Gabriele Adinolfi

NUOVO ORDINE MONDIALE TRA IMPERIALISMO E IMPERO



Intervista con Gabriele Adinolfi, autore del libro omonimo, a cura di Maurizio Messina

Il tuo libro «Nuovo ordine mondiale tra imperialismo e Impero» stampato dalla Società Editrice Barbarossa affronta in modo complesso, forse originale, il fenomeno della globalizzazione. E lo affronta , ovviamente, da un punto di vista critico ma assai dinamico. Puoi dirci qualche cosa in proposito? Il mio libro vuol essere una sorta di manuale operativo. Non è un saggio intellettualistico ma pretende di rispondere a diverse domande per offrire a tutti delle ipotesi operative. La quarta parte del mio studio si chiama, infatti «a confronto» e offre diversi suggerimenti sia attitudinali che concreti. Le altre parti si chiamano «cosa», «come» e «perché». In «cosa» elenco ed analizzo le strutture del potere mondiale (finanziarie , politiche e satellitari). In «come» traccio una rapida storia dell’avvento della globalizzazione, del mondialismo e di questo potere mondiale. In «perché» cerco di analizzare le cause ideologiche ed esistenziali che hanno permesso quanto accade. A differenza di altri io metto l’accento non tanto sulle oligarchie e sulle élites deviate che gestiscono le grandi quote del potere mondiale, quanto sulle nostre mancanze. Gli altri sono forti perché siamo deboli noi, sostengo. Ed anche a proposito di mondialismo vado oltre rispetto a concezioni già note perché lo riconosco, storicamente ed ideologicamente, come prodotto del partito guelfo; dunque come figlio legittimo e mostruoso dell’occidente pseudotradizionale. Il che ha ben più di un semplice valore provocatorio perché comporta, come diretta conseguenza, il superamento di uno schema oppositorio duale nei confronti di un Male di origine esterna e l’imperativo di battersi in ogni campo per la rettifica delle distorsioni in atto.

La tua risposta alla globalizzazione è dunque? Non è una risposta reazionaria, non è una negazione e non è un ripiego. È piuttosto una modifica da apporsi in accelerazione. La mia risposta si chiama Impero.

Oreste Scalzone, storico leader del Movimento Studentesco prima, quindi di Potere Operaio e dell’Autonomia, in una significativa presa di posizione sul « popolo di Seattle » nel luglio 2001, poco prima degli avvenimenti di Genova così si espresse : «I no global si sono invischiati in uno schema dialettico funzionale proprio al partito globalizzatore, rivestendo i panni di saltimbanchi in una specie di circo felliniano, in una rappresentazione scenica che non produce risultati se non proprio quello di emarginare ogni scontento che si trova ad essere immancabilmente relegato in una sottocultura dai tratti surrealistici.» Giudizio perentorio che potrebbe apparire se non superficiale alquanto affrettato. Che cosa ne pensi? Non so se il giudizio sia stato affrettato ma non era sicuramente superficiale. Il popolo di Seattle si è comportato e seguita a comportarsi esattamente come ha descritto Scalzone: recita, fa da saltimbanco di corte, è «esterno» rispetto alle istanze sociali, si atteggia, propone slogan e niente più. Per la sinistra, che more solito si è messa a cavalcarne gli umori, si tratta di una vera e propria involuzione, di uno smarrimento di concretezza politica. In quanto alla funzionalità rispetto ai poteri transnazionali, essa mi pare palese e va ben oltre gli effetti della rappresentazione: è addirittura strutturale. Difatti i No global -che sono poi tutt’altro che No global ma si suddividono in New global e in Global no – vivono grazie a finanziamenti lauti che pervengono loro da supercapitalisti che auspicano di ottenere così l’introduzione della Tobin Tax (la tassa sugli utili borsistici da destinarsi alle «associazioni umanitarie»). Associazioni che fanno parte integrante del portafoglio dei grandi finanzieri e sono per essi strumento di evasione fiscale legalizzata e di controllo politico nel Terzo Mondo. Altro che ribelli, i capofila dei No global sono impiegati dei gestori della globalizzazione così come lo erano, negli anni sessanta, i sindacati comunisti. Aggiungerei che la critica di Scalzone, pienamente condivisibile, è valida perché viene «da sinistra» ovvero è una critica mossa da chi rinuncia ad una scelta alla sua portata perché la ritiene errata. Questo non deve però indurre «a destra» a liquidare il fenomeno con altrettanta disinvoltura. C’è spesso il rischio che le accuse da questa parte dello scacchiere politico vengano mosse solo perché non si fa parte della festa, perché si è rimasti fuori dalla soglia. Attenzione a non fare come la volpe con la famosa uva «non matura».

