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    Predefinito ROMA ,IL NOME SEGRETO !

    Fra i tanti misteri di Roma c'è quello del suo nome. Quando gli storici antichi cominciarono a interrogarsi sulla sua origine e sul significato, si erano già recisi i fili della memoria e le interpretazioni si accumulavano : contraddicendosi; né i moderni sono riusciti a giungere a una conclusione convincente. Servio, vissuto tra il quarto e il quinto secolo d.C., sosteneva che derivasse da un nome arcaico del Tevere, Rumon o Rumen, la cui radice era analoga al verbo ruo, scorro; sicché Roma avrebbe significato la Città del Fiume. Ma Servio era il solo a collegare il nome al Tevere, il quale d'altronde era stato chiamato anche Albula per la presenza di argille nel suo letto '.
    Gli storici di lingua greca, ispirandosi a Ellanico di Lesbo, vissuto nel quinto secolo a.C., narravano invece sulla scia dell'Iliade l'arrivo di un gruppo di profughi troiani sulle coste del Lazio dove il loro capo, Enea, avrebbe fondato la città dandole il nome di una delle donne, Rome, che stanca di vagabondare da una terra all'altra aveva convinto le sue compagne a bruciare le navi 2. In un'altra versione della leggenda Rome diventava la figlia di Ascanio e nipote di Enea ; e in un'altra si narrava che Rome, una troiana giunta in Italia con alcuni suoi compatrioti, sposò Latino, re degli Aborigeni, ed ebbe tre figli, Romos, Romylos e Telego- che fondarono una città chiamandola col nome della madre 4.
    In questi e altri racconti si riscontra un elemento comune, la derivazione del nome da un'eponima Rome di cui è certo perlomeno l'etimo: rome, che in greco significa forza. È evidente il tentativo dei Greci, che si ritenevano non senza un'eccessiva presunzione i civilizzatori dell'Italia come di altre regioni mediterranee, di considerare Roma una città di origine ellenica.
    La leggenda di Enea fuggiasco da Troia era già nota agli Etruschi fin dal sesto secolo, sicché Ellanico potrebbe averla riscritta con l'epilogo della fondazione di Roma, avendo notato che il suo nome era simile a rome.

    I NOMI DI ROMA
    Un millennio dopo, Servio per restituire Roma giustamente agli italici sosteneva che l'etimo greco non era se non la traduzione del nome originario della città: «Ateìo», scriveva, «asserisce che Roma, prima dell'avvento di evandro, fu a lungo chiamata Valentia e poi Roma con nome greco»

    Secondo una variante a queste leggende, a Enea era succeduto Ascanio che aveva diviso il regno dei Latini in tre parti con i fratelli Romylos e Romos. Ascanio avrebbe fondato Alba e altre città mentre Romos avrebbe dato il proprio nome a Roma. Poi la città rimase disabitata per qualche tempo finché non vi s'insediò un'altra colonia guidata da due gemelli, Romylos e Romos, che la rifondarono con lo stesso nome

    Vi è infine un terzo gruppo di interpretazioni la cui fondatezza non è da escludere. Si congettura che l'abitato del Palatino, il cui primo nucleo centrale risale all'incirca alla fine del secondo millennio a.C., avesse un altro nome, sostituito durante la dominazione etrusca da Ruma, che i Latini avrebbero poi pronunciato Roma. 11 passaggio dalla u alla o è spiegabile, secondo alcuni filologi che hanno riconosciuto nell'aggettivo rnminalis, nell'epiteto di Giove Ruminus e nella dea Rumina il nome di Roma, con un vocalismo etrusco che oscura la o in u 7.
    Ma, stabilita la supposta origine etrusca della parola, che cosa mai poteva significare? Si è sostenuto che Ruma fosse un gentilizio etrusco, testimoniato da qualche iscrizione la cui interpretazione ha suscitato tuttavia molte discussioni. È certo invece che ruma, con le varianti rumis e rumen, significava sia nel latino arcaico che nell'etrusco, da cui derivava, «poppa». Narra a questo proposito Plutarco nella Vita di Romolo: «Sulla rive dell'insenatura sorgeva un fico selvatico che i Romani chiamavano Ruminalis o, come opina la maggioranza degli sludiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti usavano rilirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzodì, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma o poppa: oggi ancora chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l'allattamento dei bambini. Ad essa si offrono libagioni d'acqua, e nei sacrifici in suo onore si cospargono le vittime di latte».

