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Discussione: Tutti per Onu....

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    Predefinito Tutti per Onu....

    ...Onu per tutti

    Pubblichiamo un articolo tratto dal prossimo numero di Aspenia, che uscirà lunedì.
    La rivista trimestrale dell’Aspen Institute Italia, diretta da Marta Dassù, titola scherzosamente “Tutti per Onu. Onu per tutti”.
    E’ dedicata alle Nazioni Unite, alla crisi delle istituzioni internazionali e alle proposettive di riforma.
    Questo numero propone un’intervista al segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan e, tra gli altri, interventi di Sergio Romano, Giandomenico Picco, Anne-Marie Slaughter, Carlo Jean, Beda Romano.
    L’articolo di cui pubblichiamo ampi stralci, “Caucus delle democrazie”, è stato scritto da Kim R. Holmes, vicesegretario di Stato per gli Affari con le organizzazioni internazionali nell’Amministrazione Bush.

    Da tempo, gli Stati Uniti chiedono delle riforme che rendano le Nazioni Unite più efficienti e più efficaci.
    Ci rendiamo perfettamente conto che non esiste alcun altro forum multilaterale in cui nazioni antiche e immense, come la Cina, e nuove e minuscole, come Timor Est, possano collaborare affrontando insieme minacce globali come il terrorismo e la proliferazione delle armi di distruzione di massa, e problemi difficili come le carestie, l’HIV/AIDS o il traffico di persone.
    Quando parliamo della necessità di riformare l’Onu, dobbiamo stare bene attenti a non fare di ogni erba un fascio. Alcune parti dell’Onu funzionano relativamente bene, per esempio alcune agenzie tecniche e specializzate (…). In questi casi, riformare di solito significa cercare il modo di migliorare l’operatività e l’uso delle risorse. Tuttavia, esistono altre parti del sistema Onu, come la Commissione per i diritti umani (CHR) e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che richiedono un esame più attento. Questi organi adottano spesso risoluzioni che hanno poco o nessun impatto sui problemi incombenti. Riformare queste parti sarà più difficile, perché significa affrontare problemi che vanno dalla definizione della condizione di appartenenza a un dato organismo fino alla sfera della sua attività.
    In alcuni casi, a nostro avviso, non è necessario intervenire sull’apparato o sulla dottrina di una data agenzia o di un dato organismo.
    Ciò che dovrebbe cambiare, piuttosto, è l’approccio mentale dei membri con poteri decisionali.
    Troppo spesso prevalgono – invece che l’impegno a favore di quei valori e di quei principi (pace, sicurezza, diritti umani e libertà) su cui venne fondata l’Onu – realtà politiche estranee alle Nazioni Unite, interessi angusti e una predilezione evidente per lo status quo.
    Eppure la Carta delle Nazioni Unite sancisce che i suoi membri si attengano ai principi in essa contenuti.
    I fondatori avevano molto chiaro che è il carattere degli Stati membri a determinare il successo delle Nazioni Unite. Attribuire uno status di parità al punto di vista dei paesi democratici e a quello dei paesi non democratici – le cui decisioni riflettono solo molto raramente il consenso di coloro che sono sottoposti a tali regimi – genera nei fori delle Nazioni Unite una tensione intrinseca, che mina l’efficacia del processo decisionale.
    Dare eguale credito al punto di vista dei governi che rispettano il diritto internazionale e a quello dei governi che, come quello di Saddam Hussein, lo violano apertamente, è difficilmente la ricetta giusta per il progresso, o la pace. Da quando le prime cinquanta nazioni firmarono la Carta delle Nazioni Unite, il mondo è diventato sempre più democratico. (…) Visto che le democrazie impegnate nelle Nazioni Unite sono ormai così numerose, ci si aspetterebbe che gli organismi e le attività dell’Onu assumessero sempre più il carattere, i valori e la visione delle democrazie.
    Ma non è sempre così. La Commissione per i diritti umani, per esempio, conta fra i suoi membri alcuni regimi autocratici dove i diritti umani sono sistematicamente violati, come Cuba, Sudan e Zimbabwe.