«Coloro che pilotano la mondializzazione sono attori extrastatali che non aspirano che a massimizzare i loro dividendi e profitti pianificando ed ottimizzando l’organizzazione planetaria delle loro attività, eliminando tutto quanto possa fare ostacolo alla loro libertà d’azione. » Così Alain De Benoist in un convegno del Grece nel dicembre 1996 dal tema «Face à la mondialisation». Contemporaneamente, come scrisse Bernard Badie «la globalizzazione spacca le sovranità, trapassa i territori, malmena le comunità costituite, disfa i contratti sociali e rende obsolete certe concezioni della sicurezza internazionale. Così la sovranità non è più quel valore fondamentale indiscutibile di un tempo mentre l’idea d’ingerenza cambia lentamente ma inesorabilmente di connotazione». Denuncie di alcuni anni fa che non pare abbiano tuttora trovato risposte adeguate. L’opzione europea sembra piuttosto evanescente ed inoltre la logica mercantile delle multinazionali avviluppa tutto il cosiddetto occidente, Vecchio Continente compreso… Io non penso che siano possibili, oggi come oggi, risposte sistematiche ma che siano necessarie risposte per così dire «vettoriali». Ritengo che ci troviamo di fronte ad una mastodontica crisi di passaggio che si compone a sua volta di decine e decine di crisi minori. Se così stanno le cose non ha senso contrapporre modelli assoluti alla globalizzazione. Penso che si debba vedere dove essa va e quali vie apre a chi sia proteso verso il futuro. Tre aspetti propri all’attuale fenomeno ci dovrebbero suggerire la strada. Il primo è l’espansione, che comporta il superamento di alcuni confini nazionali e istituzionali. Questo può condurre all’edificazione di uno dei tanti modelli mondialisti ma anche alla scoperta e all’attualizzazione dell’Idea d’Impero. Se poi l’odierna tendenza alla regionalizzazione, o meglio alla macroregionalizzazione si conferma, l’Europa diviene un’opzione possibile a prescindere dai piani e dai progetti che le si possono costruire intorno. Il secondo aspetto è la localizzazione, con la riscoperta delle tradizioni e delle gastronomie locali ma anche con la tendenza alla rigenerazione delle politiche comunali, della democrazia diretta, della partecipazione. Il terzo aspetto è il progressivo affermarsi delle oligarchie, un dato assolutamente negativo che reca però in sé da parte delle minoranze qualificate la possibilità di farsi soggetti operativi. E una minoranza qualificata che sappia muoversi come lobby può benissimo farlo in senso sociale, popolare e partecipativo.Riuscire ad operare secondo queste tre linee di tendenza contemporaneamente può significare iniziare a costituire davvero l’alternativa alla globalizzazione al mondialismo. Ovvero l’Europa come Idea e non solo idea dell’Impero. Esteriore ed interiore al contempo.

