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    Predefinito LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    JUAN DONOSO CORTÉS

    SAGGIO SUL CATTOLICESIMO, IL LIBERALISMO E IL SOCIALISMO




    LIBRO PRIMO

    IL CATTOLICESIMO



    CAPITOLO PRIMO

    Ogni grande questione politica dipende da una fondamentale questione teologica.




    Proudhon ha scritto nelle sue Confessioni di un rivoluzionario queste notevoli parole: «Desta stupore osservare come nell'affrontare ogni problema politico ci si imbatta sempre nella teologia». Eppure in questa osservazione non c'è nulla che possa destare sorpresa se non la sorpresa stessa di Proudhon. La teologia, per il solo fatto di essere la scienza di Dio, è l'oceano che contiene e abbraccia tutte le cose.

    Infatti tutte le cose, prima di essere, furono (e la loro creazione) nell'intelletto divino; perché se Dio le creò dal nulla, diede loro pure un ordine secondo un modello che è in Lui dall'eternità. Tutte vi si trovano per quell'altissimo motivo che vuole gli effetti subordinati alle cause, le conseguenze ai principi, i riflessi alla luce, le forme agli archetipi. In Lui sono insieme compresi la vastità del mare, il rigoglio dei campi, le armonie degli astri, la perfezione dei mondi, il fulgore delle stelle, la magnificenza del firmamento. In Lui è la misura, il peso e il numero di tutte le cose; e tutte le cose ne ebbero origine con numero, peso e misura. In Dio sono le leggi inviolabili e altissime di tutti gli esseri, e ognuna di queste leggi è soggetta al suo imperio. Tutto ciò che ha vita ha in Lui le sue cause; gli alberi trovano in Lui le leggi della vegetazione, tutto ciò che si muove trova in Lui le leggi del movimento, tutto ciò che ha sensibilità trova in Lui le leggi del sentire, tutto ciò che ha intelligenza trova in Lui le leggi dell'intendere, tutto ciò che ha libertà trova in Lui la legge del volere. Si può dunque affermare, senza tema di cadere nel panteismo, che tutte le cose sono in Dio e che Dio è in tutte le cose.

    Ciò serve pure a spiegare perché nella stessa misura in cui retrocede la fede diminuisce nel mondo la conoscenza della verità, e perché la società che dimentica Dio vede repentinamente i suoi orizzonti coprirsi di orride tenebre. Per questo la religione è stata considerata da tutti gli uomini e in ogni tempo. la base indistruttibile delle società umane. Secondo Platone, «chi estirpa la religione, mina alle fondamenta ogni società umana». (1) Senofonte sostiene che «le città e le nazioni più fedeli agli dèi sono state sempre le più sagge e quelle che più hanno sfidato il tempo». Plutarco, parlando contro Colote, afferma che «è più facile fondare una città sull'aria che dar vita a una civiltà senza dèi». Rousseau osserva che «non fu mai possibile costruire uno Stato senza che la religione ne stesse a fondamento». (2) Lo stesso Voltaire ammette che « dove esiste una società, la religione è assolutamente indispensabile».(3)

    Tutte le legislazioni che ressero i popoli della antichità poggiavano sul timore degli dèi: per Polibio questo santo timore giova più ai popoli liberi che agli altri. Numa, affinché Roma fosse la città eterna, la concepì come città sacra, e se fra i popoli antichi quello romano è il più grande, esso deve la sua grandezza soprattutto alla pietà. Quando Cesare pronunciò in pieno Senato parole contro l'esistenza degli dèi, si levarono immediatamente dai loro scanni Catone e Cicerone per accusare il giovane irriverente di aver detto cose funeste per la Repubblica. Si narra infine che Fabrizio, capitano romano, udendo un giorno il filosofo Cinea irridere la divinità in presenza di Pirro, pronunciasse queste memorabili parole: «Piaccia agli dèi che i nostri nemici seguano queste idee quando saranno in guerra contro la Repubblica».

    Lo scadimento della fede, che determina lo scadimento della verità, non comporta necessariamente una diminuzione dell'intelligenza umana ma il suo traviamento nell'errore. Misericordioso e giusto a un tempo, Dio nega alle intelligenze ribelli la verità, ma non nega loro la vita; le condanna all'errore, non alla morte. Per questo tutti noi abbiamo visto passare secoli interi di radicale incredulità e di altissima cultura, che hanno lasciato dietro di sé un solco più di fuoco che di luce, e che hanno brillato nella storia con la fatuità del fosforo nella notte. Ma osservate attentamente quei secoli, soffermate a lungo il vostro sguardo e vi accorgerete che il loro splendore è fatto di incendi e il loro chiarore di lampi. Si direbbe che la loro luce provenga dalla repentina esplosione di materie per natura opache ma infiammabili, piuttosto che dalle purissime regioni in cui nasce la luce serena, dolcemente diffusa per le vòlte del cielo dal tocco supremo di un supremo pittore.