    Se questa fosse l'origine del nome, si potrebbe interpretare ruma, come suggerisce lo Herbig, non soltanto come mammella o petto che offre il nutrimento e la vita ma anche, in senso traslato, come sede delle forze vitali racchiuse nel petto: dunque come «forte», omologo al latino I '(tienila e al greco Rome .

    Questa ipotesi interpretativa spiegherebbe perché venne scelta in epoca storica, come simbolo della città, la lupa di fattura etrusca identico a quello del misterioso dio che la tutelava; mai svelati pubblicamente nonostante che Giovanni Lorenzo Lido affermasse nel quinto secolo d.C.: «Impugnata la tromba liturgica, che i Romani chiamavano lituus, Romolo pronunciò il nome della città... Una città ha tre nomi: uno segreto, uno sacrale e uno pubblico. Il nome segreto dì Roma è Amor; quello sacrale Flora e Florens; quello pubblico Roma» .

    Che il nome segreto fosse Amor era una tarda e infondata credenza, avallata poi nel medioevo e giunta fino a noi come testimonia Giovanni Pascoli scrivendo nell'Inno a Roma:
    Risuoni il nome che nessun profano sapea qual fosse, e solo nei misteri segretamente s'inalzò tra gl'inni... Amor! oh! l'invincibile in battaglia!
    È pur vero che la lettura del nome di Roma da destra a sinistra era conosciuta fin dall'antichità, come testimonia un graffito trovato sulla parete di una casa di Pompei, nella via tra le insulare vi e rx della prima regione: sono quattro righe disposte a quadrato, quasi allusioni alla Roma quadrata del Palatino. Le lettere esterne, partendo dall'alto e scendendo verso il basso per poi proseguire a destra e infine verso l'alto, compongono il nome di Roma alternato a quello di Amor in una sequenza dove l'ultima vocale o consonante diventa la prima lettera della parola successiva: ROMAMOROMAMOR.

    Ma quel graffito non può rivelare il nome segreto che era tutelato severamente, come attesta Servio ancora nel quinto secolo d.C.: «Nessuno pronuncia il vero nome dell'Urbe, persine nei riti. E così dunque Valerio Sorano, tribuno della plebe, poiché ardì pronunciare questo nome, fu rapito per ordine del Senato e posto in croce, come dicono alcuni storici; secondo altri, per timore del supplizio fuggì e in Sicilia, catturato dal pretore, venne ucciso per ordine del Senato».
    Secondo la tradizione romana - riscontrabile oggi ancora in molti Paesi non occidentali - il nome era la formula che esprimeva l'energia di ciò che si nominava. Conoscere il nome era conoscere la cosa, sicché la conoscenza del nome dava le chiavi per poter influire - nel bene e nel male - sulla cosa stessa. Conscguentemente i Romani usavano evocare negli assedi il dio che aveva in tutela la città assediata promettendogli un culto pari o maggiore in Roma. «Per questo motivo i Romani», scriveva Servio «vollero che fosse celato il dio nella tutela del quale è Roma, e nelle leggi pontificali si badò bene a non chiamare con i loro nomi gli dei di Roma affinchè non potessero essere oggetto di exauguratio. Sul Campidoglio vi fu uno
    scudo consacrato sul quale era scritto: Al Genio della città di Roma, maschio o femmina [Genio Urbis Romae sive mas sive femina]. E i Pontefici così invocavano: Giove Ottimo Massimo, o con qualunque altro nome tu voglia essere chiamato.»