    Lo scandalo della Commissione sui diritti
    Spesso ci sentiamo domandare come ciò sia possibile. La risposta è semplice, ma insoddisfacente. La candidatura di questi regimi alla massima organizzazione mondiale per i diritti umani vengono avanzate dal loro blocco regionale, con il suo potere di voto.
    In questo blocco sono presenti alcuni paesi che a volte sembrano operare soprattutto per difendere dalle critiche questi loro vicini, piuttosto che spingerli a modificare il loro modo di procedere. (…) La Commissione per i diritti umani oggi è al centro dell’attenzione, ma anche il funzionamento di molti altri organismi dell’Onu si presta a forti riserve. Fra azioni e principi fondamentali delle Nazioni Unite continua a esistere uno scarto evidente. L’apparato stesso delle Nazioni Unite è diventato immenso, goffo e dispendioso; spesso lento ad agire, e a volte molto poco trasparente.
    E’ giusto che un sistema del genere venga messo in discussione dall’opinione pubblica.
    Dopo sessant’anni di attività dell’Onu, fin troppe persone vivono ancora sotto dittature brutali, sono esposte a conflitti, o si vedono negare i loro diritti umani. Fin troppi innocenti sono vittime del terrorismo.
    E’ giusto che i paesi esercitino delle pressioni decise per ottenere quei cambiamenti che permettano alle Nazioni Unite di aiutare con una maggiore efficacia queste persone.
    Per la popolazione mondiale, il rischio maggiore è la mancanza di una riforma dell’Onu, e non certo che l’Onu venga riformata.
    Per quello che riguarda la Commissione per i diritti umani e alcuni altri organismi delle Nazioni Unite, ritengo che la chiave del successo stia nel migliorare le caratteristiche dei membri che la compongono. Se i membri della Commissione si impegnassero effettivamente e maggiormente nella protezione e nella promozione dei diritti umani, le loro decisioni avrebbero il peso morale che il mondo vuole che esse abbiano.
    La chiave per riformare una qualsiasi parte del sistema delle Nazioni Unite è molto semplice: dipende dalla volontà effettiva degli Stati membri, così come dei funzionari del Segretariato, di attenersi ai principi sanciti dalla Carta e dalla volontà di prendere le decisioni difficili.
    Le agenzie dell’Onu svolgono in casi specifici un gran buon lavoro, che va dagli aiuti ai rifugiati alla distribuzione di aiuti alimentari, al monitoraggio delle elezioni e alla costruzione della democrazia, fino al contenimento della Sars, alle vaccinazioni e agli standard di sicurezza nei trasporti aerei e marittimi. (…) In genere, si sono raggiunti questi buoni risultati perché le agenzie si sono concentrate su missioni specifiche, chiare e con obiettivi raggiungibili. Inoltre, nella maggior parte dei casi di successo, sono riuscite a non politicizzare il loro lavoro.
    Gli organismi politici come il Consiglio di Sicurezza raggiungono buoni risultati quando i loro membri riescono ad accordarsi, collettivamente, sulla via da seguire.
    L’attività del Consiglio di Sicurezza riflette sempre realtà esterne al Consiglio stesso. Eppure i membri del Consiglio riescono spesso ad autorizzare azioni importanti, finalizzate per esempio all’attuazione di accordi di pace o al mantenimento di accordi di cessate il fuoco: il che, evidentemente, rafforza la pace e la sicurezza, regionale o internazionale.
    Inoltre, dopo l’11 settembre, il Comitato per il controterrorismo e il Comitato delle sanzioni hanno contribuito a rafforzare la capacità degli Stati di combattere il terrorismo, perseguendo i terroristi e coloro che li sostengono.
    Di recente, il Consiglio di Sicurezza ha adottato una risoluzione sulla non proliferazione, che impone agli Stati membri di considerare illegale il trasferimento di armi e materiali pericolosi a soggetti non statuali. Inoltre, nella risoluzione si invitano gli Stati “a intraprendere azioni cooperative per prevenire” la proliferazione in accordo alla legislazione nazionale e internazionale. E’ proprio quanto stanno facendo i paesi che hanno aderito alla “Proliferation Security Initiative”, proposta dagli Stati Uniti: di fatto, la risoluzione delle Nazioni Unite dà a questa iniziativa contro la proliferazione un importante supporto politico.
    Le Nazioni Unite sono in sostanza un organismo politico.
    I suoi membri sono Stati, la cui sovranità è riconosciuta dalla Carta dell’Onu. Nei fori dell’Onu, grandi potenze lavorano insieme con potenze emergenti, con nazioni che stanno sviluppando il libero mercato, e addirittura con alcuni Stati sull’orlo del fallimento, per affrontare alcuni dei difficili problemi che il mondo ha davanti.