    Lo stesso che s'è detto dei secoli può dirsi degli uomini. Nella misura in cui Dio nega o concede loro la fede, nega pure o concede la verità; non nega o concede loro l'intelligenza. Questa negli increduli può essere eminente, mentre può essere modesta nei credenti: la prima però non è grande se non alla maniera degli abissi, mentre la seconda è santa, come un tabernacolo. Nella prima si annida l'errore, nella seconda la verità. Nell'abisso, con l'errore, si trova la morte; nel tabernacolo, con la verità, sta la vita. Per questo motivo, per quelle società che abbandonano il culto austero della verità per idolatrare l'ingegno non vi è più speranza. Dietro i sofismi vengono le rivoluzioni, dopo i sofisti è il turno del boia.

    Possiede la verità politica chi conosce le leggi alle quali sono soggetti i governi; possiede la verità sociale chi conosce le leggi che governano le società umane; conosce queste leggi chi conosce Dio, e conosce Dio chi ascolta quel che Lui dice di se medesimo e crede in ciò che ascolta. La teologia è la scienza che ha per oggetto queste affermazioni. Ne segue che ogni affermazione concernente la società o il governo presuppone un'affermazione relativa a Dio, per cui ogni verità politica o sociale diventa necessariamente una verità teologica.

    Se tutto si spiega in Dio e attraverso Dio, e se la teologia è la scienza di Dio, nel quale e mediante il quale tutto si spiega, la teologia è la scienza di ogni cosa. Se è così, non c'è nulla al di fuori di essa, la quale non ha plurale, come non ha plurale il tutto che è il suo oggetto.

    La scienza politica, la scienza sociale non esistono se non come classificazioni arbitrarie dell'intelletto umano. L'uomo, nella sua fragilità, distingue ciò che in Dio si trova unito in una unità semplicissima. Così distingue le affermazioni politiche da quelle sociali e da quelle religiose. In Dio invece esiste un'unica affermazione, indivisibile e suprema. Chi parlando esplicitamente di una cosa qualsiasi ignora di parlare implicitamente di Dio e chi parlando esplicitamente di una scienza qualsiasi ignora di parlare implicitamente di teologia, può essere certo di aver ricevuto da Dio soltanto l'intelligenza strettamente necessaria a essere uomo. La teologia quindi, considerata nella sua accezione più generale, è l'oggetto perpetuo di tutte le scienze, cosi come Dio è l'oggetto perpetuo di tutte le speculazioni umane.

    Ogni parola che esce dalla bocca dell'uomo è un'affermazione della divinità, perfino quella che la maledice o la nega. Colui che rivoltandosi contro Dio esclama fuori di sé: «Ti aborrisco, tu non esisti», espone un sistema completo di teologia, analogamente a chi, levando verso di Lui il cuore contrito, dice: «Signore, ferisci il tuo servo che ti adora». Il primo butta sul volto di Dio una bestemmia, il secondo depone ai suoi piedi una preghiera; tutti e due però affermano la sua esistenza, anche se ognuno a suo modo, giacché entrambi pronunciano il suo nome incomunicabile.

    Nel modo in cui si pronuncia quel nome è la soluzione dei più difficili enigmi: la vocazione di un popolo, la scelta provvidenziale di una nazione, le grandi vicende della storia, il sorgere e il declinare degli imperi più famosi, le conquiste e le guerre, la diversa natura delle genti, la fisionomia delle nazioni e la loro stessa mutevole fortuna.

    Là dove Dio è considerato sostanza infinita, l'uomo, dedito a una silenziosa contemplazione, dà la morte ai sensi e trascorre la vita come in un sogno, accarezzato da zefiri languidi e snervanti. L'adoratore dell'infinita sostanza è condannato a una schiavitù perpetua e a un'indolenza senza fine: il deserto avrà ai suoi occhi qualcosa di sacro rispetto alla città, perché è più silenzioso, più solitario, più grande. E tuttavia non potrà adorarlo come suo dio, perché il deserto non è infinito; l'oceano potrebbe essere la sua sola divinità, poiché circonda ogni cosa, se non fosse luogo di tempeste e origine di misterioso muggire. Il sole che tutto illumina sarebbe degno del suo culto se non gli abbruciasse la vista con il suo disco folgorante. Il cielo sarebbe il suo signore se in esso non vi fossero stelle, e la notte se non custodisse segreti. Il suo dio è fatto di tutte queste cose insieme: immensità, oscurità, immobilità, silenzio. Ebbene, là sorgeranno, alti e repentini, per la occulta virtù di una vitalità potente, imperi colossali e barbarici, che rovineranno in un sol giorno, vinti dal peso immenso di altri imperi ancor più giganteschi, senza lasciar traccia nella memoria degli uomini, né del loro sorgere né del loro tramontare. I loro eserciti saranno privi di disciplina, i loro uomini privi di intelligenza. L'esercito sarà anzitutto e principalmente moltitudine; la guerra non servirà a dimostrare quale sia la nazione più valorosa, ma quale è l'impero più popolato; la stessa vittoria non sarà titolo di legittimità se non in quanto simbolo della divinità, essendo simbolo della forza. Come si vede, teologia e storia orientali sono una medesima cosa.