    È impossibile dunque che il nome segreto della città sia pervenuto fino a noi perché chi era autorizzato a conoscerlo non lo avrebbe mai affidato a uno scritto, che poteva cadere nelle mani di un non iniziato provocando un sacrilegio; e se fosse stato trasmesso oralmente fino ad oggi, ipotesi che non si può totalmente escludere, non sarebbe svelato. Quanto alla storia del tribuno della plebe giustiziato per aver pronunciato il suo nome, sembra più un ammonimento che una notizia fondata perché era impossibile che il nome arcano potesse essere conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di aristocratici, ovvero di iniziati.
    Oggi si possono proporre soltanto alcune ipotesi non per individuare il dio sive mas sive femina e con lui il nome segreto di Roma, ma per coglierne le manifestazioni o i nomi proposti exotericamente alla venerazione pubblica. Ci pone sulla buona strada non tanto l'affermazione di Iido che il nome sacrale era Flora, la Sempiterna Fiorente celebrata alla line di aprile nei Floralia, giochi festosi e sensuali che talvolta sconfinavano durante le notti in spettacoli osceni, quanto il non casuale culto congiunto di Venere Genitrice e di Marte Ultore che la restaurazione religiosa augustea vede come divinità tanto complementari da dedicare loro lo stesso Pantheon.
    Si potrebbero interpretare le due divinità come i due aspetti complementari della ruma, della mammella: Venere esprimerebbe la funzione materna, Marte quella guerriera, virile; sicché non sarebbe del tutto infondato affermare che il nome di Roma, letto da destra a sinistra, alluderebbe al dio padre di Romolo e Remo e difensore della città, mentre la lettura da destra a sinistra alluderebbe a Venere, madre di enea e progenitrice del popolo romano.
    Ma entrambi non sono se non ipostasi della misteriosa divinità androgina cui possono attribuirsi molti nomi, anch'essi pronunciabili ovvero exoterici. La si può evocare per esempio come Mater Magna, che nel mito frigio assumeva le sembianze dell'ermafrodito Agdistis o Cibele: o non casualmente Cibele era adorata sul Palatino dov'era stata portata dall'Asia Minore nel 205-204 a.C. Oppure può assumere le sembianze del dio purificatore e fecondatore, venerato anticamente sul monte Soratte col nome di Soranus, il Lupo, da sacerdoti sabini chiamati lupi: (il Soranus che Virgilio non causalmente identificava con Apollo, il dio patrono di Augusto.
    Non si sorprenda il lettore di questa proteiforme epifania di divinità, normale in una religione «politeistica» dove, come osservava il cardinal
    Cusano ne La dotta ignoranza, i nomi dei vari dei non sono esplicazioni e aspetti funzionali di un unico ineffabile nume: nomi tratti in realtà dalla considerazione delle varie relazioni che Egli ha con le creature. Uno ineffabile che non ha un sesso definito, perché «la causa di tutte le cose», spiegava il teologo e filosofo umanista, «ossia Dio, complica in sé il sesso maschile e femminile... Anche Valerio Romano sostenendo lo stesso concetto, cantava Giove come onnipotente genitore e genitrice».
    A questa divinità senza nome, sive mas sive femina, Adriano s'ispirò costruendo nel secondo secolo il maestoso tempio di Venere a Roma, lungo 145 metri e largo 100, volendo significare che il nome palese dell'Urbe deificata s'identificava con la forza cosmica di coesione e di vita designata exotericamente con il nome della dea che aveva generato Enea. L'imperatore romano alludeva enigmaticamente in un gioco di specchi all'ineffabile realtà che si celava dietro le due immagini. «I templi di Roma e Venere sono della stessa grandezza e alle due divinità si offrivano incensi contemporaneamente» cantava il poeta Prudenzio due secoli dopo: «Urbis Venerisque pari se culmine tollunt Templea: simul geminis adolentur tura deabus».
    Ultima modifica di acchiappaignoranti; 08-12-09 alle 10:29
    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

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    Predefinito Rif: ROMA ,IL NOME SEGRETO !

    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

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    Predefinito Rif: ROMA ,IL NOME SEGRETO !

