di Mauro Gemma
L’aspro scontro, in corso da anni nel Partito Comunista della Federazione Russa e acutizzatosi dopo la dura sconfitta elettorale del dicembre 2003, tra i sostenitori del presidente Ghennadij Zjuganov, oggi duramente contrapposti all’amministrazione Putin, e l’ala che fa riferimento a Ghennadij Semighin (ex responsabile del Comitato Esecutivo dell’Unione Popolare Patriottica di Russia, l’alleanza che ruota attorno al PCFR, già espulso dal partito nel marzo scorso), ha avuto il suo drammatico epilogo nella frattura consumatasi nei primi giorni di luglio, in occasione dello svolgimento del decimo congresso. O, sarebbe meglio dire, dei due congressi avvenuti in contemporanea, in cui i contendenti, rivendicando entrambi la maggioranza dei consensi, si sono reciprocamente delegittimati.
Le ragioni del contenzioso sono numerose e riconducibili, in particolare, alla critica che viene avanzata nei confronti di una gestione giudicata eccessivamente “personalistica” del presidente Zjuganov, ma anche alla diversa valutazione dell’atteggiamento da tenere nei confronti della politica di Putin, considerato, dagli oppositori di Zjuganov, il “capofila” di quella “borghesia nazionale” impegnata oggi in un duro scontro con i grandi oligarchi, affermatisi nell’era Eltsin, e alleati degli interessi imperialistici, in particolare americani. La critica rivolta a Zjuganov è appunto quella di aver cercato, negli ultimi anni, di instaurare alleanze tattiche con i magnati (ottenendo finanziamenti e appoggi politici), in funzione antipresidenziale.
Da parte loro, i sostenitori di Zjuganov accusano i critici di essere “marionette” manovrate dal Cremlino, intenzionato a spingere il partito comunista verso l’approdo della sua completa socialdemocratizzazione e della subalternità a politiche “autoritarie” e “antipopolari”.
Con Zjuganov si è schierata la maggioranza dei più alti dirigenti del partito, tra cui Ivan Melnikov, eletto primo vicepresidente al posto di Valentin Kuptzov (dimessosi polemicamente alla vigilia del congresso, ma rimasto con Zjuganov e riconfermato nell’Ufficio Politico). Anche Nikolay Kharitonov, candidato alle ultime elezioni presidenziali, si è schierato nettamente con Zjuganov. Il leader del PCFR può contare anche sul sostegno di dirigenti “storici”, come, ad esempio, Egor Ligaciov, ex “numero due” del PCUS dei tempi di Gorbaciov. Anche la generazione più giovane di dirigenti ventenni e trentenni si è schierata con Zjuganov: è il caso di Ilya Ponomariov, acceso fautore di una “modernizzazione” del partito e di audaci alleanze, che includano quelle forze che vanno dalla “nuova sinistra” ai partiti liberali vicini agli oligarchi, unite nella critica all’ “autoritarismo” di Putin e che auspicano la costruzione di processi che favoriscano l’emergere di una “normale” dialettica democratica di tipo “occidentale”.
Agli “scissionisti”, capeggiati, oltre che da Semighin, anche da Vladimir Tikhonov, governatore della regione di Ivanovo, eletto presidente del partito “alternativo”, e dagli ex segretari del comitato centrale Serghey Potapov e Tatjana Astrakhankina, si sono aggiunti i rappresentanti di quella che può essere definita la componente “leninista” del partito. E’ il caso di Aleksandr Kuvajev, segretario dell’organizzazione moscovita, noto per le sue posizioni “di sinistra”, di Aleksandr Shabanov, e degli intellettuali Viktor Trushkov e I. Osadcij, già appartenenti all’ “Associazione degli studiosi di orientamento socialista” (RUSO), editrice della rivista teorica “Dialog”.
In merito agli ultimi sviluppi della drammatica lacerazione del PCFR, ci riserviamo di intervenire nei prossimi numeri di “Nuove resistenti”, con la traduzione di documenti originali e nostri più dettagliati commenti.
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