    Volgendo lo sguardo all'Occidente si può vedere, come distesa alle sue porte, una regione per la quale si accede a un mondo nuovo, nuovo per quel che si riferisce alla morale, alla politica, alla religione. L'immensa divinità orientale qui si presenta disgregata e spoglia di quanto ha di austero e di temibile: qui la sua unità è moltitudine. Il divino in Oriente era immobilità; qui la moltitudine è in continua agitazione. Là tutto era silenzio, qui tutto è rumore, cadenze, armonie. La divinità orientale si prolungava in ogni tempo e traboccava su ogni spazio; la grande famiglia degli dèi possiede qui un vero e proprio albero genealogico e può vivere comodamente sulla vetta di una montagna. Nel dio d'Oriente riposa una pace eterna; nella divina fortezza occidentale è sempre guerra, confusione e tumulto.

    L'unità politica subisce le stesse vicissitudini di quella religiosa: in Occidente ogni città è un impero, mentre in Oriente l'impero non è concepito se non come agglomerato di popoli. A un dio corrisponde un re, a una repubblica di dèi una repubblica di città. In questa moltitudine di repubbliche e di dèi tutto appare contaminato dal disordine e dalla confusione: gli uomini hanno un non so che di eroico e di divino, gli dèi qualcosa di terreno e di umano. Gli dèi daranno agli uomini l'intelligenza per le grandi cose e l'istinto del bello, gli uomini daranno agli dèi le proprie discordie e i propri vizi; ci saranno uomini di fama e virtù chiarissime e dèi incestuosi e adulteri. Passionale e nervoso, questo popolo sarà grande per i suoi poeti e celebre per i suoi artisti e si darà in spettacolo al mondo; la vita sarà bella ai suoi occhi solo se splenderà dei barbagli della gloria, e la morte sarà terribile solo perché è seguita dall'oblio. L'uomo di questa civiltà, sensuale fino al midollo delle ossa, nella vita non vedrà che il piacere e giungerà a desiderare la morte, se questa gli verrà incontro adorna di fiori. La familiarità e la parentela con i suoi dèi renderà questo popolo vano, capriccioso, loquace e petulante; senza rispetto per la divinità, non sarà grave nei suoi disegni, mancherà di fermezza nei suoi propositi e di solidità nelle sue decisioni. Il mondo orientale apparirà ai suoi occhi come una regione di ombre o come un mondo abitato da statue: l'Oriente, da parte sua, osservando la sua vita così effimera, la sua morte così precoce, le sue glorie talmente precarie, lo chiamerà popolo di bambini. Per l'Oriente la grandezza consiste nel perdurare, per il secondo nel muoversi. La teologia greca, la storia greca, il carattere dei greci sono una medesima cosa.

    Questa identità è ancora più evidente nella storia del popolo romano. Gli dèi principali dei romani, di origine etrusca, nel loro aspetto divino erano greci, nella loro componente etrusca erano orientali. La loro molteplicità ricorda quella degli dèi greci, la loro austerità e persino la loro malinconia ricordano gli dèi d'Oriente. In politica come in religione, Roma è nello stesso tempo Oriente e Occidente. È una città come quella di Teseo ed è un impero come quello di Ciro. Roma ripresenta Giano: la sua testa ha due volti, e i suoi due volti un duplice sembiante; l'uno è simbolo della durata orientale, l'altro emblema del movimento occidentale. È infatti tanto viva la sua capacità di movimento, che la spinge fino ai limiti della terra, ed è cosi gigantesca la sua durata che il mondo continua a chiamarla «eterna». Fondata secondo il divino volere per preparare la strada a Colui che doveva venire, sua missione provvidenziale fu di assimilare tutte le religioni e di sottomettere tutte le genti. Seguendo un misterioso richiamo, tutti gli dèi ascendono al Campidoglio mentre le nazioni e i popoli in preda a repentino terrore chinano a terra la fronte. Tutte le città, una dopo l'altra, si sentono abbandonate dai propri dèi, e questi uno dopo l'altro si sentono spogliare dei propri templi e delle proprie città. Quel possente impero prese dall'Oriente il senso della legittimità che gli faceva amare la vastità dei confini e la forza, e dall'Occidente una legittimità che si manifestava nell'intelligenza e nella disciplina. Per questo, Roma soggioga tutti e nulla può resisterle, tutto assoggetta e nessuno osa lamentarsene. Come la teologia romana ha qualcosa di diverso e qualcosa di comune con tutte le altre, Roma ha qualcosa che le è peculiare e molto che la fa simile a tutte le nazioni vinte dalle sue armi e offuscate dalla sua gloria: di Sparta ha il rigore, di Atene la cultura, di Menfi lo splendore, di Babilonia e di Ninive la grandezza. In altri termini, l'Oriente è la tesi, l'Occidente l'antitesi, Roma la sintesi. L'impero romano sta a significare che la tesi orientale e l'antitesi occidentale sono confluite nella sintesi romana. Si scomponga ora nei suoi elementi codesta mirabile sintesi e sarà evidente che essa non è solo il risultato di armonie politiche e sociali ma anche il frutto di una unità nell'ordine religioso. Presso i popoli orientali e presso le repubbliche greche, e nell'impero romano come nelle repubbliche greche e nei popoli orientali, i sistemi teologici servono a spiegare quelli politici: la teologia è la luce della storia.