    Citazione Originariamente Scritto da acchiappaignoranti Visualizza Messaggio
    Per questa ragione Angerona, dea del silenzio, è venerata nei templi prima dei giorni sacrati a Giano; e a nessuno è permesso pronunciare in pubblico quel nome, che, per la salvezza dello Stato, vollero gli antichi restasse nella bocca chiusa e nel la profondità del petto. Sorano pagò la pena per la violazione di tale segreto.
    Adunque non fu Roma che ebbe il suo nome da Romolo, ma al contrario, Romolo lo ebbe da Roma e di essa ancora resta occulto il significato.
    Roma, si legge che fu cominciata ad abitare, poco meno di ottocento anni prima di Romolo, da Italo nell'Aventina Capena, e da Roma sua figlia sul colle Palatino, e, prima di costoro oltre trecento anni innanzi nel Secolo d'oro di Saturno dovè ora e il tempio di Saturno alle radici del colle Capitolino
    Ma Romolo soltanto da un piccolo centro abitato, chiamato Roma, sul colle Palatino costruì la città quadrata e regia la quale era divisa in parti chiamate Roma, Velia, Germalia, dove era il Fico Ruminale e la dimora di Rumulo, detto poi Romulo dalla occulta derivazione del nome.
    La città venne fondata chiamando i vati amici etruschi consacrando la fossa dove è il capo del Centauro, e, secondo gli auspici! del prudente vate, conducendo il pomerio intorno al Palatino col sacro aratro nel giorno undecimo avanti alle Calende di maggio (21 Aprile) tra la seconda e la terza ora, essendo il Sole nel Toro, la Luna nella Libra, Saturno, Venere, Marte, Mercuno nello Scorpione e Giove nei Pesci, come afferma Lucio Tarunzio, il più bravo matematico...
    I Sabini venuti a patti con i Tusci, abitarono il Campidoglio e il Quirinale, dove in seguito abitò anche Numa. Romolo e i Ramnesi dimorarono sull'Esquilino, sul Palatino e sul Celio I Tusci Luceri sul Viminale e nella sottostante convalle fino al tempio di Saturno, alle radici del Campidoglio. Al fratello Remo, al tempo di Romolo, restò l'Aventino.
    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

  4. #4
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    Predefinito Rif: ROMA ,IL NOME SEGRETO !

    Giovanni Lido, il tardo scrittore bizantino, ci rivela (20), che i nomi di Roma erano non due, ma tre: uno civile, ossia profano, "Roma", un secondo sacro, "Flora", il terzo arcano e misterioso, "Amor".
    Secondo la tradizione, "Flora" trarrebbe origine da un episodio del regno di Tarquinio Prisco. Volendo egli infatti costruire sul Campidoglio, aveva invitato gli auguri a spostare i numerosi altari che si trovavano su quel Colle. E infatti tutti furono spostati, tranne quelli di "Terminus" e "luventas" (21): di fronte al rifiuto di quelle divinità di essere rimosse, gli auguri trassero il vaticinio che mai Roma ridurrebbe i suoi confini o scenderebbe dalla sua altezza. Da qui i nomi di "Flora" la fiorente e di "Valentia" (o Roma) la forte. Quanto al terzo nome, "Amor", Giovanni Lido lo poneva in relazione al nome di "Amaryllis" (Virgilio, Egl. 1,5), nel quale i commentatori vedevano una delle misteriose denominazioni di Roma.
    La duplicità - o la triplicità - del nome occulto di Roma, fa pensa¬re alla duplicità di uno dei più antichi numi della città, a Giano Bifronte. E se un volto significasse il nome profano e simbolizzasse la potenza ("Roma", "Marte", ecc.) e l'altro il nome sacro e la generazione ("Flora", "Venere", ecc.).
    Che il nome arcano.dovesse riconoscersi in mezzo agli altri due, nel volto invisibile del Dio (22)? Lido è comunque dell'avviso che il nome occulto ("Amor"), dqvesse trarsi per via di matatesi dal nome profano ("Roma") .
    Giano degli Albenghi

    tratto da IL NOME ARCANO DI ROMA di PIETRO de ANGELIS il basilisco libreria editrice

