorgere dello Stato giacobino e che sarà sociale,
da una parte chi paga le tasse e dall’altra
chi decide cosa farne, da una parte
quelli per cui il governo è solo costi e dall’altra
quelli per cui il governo è solo benefici,
è intuita come intrinsecamente ingiusta
dal Rosmini. E così la “giustizia sociale” si
definisce in contrapposizione al “predominio
brutale d’una classe della società in sull’altra.
Parte di questa giustizia è l’inviolabilità
di tutte le proprietà. Parte di questa
inviolabilità è la concorrenza di tutti i cittadini
a pagare le imposte in proporzione
esatta del reddito”. Teorico di una flat tax
ante litteram (“dite alla classe de’ proprietarii
minori: voi pagherete meno perché
avete minor reddito, ma pagherete anche
voi la stessa quota che vi tocca nella medesima
proporzione”), Rosmini si chiede “come
si potrà dire che questa nazione sia libera”,
nel momento in cui l’imposizione fiscale
non è sintonizzata sul consenso dei
tassati e si fa così confiscatoria. Sappiamo,
che la carta del 1948 parla diversamente.
Ma la Costituzione del Rosmini, per gli eredi
del cattolicesimo liberale, davvero impallidisce,
al confronto?

Alberto Mingardi