    Quello che invece non funziona
    E’ nell’interesse di ogni nazione proteggere la pace, promuovere la sicurezza e il benessere economico, difendere la libertà.
    Il sistema delle Nazioni Unite vacilla quando programmi avviati con le migliori intenzioni si protraggono ben oltre la loro utilità, consumando risorse che potrebbero essere meglio utilizzate. Ed entra in crisi quando i problemi diventano così politicizzati da rendere impossibili soluzioni praticabili.
    Il sistema Onu vacilla quando i suoi membri si accontentano di soluzioni fondate sul minimo comune denominatore, solo per ottenere il consenso; e quando viene consentito di esercitare comunque un’influenza a coloro che abusano dei loro cittadini, appoggiano le azioni terroristiche o partecipano alla proliferazione delle armi di distruzione di massa.
    La storia ricorderà la Commissione per i diritti umani di quest’anno per la sua incapacità di assumere una posizione forte contro la tragedia che si è compiuta in Sudan, nella regione del Darfur.
    La Commissione per i diritti umani ha bisogno di una riforma, così come l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
    In questo organismo, che ha una membership universale, gli Stati membri hanno uguale voce, indipendentemente dai loro precedenti o dal loro comportamento.
    Anno dopo anno, i rappresentati di 191 paesi passano mesi a discutere, a negoziare e a votare le stesse risoluzioni. L’Assemblea generale presiede inoltre un labirinto di comitati, agenzie, conferenze, programmi e commissioni.
    (…) La conseguenza, fra l’altro, è che i membri che sostengono la maggior parte delle spese non hanno abbastanza voce in capitolo sulle priorità di bilancio e la definizione dei programmi. Sicuramente si potrebbe fare di più per rendere più sensato il lavoro dell’Assemblea generale.
    (…) Tuttavia, le cose cambieranno di poco se non cambierà la volontà politica, se non si deciderà di aderire ai principi e se continueranno a prevalere interessi a breve termine o visioni parrocchiali.
    (…) Per rendere più efficace ce l’attività delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti, in collaborazione con altri Stati e con il segretariato delle Nazioni Unite, hanno avanzato delle proposte di riforma di natura amministrativa e programmatica. Per esempio, abbiamo sostenuto la necessità di riconoscere al segretario generale una maggiore flessibilità di gestione.
    Per quanto riguarda il segretariato, il Who, l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), e l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), abbiamo accolto favorevolmente l’istituzione del ruolo di ispettore generale, insieme all’introduzione della valutazione dei programmi e di stanziamenti basati sui risultati conseguiti.
    Riteniamo che qualsiasi riforma debba riflettere principi fondamentali di trasparenza, di responsabilità, di affidabilità, di efficacia, di organizzazione, di modernizzazione e di libertà.
    (…) Responsabilità significa che coloro che si assumono l’onere di finanziare e attuare decisioni dovrebbero avere più voce in capitolo nel processo decisionale. Significa anche che i paesi che contribuiscono in maniera significativa alla pace e alla stabilità internazionali meritano di sedere nel Consiglio di Sicurezza; gli Stati che sponsorizzano il terrorismo certamente no.
    Di conseguenza, qualsiasi intervento per modificare la composizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dovrà riflettere questi principi di affidabilità e di responsabilità, senza che il Consiglio diventi più incontrollabile di quanto già non sia.
    Una razionale utilizzazione delle risorse che il mondo destina alle Nazioni Unite è importantissima.
    (…) Occorre eliminare ogni spreco ed evitare le duplicazioni che divorano le risorse, promuovendo una razionalizzazione dei programmi e delle attività e introducendo clausole temporali.
    Inoltre, il lavoro delle Nazioni Unite nel campo dello sviluppo dovrebbe essere rivolto a fare capire ai paesi in crescita come
    imparare a utilizzare le forze del mercato, ad affrontare la corruzione e a consolidare la rule of law.
    Aiutare gli individui a ottenere il riconoscimento dei loro diritti umani e delle libertà fondamentali dovrebbe essere il principio informatore di tutta l’attività dell’Onu: il che significa promuovere libere elezioni, la partecipazione politica delle donne, la protezione delle libertà di stampa, di riunione, di religione. Prendere delle decisioni fondate su questi principi essenziali richiederà senza dubbio un nuovo modo di pensare. Inoltre, sarà necessario che i paesi membri valutino in modo più critico il sistema dei blocchi o gruppi regionali.
    E’ un sistema che ha bisogno di essere modernizzato per adattarsi alle nuove realtà, come la caduta dell’Unione Sovietica, l’allargamento dell’Ue (i cui membri appartengono a gruppi regionali diversi), il fatto che a un paese come Israele venga negato di avere voce in capitolo per quanto attiene alla propria regione geografica e lo sviluppo di relazioni economiche o la diffusione di valori democratici secondo linee che attraversano gruppi regionali diversi.
    Negli ultimi tempi, dei caucus formati su basi regionali o ideologiche hanno avuto gioco facile nel plasmare la cultura e l’agenda dell’Onu.
    E le democrazie presenti in tali gruppi, troppo inclini alla ricerca del consenso, non sempre hanno saputo opporsi ad azioni che minano le libertà politiche, economiche e civili. Per modificare questa tendenza, un gruppo sempre più ampio di democrazie – un caucus democratico, in sostanza – ha convenuto sulla necessità di collaborare nella difesa irremovibile dei principi. Frutto della Comunità delle democrazie riunitasi a Varsavia nel 2002 e a Seul nel 2003 per coordinare gli sforzi per la costruzione della democrazia, questo raggruppamento si propone di trovare, anche nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite, il modo di promuovere la democrazia, il rispetto della rule of law, il buon governo, i diritti umani e le libertà fondamentali. Affidandosi a valori condivisi e contando sulla loro forza collettiva, questi paesi sperano di aiutare l’Onu a tenere fede ai valori e ai principi sui quali venne fondata. (…)