Di pari passo avanza la «civilizzazione atlantica» che riduce sempre più gli spazi delle differenze culturali e del modus vivendi delle popolazioni del globo. In un felice articolo apparso sul Foglio il 23 luglio del 2001Geminello Alvi, facendo un brillante affresco della megalopoli sradicata che si estende intorno a noi, attesta che viviamo in un incubo ad aria condizionata nel quale si parla l’inglese. Ma forse non basta resistere, occorrono risposte diverse se ancora c’è la forza di proclamare la diversità… Personalmente sono abbastanza scettico riguardo alla totale vittoria americana. A me sembra che l’America mostri i muscoli perché comincia a sentirsi destabilizzata e, in quanto all’ american way of life, ho l’impressione che la sua espansione fosse più dinamica e apparentemente inarrestabile quindici anni fa di quanto non lo sia adesso. Il che non significa che l’attuale corpus socioculturale non stia comunque mutando le menti ed i comportamenti dei cittadini occidentali e non, specie dei più giovani. A mio avviso questo è l’effetto di un cambiamento epocale che produrrà anche mutamenti antropologici com’è accaduto in passato (si pensi al Basso Impero o all’Autunno del Medio Evo) comportando nuove forme di comunicazione e di linguaggio. Al centro di tutto , comunque, permane l’uomo, anzi permangono i diversi tipi d’uomo. E la natura sempre e comunque finisce col prevalere e con il trovare nuove vie per tornare a collegarsi alla cultura e alla tradizione. Per questo io non sono pessimista. Sempre per questo non credo che esistano possibilità di « resistenza » alla globalizzazione ma che ci siano, invece opportunità di «controtendenza» attiva, incentrata sulla coscienza di sé, su di una logica complessiva, su un operato concreto e su una sorta di «entusiasmo futurista».

Su La Stampa Barbara Spinelli in un recente fondo del 15 dicembre scorso scrive, a proposito del ventilato ingresso della Turchia nella U.E. «Gli europei stanno cercando di capire quali debbano essere i suoi confini politici e che cosa significhi, esattamente, per l’Europa che si sta costituendo, fissare un confine. Il confine infatti non è solo un limite che si dà alla propria espansione territoriale. Non è neppure un semplice blocco tracciato sulla carta geografica. Chi lo definisce fonda uno spazio di appartenenza politica, prima ancora che culturale. E dentro questo spazio ha propri modi per separare i poteri ed esercitarli, di rispettarli, di metterli in rapporto con il Diritto Internazionale custodito dall’ONU» a seconda dei meridiani e dei paralleli , aggiungiamo noi. Comunque, sia pure in modo indiretto, la Spinelli pone la questione della sovranità europea e del diritto internazionale, due riferimenti fondamentali di cui le multinazionali, come entità neocapitaliste apolidi, han fatto strame. A tal proposito ci piace rammentare un’intervista televisiva del 1995 in cui l’allora presidente francese Mitterrand, affermava "Noi siamo in guerra. La Francia e l’Europa sono in guerra contro gli Stati Uniti. Una guerra accanita, senza esclusione di colpi, di cui l’opinione pubblica non si rende conto e forse è meglio per lei". Rifacendomi a quanto ho risposto precedentemente non posso che ritenere secondaria la questione dei confini e dei trattati. L’Europa ha un senso in quanto forma, mito e potenza incentrata sull’autorità (l’Impero, appunto, interiore prima che esteriore). Quest’Europa è possibile solo se i suoi tre poli fondanti (Parigi, Berlino e Mosca) giungono a collegarsi pur senza confondersi, se danno forma alla loro volontà di potenza e dunque alla vocazione di espansione in senso eurasiatico ma anche verso il Mediterraneo ed il Medio Oriente. Che questo urti, oggi come oggi, con lo strapotere delle multinazionali mi pare lapalissiano; così come è lapalissiano che le multinazionali hanno oggi il potere (e lo esercitano, si pensi all’operazione «mani pulite») di paralizzare la politica europea. Ma oggi non vuol dire domani ; la storia si muove e tutto viene sempre rimesso in discussione. Senza attendere fenomeni catastrofici dalle dimensioni mastodontiche e dal sapore apocalittico, quali la disgregazione del Capitalismo, si possono intravedere notevoli crepe nell’apparato dominante e ipotizzare diverse sterzate, alcune delle quali, sempre restando nell’ambito capitalista, possono essere foriere di novità interessanti. Purtroppo quando ci si confronta idealmente con un sistema dominante si commettono solitamente due grossi errori, specialmente «a destra»: l’uno è una visione troppo statica della cose a causa della quale l’oggi sembra sempre eterno (eppure basterebbe guardarsi indietro anche solo di pochi anni per scoprire come situazioni che sembravano perenni sono stata rivoluzionate in un batter d’occhio), l’altro è la pretesa di voler ottenere tutto e subito. Tutto questo comporta un pessimismo assoluto che se ha un valore esistenziale e culturale di tutto rispetto è però devastante quando lo si trasporta in politica. Personalmente, sarà perché non mi sento esistenzialmente coinvolto con l’avvenire del mondo ma mi soddisfo nell’aspetto ludico e tragico del gioco-esistere, sono piuttosto ottimista riguardo al futuro europeo e sono in ogni caso entusiasta.

