...la lasciano?

Roma. Ieri l’attenzione generale era spostata sul governo, ma ha la sua importanza, il silenzio assoluto dell’intera Confindustria di fronte all’intervista rilasciata ieri da Guglielmo Epifani alla Repubblica.
La linea impartita da Luca di Montezemolo è stata quella di evitare ogni parola che potesse aggiungere benzina, dopo la rottura con la Cgil sugli assetti contrattuali.
Intorno al presidentissimo ci si è sforzati in un’interpretazione costruttiva. Epifani non ha accusato LCdM di essere l’esatta riproposizione del famigerato mangiaoperai Antonio D’Amato.
Ha parlato di “un tentativo in atto del vecchio di risucchiare il nuovo”. Il tentativo è quello di trasformare in parafulmine Alberto Bombassei, il vicepresidente di Confindustria “reo” agli occhi della Cgil di non aver saputo evitare l’intesa separata con Cisl e Uil, quando era presidente di Federmeccanica.
LCdM ha chiesto in giro ai suoi consiglieri più fidati contributi brevi manu su come superare l’impasse. Perché Epifani l’ha messa giù dura, lui a risedersi al tavolo non ci pensa proprio e se Confindustria va avanti coi gruppi di lavoro con Cisl e Uil anche sui nuovi contratti la rottura sarebbe generale.
LCdM semplicemente non se lo può permettere, è la fredda analisi di Epifani, confortata del resto dall’intero stato maggiore diessino. Che ieri non ha mancato di sottolineare – tra qualche risolino di malcelata ironia – che del resto la prima reazione di LCdM era stata un invito ai sindacati a “tornare unitari”: come a dire che il presidentissimo chiede a Cisl e Uil di abbassare le penne, e se le confederazioni tutte insieme dicono che di contratti è meglio non parlarne fino all’anno prossimo e finché non ci siano posizioni convergenti, beh certo Confindustria mica i contratti può cambiarli da sola.
Non si è levata una sola voce, tra i Ds, per richiamare la Cgil a un’impostazione più aperta.
L’unico nel centrosinistra a lanciare un segnale in questo senso è stato Francesco Rutelli, abile ormai su ogni questione a piantare rapidamente un paletto distintivo nei confronti dei Ds.
Rutelli ha parlato della necessità di “innovare”, dunque viva l’impostazione aperturista alla contrattazione decentrata in cambio di più partecipazione nella vita delle imprese cara alla Cisl. Ora si tratta di capire in che cosa consisterà la contromossa di Montezemolo, chiamato per la prima volta seriamente a una scelta concreta e impegnativa di fronte a tutti i suoi associati.
I margini per rinviare e isolare la questione “contratti” da tutto il resto del documento ci sono, naturalmente.
Ma bisogna congegnare la cosa in modo che non sembri una resa. Magari “aggiungendo” al documento qualcosa che due giorni fa non c’era, e che la Cgil accetti come segno di disponibilità.
Ma, al di là di queste tecnicalità, colpisce quanto la Confindustria italiana abbia assunto un atteggiamento oggettivamente diverso, rispetto alle posizioni che in queste settimane tengono le associazioni sorelle in paesi altrettanto alle prese con agende di riforma bloccate, e governi in calo verticale di consensi.
In Francia, Antoine de Seillière batte e ribatte ogni settimana contro le 35 ore, sfidando anche quel Nicolas Sarkozy che pure alle imprese sta dando in poche settimane più soddisfazioni del previsto.
La Germania, poi, è un caso a sé. Se si adottasse il criterio italiano oggi vigente, la Confindustria tedesca (Bdi) dovrebbe persino ritenere troppo rigido Gerhard Schröder nella sua volontà di andare avanti nelle riforme malgrado la dura opposizione di
metà del suo partito e del sindacato.
Al contrario, il presidente della Bdi, Michael Rogowski, ha bocciato come “assolutamente insufficienti” le sofferte intese raggiunte tra
maggioranza e opposizione in materia di razionalizzazione e riduzione dei sussidi di disoccupazione - la cui generosità oggettivamente scoraggia i disoccupati tedeschi con qualifiche basse dal cercare lavoro – e degli aiuti alle fasce più deboli.
“L’indennità di disoccupazione non dovrebbe superare i 12 mesi, i sussidi sociali dovrebbero essere diminuiti del 25 per cento destinandoli solo a chi davvero ne ha bisogno”,
tuona Rogowski. Aggiungendo, a nome dei suoi iscritti, la richiesta di un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile, e – ahia, sa di articolo 18 – l’alleggerimento della tutela che protegge i neoassunti dal licenziamento.

I casi Eon, Siemens e Allianz
Tutto ciò sullo sfondo di un paese che cresce meno di noi per effetto dell’asfissia del modello della MitBestimmung, ma in cui i grandi gruppi, a differenza che da noi, si sono tirati su le maniche affondando il coltello coraggiosamente nelle proprie carni, per ristrutturarsi e tornare competitivi.
A cominciare dai tre gruppi che hanno realizzato i maggiori profitti nel 2003 – Eon, Siemens e Allianz – hanno drasticamente ridotto la propria forza lavoro.
Eon, gigante energetico, l’ha tagliata addirittura del 38, 4 per cento in un solo anno.
Alla Siemens, la gigantesca conglomerata che produce quasi di tutto, dalle lampadine alle turbine passando per centrali elettriche e treni, per la disperazione dell’insuccesso ottenuto dall’ex amministratore delegato nella ristrutturazione annunciata (è riuscito solo a tagliare il 2 per cento dei 420 mila dipendenti, un terzo del previsto) gli azionisti hanno appena ingaggiato un brillante 46enne formatosi in America, Klaus Kleinfeld, dandogli carta bianca nel confronto sindacale.
Le cose non vanno meglio nei due comparti, tradizionalmente
“pesanti” dell’economia germanica.
Né in quello dell’auto, che comprende 5 delle 15 maggiori imprese tedesche, e che ha visto la Daimler Benz ridurre del 7,5 per cento il fatturato, mentre Volkswagen ha stentato uno 0,2 per cento in più, di pura facciata.
Né in quello elettromeccanico e che ha visto il gigante Thyssen Krupp scendere dall’ottavo al decimo posto tra i maggiori gruppi tedeschi.
La Germania industriale soffre. Ma stringe i denti. Non chiede salvataggi “alla francese”. Incalza i sindacati e il governo. E prova a ristrutturarsi.
Non dovrebbe essere questo, il mantra di ogni Confindustria che si rispetti?

da il Foglio del 17 luglio

saluti