    Una visione del mondo condivisa
    Una vera riforma delle Nazioni Unite richiederà una dose ancora maggiore della stessa comunanza di vedute, della stessa forza di volontà e della stessa capacità di collaborazione fra democrazie (…). Basare i propri orientamenti e i propri programmi sui principi fondamentali potrà anche facilitare il conseguimento di risultati positivi da parte del segretariato, del Consiglio di Sicurezza, dell’Assemblea generale, del Consiglio economico e sociale, delle agenzie tecniche, dei comitati per il bilancio e dei tanti altri comitati e commissioni delle Nazioni Unite.
    In conclusione, per oltre cinquant’anni, gli Stati Uniti, le Nazioni Unite e un buon numero dei paesi membri dell’Onu hanno condiviso una visione del mondo secondo cui pace e prosperità sono un bene comune. Questo principio non è cambiato. Né lo è il fatto che la maggior parte della popolazione mondiale condivida ormai valori essenziali di libertà, democrazia, buon governo e diritti umani. Gli Stati Uniti continueranno a restare impegnati nel sistema delle Nazioni Unite perché rientra nel nostro interesse farlo. Vogliamo semplicemente che l’organizzazione delle Nazioni Unite si attenga agli scopi per cui venne fondata. Una riforma non sarà semplice; ma se sarà attuata in modo equo, e risponderà ai principi essenziali che sono alla base delle Nazioni Unite, il risultato non potrà che essere il rafforzamento della capacità dell’Onu di perseguire i propri obiettivi di fondo.
    Kim R. Holmes

    preso da il Foglio del 17 luglio

    guardando alla nostra Eu, quanto tempo perchè diventi "obsoleta e inutile"?

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Nome: Juan Méndez. Nazionalità....

    ....argentina.

    Professione: segnalatore di genocidi.
    Messa così, farebbe quasi ridere. Soprattutto se si aggiunge che “Méndez” era il soprannome con cui molti argentini chiamavano l’ex presidente Carlos Saul Menem quando si era diffusa la voce che portava jella, e che anche soltanto pronunciarne il cognome esponeva alle più terrificanti conseguenze.
    Ma il termine “genocidio”, con il pensiero ai milioni e milioni di vittime delle pulizie etniche e ideologiche del XX secolo, basta già soltanto a smorzare sulle labbra ogni sorriso, per quanto amaro. E d’altro canto è al di sopra di ogni sospetto il profilo dell’avvocato che Kofi Annan ha nominato suo consigliere speciale per la prevenzione dei genocidi lo scorso 12 luglio, dopo aver preannunciato l’istituzione della nuova carica fin dallo scorso 7 aprile: nel decimo anniversario, cioè, di quella mattanza ruandese che l’Onu non seppe in alcun modo bloccare.