    La grandezza romana non poteva discendere dal Campidoglio che seguendo in senso inverso lo stesso procedimento che le aveva permesso di ascendervi. Nessuno poteva stabilirsi in Roma se non con il permesso dei suoi dèi, nessuno dare la scalata al Campidoglio senza prima abbattere Giove Ottimo Massimo. Gli antichi, che avevano una sensazione confusa della forza vitale contenuta nel sistema religioso, ritenevano che nessuna città potesse essere vinta se prima non la abbandonavano i suoi dèi. Ne scaturiva, in tutte le guerre tra città e città, tra paese e paese, razza e razza, una sorta di contesa religiosa che seguiva lo stesso andamento di quella militare e politica. Gli assediati, mentre resistevano con le armi, rivolgevano lo sguardo ai propri dèi affinché non li abbandonassero miseramente. Gli assedianti, a loro volta, con misteriosi scongiuri invitavano gli stessi dèi ad abbandonare i nemici. Sventurata la città in cui risuonava il grido tremendo: «I tuoi dèi se ne vanno, i tuoi dèi ti abbandonano!». Israele non poteva essere vinto quando Mosè levava le sue mani verso il cielo, e non poteva vincere quando le lasciava cadere verso terra; Mosè rappresenta il genere umano e proclama in tutte le epoche, con diverse formule e in diversa maniera, l'onnipotenza di Dio e la dipendenza dell'uomo, il potere della religione e la virtù della preghiera.

    Roma dovette soccombere perché soccombettero i suoi dèi, cadde il suo impero perché era caduta la sua teologia. In questo modo, la storia viene a dar rilievo a un principio che è insito nel più profondo della coscienza umana.

    Roma aveva dato al mondo i suoi imperatori e i suoi sacerdoti; Giove e Cesare Augusto si erano divisi il grande impero delle cose umane e di quelle celesti. Il sole, che aveva visto sorgere e cadere imperi giganteschi, non ne conosceva nessuno, dal giorno della creazione, di tale augusta maestà e di simile arcana grandezza. Tutti i popoli avevano conosciuto il suo giogo; anche le genti più forti e rozze avevano dovuto piegare il capo; il mondo aveva deposto le armi, la terra taceva.

    Nacque in quel tempo, in una umile stalla, da genitori umili, un Bambino prodigioso, nella terra dei prodigi. Si diceva di Lui che al momento di apparire tra gli uomini una nuova stella si era accesa nel cielo; che ancora in fasce era stato adorato da pastori e da re; che spiriti angelici avevano parlato agli uomini e avevano solcato i cieli; che il suo nome incomunicabile e misterioso era stato pronunciato all'inizio dei tempi; che i patriarchi avevano atteso la sua venuta; che i profeti avevano annunziato il suo regno e che le stesse sibille avevano cantato le sue vittorie. Questi strani rumori erano giunti alle orecchie dei rappresentanti dell'imperatore, e un vago terrore aveva preso il loro animo. Questo vago terrore si diradò tuttavia quando poterono osservare che i giorni e le notti continuavano a trascorrere secondo la loro normale successione e che il sole illuminava come prima gli orizzonti di Roma. Si dissero i prefetti imperiali: «Cesare è immortale, e le voci che sono giunte fino a noi provengono da plebi oziose, da donnicciole». Passarono trent'anni; contro le preoccupazioni del volgo c'è sempre un sicuro rimedio: il disprezzo e l'oblio.

    Ma dopo trent'anni la gente malcontenta e gli oziosi ritrovano nuovo alimento al loro ozio in fresche e più strane notizie. Il Bambino s'era fatto uomo, secondo la voce popolare; mentre gli veniva versata sulla testa l'acqua del Giordano era sceso su di Lui uno spirito sotto forma di colomba, si erano squarciati i cieli e si era sentita una voce che dall'alto diceva: «Questo è il mio Figlio diletto». Intanto colui che lo aveva battezzato, uomo austero e severo, che abitava nei deserti e dispregiava il genere umano, gridava di continuo alle turbe: «Fate penitenza», e poi additando il Bambino fatto uomo, così diceva di Lui: «Questo è 1'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo». Che tutto ciò fosse una farsa di cattiva lega, rappresentata da pessimi teatranti, era cosa che tutti gli «spiriti forti» del tempo non mettevano minimamente in dubbio. Il popolo ebreo è stato sempre dedito a sortilegi e superstizioni: nei tempi passati, quando rivolgeva i suoi occhi arrossati di pianto verso il tempio abbandonato e verso la patria perduta, schiavo dei babilonesi, un grande condottiero, annunziato dai suoi profeti, lo aveva redento dalla prigionia e gli aveva restituito il tempio e la patria. Non era strano, dunque, ma normale che un tal popolo aspettasse una nuova redenzione e un nuovo liberatore che spezzasse per sempre la dura catena di Roma.