Nel tuo libro «Nuovo ordine mondiale tra imperialismo e Impero» concludi uno dei capitoli con la frase «Se l’Europa fosse in grado di uscire dal suo torpore…essa potrebbe modificare…il quadro agghiacciante dell’omologazione. Se.» In realtà la rinascita europea non può farsi concreta se non attraverso una vera e propria rivoluzione culturale che investa arte, musica, cinematografia, editoria e tutti quei veicoli espressivi e di comunicazione indispensabilmente necessari nel XXI secolo. Nell’era delle masse e dell’individualismo sfrenato sarà possibile coniugare nuova coscienza civile europea con i grandi «concreti» interessi del Vecchio Continente quali sovranità militare, autonomia energetica, sicurezza alimentare, rifondazione della democrazia attraverso forme autenticamente partecipative? La risposta, ovviamente, è si. Però, parafrasando De André «c’è chi attende la pioggia per non piangere da solo, io son d’un altro avviso…». Cosa voglio dire con questo? Innanzitutto che oggi ha acquisito una funzione cardinale un impegno metapolitico che sia rivolto a trasformare e a demummificare i rituali salottieri e dopolavoristici della cultura. E questo impegno me lo sono assunto anch’io attraverso vari strumenti editoriali ma anche mediante gesti decondizionanti che la Lama editoriale XXIII marzo ha iniziato a compiere anche nell’ambito artistico, non solo in quello intellettuale. Prima di ciò sta però la riqualificazione e la presa di coscienza individuale, con annessi i recuperi valoriale, rituale e mitologico necessari. Ma questa duplice ricostruzione (culturale e spirituale) è assolutamente insufficiente se non è supportata da una capacità di comunicazione a tutt’oggi carente e nella quale risiede a mio avviso la chiave per le alternative politiche reali. E sarà comunque insufficiente, in quanto ideologica ed astratta, fino a quando non si concretizzi in forme di vita politica, sociale ed economica di tutto rispetto. Sono convinto che l’evoluzione del Capitalismo verso l’accentramento (con quanto comporta come fallimenti della media impresa e come proletarizzazione della borghesia media) crea la necessità di riqualificare le economie solidali, incentrate sulla socialità e sulla cooperazione, nelle quali la ricchezza sarà fornita dal lavoro manuale, dalle qualità artigianali e dalla forza del sodalizio. Il che, andando nel senso della localizzazione, si baserà sul matrimonio luogo-lavoro comportando forme di partecipazione che saranno sociali, politiche e, soprattutto, ideologicamente e culturalmente ghibelline (ovvero spiritual-socialiste) per ragioni che potremmo definire oggettive, e cioè a prescindere dalle volontà individuali. Io credo che sia questa la direzione verso la quale tendere, che è al contempo la direzione della rivoluzione culturale, dell’autonomia economica, dell’economia sociale e della partecipazione politica compiuta. Ed in questa direzione vi è chi ha iniziato a lavorare, ottenendo risultati di tutto rispetto, già da qualche anno. Insomma, come già ho affermato, pur senza disconoscere la gravità del momento, intravedo motivi d’entusiasmo, purché si proceda con buon senso, a ritmi cadenzati e con la dovuta applicazione. Per tutto questo, però, si deve accettare di mettersi in discussione e di rimboccare le maniche. Nulla di più difficile, lo so, ma non si parlava, appunto, di «rivoluzione culturale»?