    (20) G. Lido, De Mens., ed. Bekker 1837, pp. 85-6.
    « Una città ha tre nomi: uno segreto, uno sacerdotale, ed uno pubblico. Quello segreto è "Amor"...; quello sacerdotale è "Flor" o "Florens" (e ciò spiega anche perché questo giorno era celebrato con le "Floralia"); quello pubblico è "Roma" ».
    (21) Varrone, De ling. Lat. V, 41. Livio V, 54.
    (22) Cfr. R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacre, Paris 1962, pp.
    145-151 e pp. 250-253.
    G. de Giorgio, La tradizione romana, 1973, Milano, pp. 167-182.
    J. Evola, La tradizione di Roma, Padova 1977, pp. 131-136.
    G. Cappelli, / mesi ante/amici nel Battistero di Parma, Parma 1976, pp. 45-46.
    Per le raffigurazioni trifronti nella tradizione cristiana, cfr. E. Male, L'art reli-
    gieuxau XIIIsiede, Paris 1931, p. 70, e più in generale, R. Petazzoni, L'onni-
    scenza di Dio, Torino 1955, pp. 242 sgg.
    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

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    Predefinito Rif: ROMA ,IL NOME SEGRETO !

    per saggiare altre valutazioni segnale anche il seguente



    La creazione giuridica della realtà ed il rapporto con la stessa, oltre che da una qualifica del tempo attraverso l’azione dei Pontefici, dipendeva in grandissima parte da una precisa ritualità. Non esistono religione e diritto senza rito, ma forse in nessuna cultura l’azione rituale è così pregnante e fondamentale come a Roma, tanto che la tradizione romana è giuridico-religiosa, come abbiamo già sostenuto. Vogliamo ricordare che la radice della parola “rito” è la stessa di “rtà”, termine sanscrito che significa: ordine universale, l’idea cosmogonica della religione Vedica. Ciò che intanto va evidenziato è che, tra le varie funzioni, con il rito il romano crea il magistrato, la legge, realizza per il singolo la possibilità di entrare nella storia, con il conferimento attraverso il rito di uno “jus”; ed è proprio la capacità di conferire “iura” a qualificare selettivamente il rito romano. Infatti, senza jura non si sta nella storia e quindi non si esiste. L’aspetto fondamentale consiste nel fatto che lo ‘jus” creato attraverso il rito è sempre ed assolutamente un superamento di uno “jus” naturale, e quindi è il fas dello jus, cioè il dhàrman del rtà, l’ordine del rito secondo il diritto degli dèi.

    Lo ius naturale era chiamato “ius gentium”, e con tale termine s’intendevano a Roma le gentes, le varie unità familiari, all’esterno le grandi unità etniche definite “nationes” e contraddistinte da un “nomen”, tanto che “nomen” diventa sinonimo di “natio”. Lo ius naturale è un “ius sanguinis”, esso deriva unicamente dall’esser nato in una data famiglia o in una determinata nazione. Lo ius conferito dal rito, dove il significato autentico del primo combacia con quello del secondo, è invece un “ius civile”, deriva dalla partecipazione alla “civitas” e testimonia il superamento dello ius naturale; il che in termini storici si realizza, rendendo prima all’interno “cives romani” i plebei, poi all’esterno le “nationes”. La formula sacer/profanus = publicus/privatus, nasce pertanto dal superamento di una condizione nella quale al posto dello “ius civile” e dello “Stato” Romano, (che è la res publica la quale è in sostanza res populi) esistono le comunità ed etnie formanti le varie “Nationes” dei popoli italici. I singoli, detti privi, sono collegati per nascita ad un territorio che fa capo ad un tempio, detto “fanum”, ed ognuna di queste unità politico-territoriali è sorretta religiosamente dal culto al proprio fanum. In tale situazione, ogni rapporto con il sacro si svolge nei limiti della distinzione tra ciò che appartiene al singolo (pro-privo, propius) e ciò che appartiene al fanum (pro-fano, profanus). Contro questo stato di cose si contrappone la “civitas”, Roma, che assorbe e trasforma le comunità dei fana. La figura giuridica del “civis romanus” rompe la relazione che legava il singolo al fanum, viene così a cessare la contrapposizione propius/profanus. Il “civis” esiste ora in relazione alla “civitas”, venendo così a formarsi una nuova contrapposizione, quella tra publicus (ciò che appartiene al populus come totalità dei cives) e privatus; e quindi sacro = pubblico; profano = privato. Ed è la nascita della nozione stessa di diritto pubblico (che è solo occidentale: la cultura orientale la ignora) e che contiene, semanticamente, la congiunzione, tipicamente romana, dell’idea del sacro con quella della comunità.