    Se non ci fosse stato altro che questo, le persone «spregiudicate» e «illuminate» di quell'epoca avrebbero dimenticato probabilmente quelle dicerie, come avevano già fatto in passato, fino a quando il tempo, grande ministro della ragione umana, le avesse disperse al vento. Ma non so quale fato funesto dispose le cose in maniera diversa: infatti Gesù - così si chiamava l'uomo di cui si raccontavano sì grandi prodigi - cominciò a insegnare una nuova dottrina e a compiere azioni spaventose. La sua audacia e la sua pazzia lo spinsero al punto di fargli chiamare ipocriti e superbi i superbi e gli ipocriti, e sepolcri imbiancati coloro che veramente lo erano. La sua durezza fu così grande che giunse a consigliare ai poveri la pazienza, per poi schernirli chiamandoli «beati». Per vendicarsi dei ricchi che lo disprezzarono sempre, disse loro: «Siate misericordiosi». Condannò la fornicazione e l'adulterio, eppure mangiò il pane dei fornicatori e degli adulteri. Tale era la sua invidia, che trascurò i dottori e i sapienti; così bassi erano i suoi pensieri che rivolse la parola a gente rozza e ignorante. Fu talmente orgoglioso da chiamare se stesso Signore della terra, del cielo e delle acque; fu così versato nelle arti dell'impostura che giunse "a lavare i" piedi a poveri pescatori. Malgrado la sua calcolata austerità, affermò che la sua dottrina era dottrina d'amore; condannò il lavoro in Marta e santificò l'ozio in Maria. Ebbe segreti rapporti con gli spiriti infernali e, a prezzo della sua anima, ricevette il potere dei miracoli. Le turbe lo seguivano, le moltitudini lo adoravano.

    È chiaro quindi che, malgrado la loro buona volontà, i custodi delle cose sante e delle prerogative imperiali non potevano più restare impassibili, essendo ufficialmente responsabili della maestà della religione e della pace dell'impero. Ciò che soprattutto li spinse a uscire dall'indecisione fu una notizia, secondo la quale una turba era stata sul punto di proclamare Gesù re dei Giudei e il fatto che Gesù si fosse definito Figlio di Dio e avesse cercato di dissuadere il popolo dal pagare i tributi.

    Chi aveva detto tali cose, chi aveva compiuto opere siffatte, era condannato a morire per mano del popolo. Era sufficiente giustificare queste accuse e mettere in chiaro ogni addebito. Quanto ai tributi, quando gli domandarono che cosa ne pensasse, diede quella famosa risposta con la quale confuse i curiosi: «Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare», che era come dire: «Vi lascio il vostro Cesare e vi tolgo il vostro Giove». Interrogato da Pilato e dal gran sacerdote, ribadì quanto aveva detto, confermando di essere il Figlio di Dio; ma aggiunse pure che il suo regno non era di questo mondo. Allora disse Caifa: «Quest'uomo è colpevole e deve morire». E Pilato, invece: «Lasciate quest'uomo, perché è un giusto».

    Caifa, il gran sacerdote, guardava la questione dal punto di vista religioso; Pilato, laico, la guardava dal punto di vista politico. Pilato non poteva capire il rapporto tra lo Stato e la religione, tra Cesare e Giove, tra la politica e la teologia. Caifa, al contrario, pensava che una nuova religione avrebbe potuto sortire esiti gravi per lo Stato, che un nuovo Dio avrebbe potuto scalzare l'imperatore e che la questione politica era legata a una questione teologica. La folla pensava istintivamente come Caifa e nei suoi ruggiti chiamava Pilato nemico di Tiberio. Per allora il problema rimase in tale stato.

    Pilato, modello immortale dei giudici corrotti, sacrificò il Giusto alla paura, consegnò Gesù alla furia popolare e credette di purificare la propria coscienza lavandosi le mani. Il Figlio di Dio salì sulla croce, coperto di ludibrio e di ingiurie; lì si levarono feroci contro di Lui i ricchi e i poveri, i falsi umili e i superbi, i sacerdoti e i dottori, le donne di malaffare e gli uomini di cattiva coscienza, gli adulteri e i fornicatori. Il Figlio spirò sulla croce pregando per i suoi carnefici e raccomandando il proprio spirito al Padre.

    Tutto si calmò per un momento, ma poi si videro cose mai viste da occhio umano: l'abominio e la desolazione nel tempio, le madri di Sion maledire la propria fecondità, i sepolcri squassati, Gerusalemme spopolata, le sue mura al suolo, il suo popolo disperso per il mondo, e il mondo in guerra. Si videro le aquile di Roma lanciare nel vento misere strida, Roma senza imperatori e senza dèi, le città spopolate e pieni di gente i deserti; barbari analfabeti, vestiti di rozze pelli, governare le nazioni, le folle obbedire alla voce di colui che diceva sulle rive del Giordano: «Fate penitenza» e a quella di quell'altro che diceva: «Chi vuol essere perfetto, lasci ogni cosa, prenda la croce e mi segua», e i re adorare la croce, e la croce innalzarsi per ogni dove.

    Perché questi vasti cambiamenti, queste perturbazioni? Perché simili desolazioni e cataclismi? Che cosa significa tutto ciò? Che cosa succede? Nulla: nuovi teologi vanno annunziando per il mondo una nuova teologia.




    ***

    NOTE


    (1) Le leggi, libro X.

    (2) Del contratto sociale, l. IV, c. VIII.