    Juan Méndez, nato 59 anni fa in un sobborgo di Buenos Aires chiamato Loma de Zamora, di violazione dei diritti umani si intende infatti in prima persona: avvocato, specializzato in diritto del lavoro, al tempo della “sporca guerra” tra terroristi e squadroni della morte in Argentina passò dalla difesa dei diritti sindacali a quella dei prigionieri politici e dalla difesa dei prigionieri politici alla detenzione quasi senza accorgersene.
    Fu arrestato infatti trentunenne nel 1976, quando era ancora presidentessa la vedova di Perón, María Estela Martínez
    “Isabelita”.
    Rimase chiuso in una cella del famigerato carcere Unidad 9 di La Plata per 15 mesi, durante i quali il già liberticida governo di Isabelita fu rovesciato dal golpe di Videla, e lui stesso fu ripetutamente torturato.
    Infine fu liberato nel 1977, dopo che Amnesty International lo aveva adottato come prigioniero di coscienza e aveva lanciato una campagna a suo favore.
    Ma fu scarcerato a condizione di lasciare il paese.
    Altri argentini nella sua situazione in quell’epoca si rifugiarono nella Cuba di Fidel Castro o approfittarono dell’ospitalità che garantivano loro le sinistre europee.
    Lui, invece, scelse gli Stati Uniti di Jimmy Carter, in cui era iniziata quella battaglia sui diritti umani che poi, riveduta e corretta da Ronald Reagan, avrebbe portato alla sensazionale vittoria sul blocco dell’Est.
    Non solo: ammaestrato da ciò che nel suo caso personale aveva fatto un’organizzazione allora con fama di imparzialità come Amnesty International, una volta negli States, dopo aver per un po’ operato con un servizio cattolico di assistenza legale ai lavoratori immigrati, scelse di mettere le sue capacità al servizio di un’altra organizzazione per i diritti umani con fama di imparzialità come Human Rights Watch.
    Con ciò, differenziandosi nettamente da altri alfieri della lotta per i diritti umani in Argentina, che però poi da quell’esperienza hanno dedotto un tipo di lezione talmente unilaterale da finire ora per firmare le petizioni in sostegno di Castro dopo le condanne in massa di dissidenti e la fucilazione di mancati fuggitivi: dal Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel alla leader delle Madri di Plaza de Mayo Hebe de Bonafini.
    Lui, invece, nell’ambito del suo lavoro sulle violazioni dei diritti umani in tutte le Americhe, si è occupato anche delle magagne del regime cubano.
    Dopo aver lavorato per 15 anni con Human Rights Watch, è stato tra il 1996 e il ’99 direttore esecutivo dell’Istituto interamericano per i diritti umani del Costa Rica, dal 2000 al 2002 membro della Commissione interamericana dei diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa), dal 2002 al 2003 presidente della stessa Commissione, e infine presidente del Centro internazionale per la giustizia di transizione a New York.
    Senza mancare di trovare il tempo per insegnare Diritti Civili e Umani alle Università di Notre Dame (Indiana), Georgetown (Washington D.C.), John Hopkins (Baltimora) e Oxford.
    Insomma, Méndez ha il know how per dare un contenuto concreto a un incarico che di per sé appare desolantemente sospeso nel vuoto.
    Facili ironie a parte su Annan che si accorge dei massacri in corso solo quando Méndez gli telefona, c’è pure un desolante vuoto di informazioni su che cosa l’Onu dovrebbe e potrebbe fare una volta che l’allarme è arrivato.
    Si sa già che il primo problema sull’agenda dell’argentino sarà il dramma del Darfur.
    E qui si potrà subito vedere se la figura del consigliere dell’Onu alla prevenzione dei genocidi meriterà amare ironie o avrà il successo che tutti, evidentemente, in questo momento gli auguriamo.

    Maurizio Stefanini su il Foglio

    saluti

 

 

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