    La rottura dei rapporti con il fanum comporta anche una rivoluzione religiosa oltre che giuridica e politica. Il termine profanus non indica più “ciò che è stato dedicato ad un Dio”, ma ora indica “ciò che è lontano dal sacro”, e questo nuovo significato del termine profano si completa contrapponendosi ad una nuova sacralità, quella appunto di sacer in opposizione a profanus. Tale nuova sacralità non è più quella naturalistica ed in fondo passiva dell’appartenenza ad un fanum, ma quella attiva del “voluto”, secondo il principio fondamentale della spiritualità romana: il voluto è come dato. Tutto appartiene ora alla “civitas” ed è ora l’uomo, con la sua volontà, con il suo sacrificio, con il suo agire in conformità all’ordine divino, anzi realizzandolo, a rendere sacra la realtà, in una sintesi creativa che ancora non conosce la frattura degli Stati moderni tra politica, religione e diritto.

    Abbiamo così inteso, con queste poche righe e riprendendo concetti già altrove sviluppati, dare una visione d’insieme degli elementi essenziali che, a nostro avviso, qualificano ciò che, come concezione spirituale della vita e del mondo, si deve intendere per Tradizione Romana. Essa così appare l’anima medesima, anche se purtroppo dormiente ed appesantita da un ottundimento ormai secolare, dell’uomo europeo, la sua unica via di salvezza dalla decadenza totale che lo travolge.

    (saggio pubblicato sulla fanzine Camelot e nel libro Res Publica Res Populi per le Edizioni Victrix).
    Ultima modifica di acchiappaignoranti; 09-12-09 alle 12:23
    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

  6. #6
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    XXI Aprilis MMDCCLXIV a.U.c.

    AVGVRI DEA ROMA!

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    Predefinito Rif: ROMA ,IL NOME SEGRETO !

    Ed io che pensavo che il nome segreto di Roma fosse Amor.

  8. #8
    Nemo me inpune lacessit
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    L’Identità Segreta della Divinità Tutelare di Roma
    Un riesame dell’affaire Sorano



    Autore: De Martino Marcello
    Editore: Settimo Sigillo
    pp. 256, ill. a colori, Roma Prezzo: € 26,00


    Roma, città a capo di un impero millenario, era protetta da una divinità il cui nome era tenuto segreto affinché questo numen tutelare non potesse essere evocato dai nemici e passare così alla parte avversa. L’identità celata del dio custode dell’Urbe ha acceso un grande dibattito tra gli studiosi della religione romana sin dai tempi antichi: varie ipotesi di identificazione sono state avanzate, ma l’enigma resiste ancora a ogni tentativo di soluzione. Solo un erudito romano sembra essere riuscito a individuare il nome e le caratteristiche del Genius urbis Romae: Quinto Valerio Sorano, il quale fu condannato alla pena capitale per aver rivelato l’arcano. Marcello De Martino, mettendo le scarne testimonianze antiche sotto nuova luce introspettiva, riannoda i fili di una storia che il tempo ha lacerato e offre una nuova teoria risolutiva su tale vexata quaestio.

  9. #9
    Nemo me inpune lacessit
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