    (3) Trattato della tolleranza, c. XX.



    1 - continua
    Ultima modifica di Florian; 05-11-09 alle 20:28

  2. #2
    Becero Reazionario
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    Si può dunque affermare, senza tema di cadere nel panteismo, che tutte le cose sono in Dio e che Dio è in tutte le cose.
    al panteismo si sfugge ricordandosi che Dio è sì in tutte le cose, ma è anche infinitamente di più dell'universo materiale (= cose create), il quale rispetto a Lui è come il fiato rispetto ad un uomo.

    La teologia quindi, considerata nella sua accezione più generale, è l'oggetto perpetuo di tutte le scienze, cosi come Dio è l'oggetto perpetuo di tutte le speculazioni umane.
    grandiosa ed esattissima questa affermazione! Per quello, personalmente, sono contrario all'"ora di religione" nelle scuole! Perchè tutte le ore scolastiche dovrebbero essere intrise di senso religioso e cristiano!

    la guerra non servirà a dimostrare quale sia la nazione più valorosa, ma quale è l'impero più popolato;
    implicito elogio della qualità rispetto alla quantità, che potrà imporsi solo in una società secolarizzata

    per il resto attendo i commenti degli altri...

    nel finale mi pare un po' "tenero" verso i giudei, ma probabilmente mi sbaglio, attendiamo!

  3. #3
    + Gothic +
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    Lo scadimento della fede, che determina lo scadimento della verità, non comporta necessariamente una diminuzione dell'intelligenza umana ma il suo traviamento nell'errore. Misericordioso e giusto a un tempo, Dio nega alle intelligenze ribelli la verità, ma non nega loro la vita; le condanna all'errore, non alla morte. Per questo tutti noi abbiamo visto passare secoli interi di radicale incredulità e di altissima cultura, che hanno lasciato dietro di sé un solco più di fuoco che di luce, e che hanno brillato nella storia con la fatuità del fosforo nella notte.

    ...

    Nella misura in cui Dio nega o concede loro la fede, nega pure o concede la verità; non nega o concede loro l'intelligenza. Questa negli increduli può essere eminente, mentre può essere modesta nei credenti: la prima però non è grande se non alla maniera degli abissi, mentre la seconda è santa, come un tabernacolo. Nella prima si annida l'errore, nella seconda la verità. Nell'abisso, con l'errore, si trova la morte; nel tabernacolo, con la verità, sta la vita. Per questo motivo, per quelle società che abbandonano il culto austero della verità per idolatrare l'ingegno non vi è più speranza. Dietro i sofismi vengono le rivoluzioni, dopo i sofisti è il turno del boia.
    Questo paragrafo mi ha particolarmente colpito per la differenza, posta all'attenzione dall'Autore, tra intelligenza e Verità. E il fatto che non necessariamente la fede si accompagni ad un grande ingegno, mentre è certo che un ingegno senza fede sprofondi nell'errore. Questa realtà la si può verificare tanto nel singolo uomo quanto in una civiltà.

    L'uomo senza fede, anche se provvisto di una mente vivace, è costretto suo malgrado a brancolare nel buio. In quanto questa intelligenza è grande "alla maniera degli abissi". Al contrario, l'uomo di fede, per poca che sia la sua intelligenza, marcia sicuro. La sua intelligenza è come un tabernacolo, e per piccola che sia conduce alla Verità.

    Una civiltà che ha voltato le spalle alla fede e si fida solo della scienza si regge su basi assai fragili che la rendono vittima del cancro rivoluzionario. Questo è accaduto all'Europa che, a causa dei suoi intellettuali anticlericali, ha generato il Protestantesimo, la Rivoluzione francese, il Comunismo e infine il Sessantotto.

    * * *

    Riesco a fare mie queste considerazioni di Cortes anche perchè mi sono accorto che io stesso, quando mi sono allontanato dalla Chiesa, mi sono perso in una spirale di meccanismi senza senso. La vita di un cattolico è dura, ma ha il pregio di avere un senso. Senza la fede è impossibile darsi un'ordine, una gerarchia di valori. Tutto diviene orizzontale e immancabilmente inutile.
    Ultima modifica di Florian; 29-10-09 alle 20:16
    SADNESS IS REBELLION

  4. #4
    Conservatorismo e Libertà
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    In questa primissima parte del Saggio di Donoso Cortes appare evidente il completo rovesciamento della dottrina marxista, resa nota in modo sintetico al grande pubblico dallo stesso filosofo pochi anni prima, attraverso il Manifesto del Partito Comunista del 1848. Mentre per Marx ed Engels la religione, "oppio dei popoli", illusione ipocrita, arma dei potenti, giustificazione ideologica dei regimi, è solo un fatto meramente sovrastrutturale, per Donoso Cortes si traduce quasi un una sorta di pilastro delle società, ragione di vita, scopo finalistico dei popoli e degli individui. La storia di Donoso Cortes è intimamente teologica: essa si spiega solo con Dio e attraverso Dio. Nulla è lasciato alla semplice materia inerte o al caso.

