....Israele
Roma. Le parole di Ariel Sharon sull’antisemitismo di cui sono vittime gli ebrei francesi toccano una ferita purulenta.
Avi Pazner, portavoce del governo israeliano, sostiene ora che Sharon non intendeva invitare in massa gli ebrei a lasciare la Francia, ma sta di fatto che le relazioni tra Parigi e Gerusalemme si deteriorano di mese in mese e che l’antisemitismo in Francia è sempre più radicato.
L’ultimo episodio è la visita alla fine di giugno del ministro degli Esteri Michel Barnier a un Yasser Arafat a cui ormai nessun leader concede più credito.
L’incontro fa seguito alle parole di stima verso il presidente palestinese pronunciate da Jacques Chirac al vertice Nato di Istanbul, che collocano la diplomazia francese in una posizione quasi provocatoria sul medio oriente.
Una dinamica che porta Chirac, che riceve oggi all’Eliseo il premier turco Tayyp Erdogan, per corteggiare l’elettorato razzista di Jean-Marie Le Pen, a non farsi scrupolo di osteggiare l’ingresso in Europa della Turchia, e a dichiarare, secondo la tv israeliana, che Sharon non è il benvenuto a Parigi.
Sbaglia chi vede in queste posizioni francesi solo una volontà di differenziazione da quelle statunitensi e chi crede che l’antisemitismo francese sia conseguente alla presenza di quattro milioni di arabi “coinvolti” dal conflitto israelo-palestinese su posizioni nazionaliste (in realtà provengono tutti da paesi – Algeria, Marocco, Tunisia – che mai hanno sostenuto i palestinesi e odiano gli israeliani non per ragioni nazionaliste, ma puramente anti-ebraiche di tipo islamista).
I due fenomeni si intrecciano e si innestano nella tradizione di un antisemitismo radicato da secoli nel paese, forse ancor più che in
Germania.
La Francia è l’unica nazione europea in cui si è sviluppato un forte sentimento antisraeliano, non nella componente di sinistra dell’opinione pubblica (come in Italia e Germania), ma in quella centrista, liberale, moderata.
E’ uno dei lasciti più ambigui e profondi del gaullismo, di cui Chirac è oggi l’erede, ed è stato più volte apertamente formalizzato dal Generale, soprattutto dopo la guerra dei Sei giorni del 1967.
Nel dicembre di quell’anno, Charles de Gaulle inviò una lettera a David Ben Gurion in cui accusava “Israele di oltrepassare i confini della moderazione”, dava credito alla tesi che i paesi arabi sarebbero stati pronti a riconoscere il diritto all’esistenza di Israele se si fosse ritirato dai Territori (a tuttora solo quattro paesi arabi su 22 riconoscono il diritto all’esistenza di Israele) e avvisava Ben Gurion:
“Ecco che Israele, invece di errare per l’universo nel suo esilio bimillenario, è divenuto, di colpo, uno Stato, la cui vita e durata dipendono, secondo la legge del suo tempo, dalla sua politica”.
Il problema per de Gaulle era che un Israele così banalizzato, separato arbitrariamente dalla sua genesi drammatica, era ormai fonte d’imbarazzo per una Francia che aveva sulla coscienza la più dura repressione di tutti i tempi di una rivolta araba.
Il de Gaulle che chiude le vergognose pagine della guerra d’Algeria è dunque lo stesso che chiude la straordinaria solidarietà francese con Israele dal ’48 al ’64 (francesi sono le armi israeliane sia del ’56 sia del ’67, a partire dagli strategici Mystère).
Nel momento in cui perde il controllo del petrolio d’Algeri, Parigi paga il prezzo della polemica con Israele per recuperare i paesi arabi e il loro greggio.
E’ questa la politica che porta Valery Giscard d’Estaing nel 1980, a imporre al vertice europeo di Venezia la svolta che associa alle trattative l’Olp di Arafat (sino a quel momento esclusa in quanto “terrorista”), chiudendo così la ben più produttiva prospettiva di una rappresentanza palestinese mediata dalla Giordania.
Dopo quel vertice, il 17 giugno 1980, le comunità ebraiche dei nove paesi della Cee espressero la loro “costernazione”. Nessuno le ascoltò in un’Europa in panico per il prezzo del petrolio, balzato a 40 dollari al barile, e pronta a tutto pur di compiacere gli arabi.
Come molti oggi, non soltanto a Parigi.
da il Foglio del 20 luglio
saluti