    Senza Dio, le società si frantumano, annichiliscono, si perdono nella polvere. Non è un caso, dunque, che nella translatio imperii da est verso ovest la perdita di identità dei popoli si riconduca sempre, in ultima analisi, alla disgregazione del pilastro religioso. Le città e i popoli vengono conquistati dopo l'abbandono o la sconfitta delle proprie divinità tutelari. Se la teologia specifica di una civiltà viene a cadere, tutto è perduto.

    E' questo un prezioso insegnamento che Donoso Cortes, quasi sicuramente, applicherà più avanti anche al caso della civiltà cristiana attanagliata dalla perdita della fede e della propria teologia. Già nel primissimo capitolo Cortes avverte i contemporanei del fatto che, una volta venuto meno il pilastro della fede, la società - così insegna la storia - è destinata a frantumarsi e disperdersi, colpita a morte da un inevitabile processo di corruzione e smarrimento.

    Ovviamente, per Donoso Cortes l'unica, vera teologia è quella fondata sul Dio cristiano e sulla testimonianza e il sacrificio di Gesù. Vi è pertanto una grande opportunità, che non va assolutamente sprecata. Gli uomini, per la prima volta dopo i secoli segnati dalle civiltà orientali, greca e romana pagane, possono liberamente conoscere la Verità rivelata, che si mostra con ogni evidenza possibile. Non c'è sofismo o discorso fondato sulla "razionalità" che tenga.

  5. #5
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    azz ma qui si pubblica proprio il testo integrale, figo

    Allora rimbocchiamoci le maniche.

    Ho dato una lettura attenta a questo prima parte e quel che balza sicuramente agli occhi è che il modo di leggere la storia deve essere sicuramente la teologia, cioè su come l'uomo nella sua società abbia considerato Dio e la Chiesa.
    Se nel medioevo la società era dal punto di vista etico organizzativo perfetta, proprio perchè riconosceva Dio e l'autorità ecclesiale come suo fondamento, il pensiero controrivoluzionario ci insegna benissimo che da Lutero in poi c'è stato un progressivo allontanamento. Ed ecco che la società umana e il centro del mondo, l'Europa, inizia man mano a disgregarsi. Si inizia con Lutero, la riforma, l'umanesimo e il rinascimento, quindi l'individualismo. Dio e Cristo si, ma la Chiesa è vista come un intoppo. Avanti con l'illuminismo e il razionalismo, che con una grande (tragica) svolta, rinuncerà a Cristo e dunque rinuncerà all'azione e alla Presenza di Dio nella storia e nella società, che viene relegato in un angolo dell'extramondo come semplice orologiaio, come semplice manifestazione del divenire delle cose, di cui non si può parlare perché non lo si può nè toccare nè vedere.
    E conseguentemente, la meschinità dell'uomo che comunque aveva bisogno di affidarsi a qualcosa per sua natura, vuole affidarsi a un ente materiale, in cui far confluire tutte le sue energie e le sue aspirazioni o realizzazioni, lo Stato.
    E lo Stato è fatto da uomini, è retto da uomini, e l'uomo di Stato, non affidandosi più a nulla che sia al di là e nello stesso tempo al di qua delle cose, finisce per agire da solo, razionalmente, creando mostri quale il comunismo, che, con l'ateismo di Stato, nega addirittura il Dio panteista!
    In questo primo capitolo si capisce benissimo che Cortes è stato un ottimo spunto per la teologia politica schmittiana: "tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati". E lo sono – viene ripresa l’importante precisazione del costituzionalista tedesco - "non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti" (p. 71).
    Non c'è più la legittimazione divina, ma la teologia permane perché è nella natura delle cose, lo Stato legislatore è onnipotente (nelle manifestazioni liberali o democratiche che siano).
    Dunque è necessario tenere presente questa evoluzione e disgregazione della società moderna proprio in virtù di questo cammino di allontanamento che ha fatto nei confronti di Dio, lo afferma Cortes come lo afferma con voce tuonante l'intera Controrivoluzione. Senza questa lettura logica si capisce poco o nulla della storia "più recente": ed è una chiave di lettura che rispecchia esattamente la situazione del terzo millennio, seppur scritta da un autore che appartiene ad un epoca pre novecentesca.
    Il Cattolicesimo, sul piano sociale come in quello religioso - metafisico, è dunque visto come sintesi di tutto ciò che di buono e di giusto c'era già prima e che grandi filosofi come Platone ("chi estirpa la religione, mina alle fondamenta ogni società umana"), Senofonte ("le città e le nazioni più fedeli agli dèi sono state sempre le più sagge e quelle che più hanno sfidato il tempo"), Plutarco ("è più facile fondare una città sull'aria che dar vita a una civiltà senza dèi") intuivano. Sintesi e dunque anche novità, religione dell'amore, quello vero, quello ragionevole, nell'umiltà altissima del figlio di Dio.
    Ultima modifica di Celtic; 30-10-09 alle 19:37
    “... e dopo tutto questo inglese ripuliamoci un po’ la bocca con questo bel profumo di Toscano ...” (Giovannino Guareschi)

  6. #6
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    interessante anche l'aspetto di Roma!

    Protagonista dell'incontro fra Cristo e la società fu sicuramente Roma, che era in rovina al tempo proprio per il suo distaccarsi (corsi e ricorsi della storia...) dalla religione (seppur imperfetta) degli Dei e di Giove Ottaviano Massimo, che furono le radici della sua grandezza, del suo splendore, della sua imperiosità.
    Roma che fu proprio la sintesi fra Oriente e Occidente. In Oriente il divino era l'immobilità, la misticità, in Occidente era l'umanità degli dei e il loro essere imperfetti nella perfezione del loro ambito. La familiarità e la meschinità umana che in Occidente si affidò agli Dei fece sorgere dei popolo movimentati, instabili, che vedevano in Oriente la monumentalità e la terra del mistero, il mondo delle statue. Al contrario l'Oriente definiva il movimento occidentale come mondo di bambini, irrequieti ed istintivi.
    Roma fu sintesi. Roma era come Giano: i suoi Dei erano umanizzati e malinconici come quelli greci, ma austeri e perduranti come quelli orientali, ciò fu una grande ricchezza che differenziò Roma dal resto del mondo facendola diventare la più splendente, la più grande. Ella fu guidata da un misterioso richiamo che avrebbe (sembra quasi una bestemmia e soprattutto la storia è un pò un dover essere, e non si fa con i se e con i ma) portato in modo diverso a Cristo, alla sua venuta e alla sua novità. Abbandonò questo richiamo e cadde nell'oblio, poi il medioevo fu anche romano, ma è tutta un'altra storia, è tutto un nuovo inizio, con una novità importante e bellissima. La teologia esiste da quando il mondo è stato creato, con essa si legge il mondo e la sua storia, non c'è nulla da fare, Donoso Cortes ce lo spiega benissimo.
    Ultima modifica di Celtic; 30-10-09 alle 19:52
    “... e dopo tutto questo inglese ripuliamoci un po’ la bocca con questo bel profumo di Toscano ...” (Giovannino Guareschi)

  7. #7
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    Citazione Originariamente Scritto da Celtic Visualizza Messaggio
    La teologia esiste da quando il mondo è stato creato, con essa si legge il mondo e la sua storia, non c'è nulla da fare, Donoso Cortes ce lo spiega benissimo.
    Coloro che oggi leggono la Storia attraverso Dio e la fede vengono derisi e scherniti...

  8. #8
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    Devo ancora terminare la lettura della prima parte, ma già sono rimasto affascinato.
    Mi preme fare una riflessione: il tentativo di ricondurre tutto, anche la scienza politica e la sociologia, ad un discorso su Dio, è molto interessante. Però bisogna tenere sempre a mente che in teologia non esistono solo certezze.
    Ci sono cose certe, ci sono cose solo probabili, cose incerte ma possibili, cose possibili ma improbabili e cose impossibili.
    Così anche nella politica.
    “Pray as thougheverything depended on God. Work as though everything depended on you.”

  9. #9
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    Riesco a fare mie queste considerazioni di Cortes anche perchè mi sono accorto che io stesso, quando mi sono allontanato dalla Chiesa, mi sono perso in una spirale di meccanismi senza senso. La vita di un cattolico è dura, ma ha il pregio di avere un senso. Senza la fede è impossibile darsi un'ordine, una gerarchia di valori. Tutto diviene orizzontale e immancabilmente inutile.
    Caro Florian, penso che questa sia la testimonianza più interessante in assoluto.
    La religione cristiana non è una serie di norme etiche e di prescrizioni liturgiche.
    Essa è una Fede, ovvero qualcosa di molto diverso.
    Il pericolo più grande che il cristianesimo oggi affronta è quello della sua ideologizzazione: da una parte lo si vuol far diventare quintessenza del buonismo, dall'altro invece una sorta di splendido contenitore, una forma mentis creata ad arte per porre l'attenzione sui pizzi, i merletti e gli ori, e distogliere i cuori dal nocciolo del problema esistenziale.

    Ma niente può sublimare ciò che in realtà la Fede è: la Verità totalizzante, la cosa che distingue, politicamente parlando, un popolo autenticamente libero da una massa di servi.
    “Pray as thougheverything depended on God. Work as though everything depended on you.”

  10. #10
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    Predefinito Rif: LEGGERE INSIEME DONOSO CORTES / 1

    Citazione Originariamente Scritto da UgoDePayens Visualizza Messaggio
    Ma niente può sublimare ciò che in realtà la Fede è: la Verità totalizzante, la cosa che distingue, politicamente parlando, un popolo autenticamente libero da una massa di servi.
    Ho sempre pensato che solo l'Ordine potesse garantire la Libertà. Senza ordine non c'è infatti vera libertà, perchè si è schiavi delle infinite possibilità, tutto diventa relativo, ogni conquista risulta effimera. Ma un Ordine terreno che non sia espressione di una Verità ultraterrena è un gigante dai piedi d'argilla ed è destinato a crollare per le sue contraddizioni filosofiche e sociali. Per questo ogni società umana si fonda su una religione e il tentativo dell'Occidente moderno di prescindere dal Cristianesimo è a mio avviso non solo patetico, ma addirittura criminale.
    Ultima modifica di Florian; 02-11-09 alle 11:35

 

 
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