Cose che sappiamo già sicuramente, ma scritte bene, in modo lieve, e da una persone non "ideologizzata".
Quindi pubblico, integralmente come desiderio dell' autore:


questo articolo può essere riprodotto liberamente,
sia in formato elettronico che su carta, a condizione che
non si cambi nulla, che si specifichi la fonte - il sito web Kelebek http://www.kelebekler.com -
e che si pubblichi anche questa precisazione


Ogni tanto ricevo insulti indirizzati a "voi comunisti". La cosa mi lasciava all'inizio abbastanza sorpreso, visto che non sono mai stato comunista.
Poi, improvvisamente, mi sono reso conto che avevano scoperto il mio segreto - infatti, anche se non sono comunista, io ho però preso i soldi dai comunisti.

Mi spiego meglio. In una cittadina dell'Emilia Romagna che non intendo nominare, buona parte della vita ruota attorno a un'azienda che chiamerò la Meccancoop. Si tratta di una cooperativa messa in piedi oltre ottant'anni fa da una decina di operai meccanici, decisi di uscire dalla miseria grazie a un onesto lavoro. Un po' come la Svizzera o gli Stati Uniti, questa ditta può vantare origini eroiche, cosa che non manca di far notare, qualificando le proprie attività come "etiche".


un comunista si abbevera agli insegnamenti di Marx

Quello che molti non sanno però è che su un migliaio di lavoratori, appena un centinaio sono soci cooperatori. I quali lavorano in fabbrica come gli altri novecento. Con una conseguenza positiva per tutti: l'ambiente di lavoro è tra i migliori che si possano immaginare, pulito e poco rumoroso. Inutile negarlo, tra lavorare per i comunisti della Meccancoop e lavorare alla Fratelli Spaccalossi srl, meglio i primi.

Sulla carta, lo stipendio è uguale per tutti, soci e non. Solo che per i soci viene raddoppiato con una serie complessa di trucchi contabili. I semplici dipendenti possono aspirare a diventare soci anche loro: basta lavorare per anni e anni, con spirito devoto, e un giorno possono presentare domanda. Un'inappellabile commissione di soci valuterà se l'aspirante possieda o no, oltre a qualche decina di milioni da investire come quota, anche i "requisiti morali" - così si chiamano - per entrare nella cerchia. Invece i figli dei soci diventano automaticamente soci loro stessi, come nelle buone famiglie nobiliari di una volta.

La Meccancoop domina la vita del comune. Il Partito che fu comunista ne è la principale filiale, l'ufficio del sindaco è una sorta di seconda sede dell'azienda; e a Roma un deputato ne perora gli interessi. La Meccancoop sa governare la nebbiosa cittadina in maniera prudente, per citare l'espressione preferita di D'Alema, evitando di commettere discriminazioni o delitti clamorosi, assicurando servizi abbastanza puntuali e piazzando molti cartelli che vietano l'accesso alle aiuole ai cani, anche se tenuti al guinzaglio.

Chi non conosce l'industria emilioromagnola probabilmente non si rende conto che le grandi cooperative sono gestite come tutte le altre aziende: i soci acquistano sul mercato un manager che ha lo scopo di far guadagnare il massimo alla società (e di farsi pagare ovviamente in proporzione). E poiché in tempi lontani le cooperative erano la proprietà di rudi lavoratori privi di capitale, la legge prevede che gli utili debbano essere reinvestiti nell'azienda e non divisi tra i soci; in compenso, lo Stato evita di infierire con le tasse. Un bel principio, solo che i commercialisti provvedono a dividere gli utili tra i soci lo stesso, mentre le cooperative hanno un ottimo vantaggio in termini fiscali sulle aziende private.

Per cui il manager della Meccancoop oggi vende in Tailandia e compra in Uruguay, investe a Wall Street e riceve delegazioni di indiani e giapponesi tutti i giorni. Facendo inferocire gli imprenditori privati del posto, che non sempre a torto sostengono che i comunisti gli rovinano la piazza.

È qui che subentro io, traduttore e interprete di mestiere.

I comunisti, cioè la Meccancoop, mi hanno pagato più volte per accompagnare comitive di imprenditori russi o cinesi in visita all'azienda. Ora i russi e i cinesi non saranno più marxisti, ma capiscono perfettamente quando c'è un buon prezzo per un buon prodotto e meglio ancora quando c'è da negoziare una tangente.

A volte mi è toccato mediare anche con un'altra specie di insospettabile alleato del comunismo italiano: i liberisti americani che ritengono che le cooperative siano un'ottima soluzione per le aziende in via di fallimento. Thatcher e Reagan sono stati i massimi promotori dello sviluppo del comunismo all'italiana anche in terra anglosassone.

Essendo Imprenditori Etici, i manager della Meccancoop si dilettano anche a predicare, a differenza degli uomini d'affari comuni. E per questo sono stato anche pagato più volte per tradurre lunghi scritti con titoli come sì, avete indovinato: "coniugare mercato e solidarietà" e "l'impresa sociale all'alba del Terzo Millennio".

Qualunque cosa si pensi del Comunismo Reale in Italia, che non è certamente peggiore del Privatismo Reale, un fatto è ovvio: il mondo della Meccancoop, e quindi del partito che la Meccancoop e assimilati tengono in piedi, è un mondo capitalista, nel senso che rientra nel grande flusso planetario dei profitti, esattamente come vi rientrano tutte le aziende private. E il cuore di tutto il flusso si trova, come tutti sanno a New York.

Per questo motivo, i vari dipendenti della Meccancoop - come Veltroni o Fassino, tanto per non citare qualche nome - si scontreranno furiosamente con la destra quando si tratta di decidere se concedere un terreno alla Standa oppure all'Ipercoop; ma non potranno che schierarsi totalmente con la destra quando si tratta di fare guerre.

Ecco perché D'Alema, nell'intervista a Panorama che segue, dice con assoluta correttezza, "Dopo gli attentati mi sono detto: ci bombardano. Perché New York, l'America, sono casa nostra". Non è un venduto, è solo uno che fa il proprio mestiere.

Memorabile, nella stessa intervista, l'immagine del piccolo politico di provincia che scopre le meraviglie del capitalismo globale negli uffici della Merrill Lynch. Scopre contemporaneamente di essere un suddito e la cosa, pare, gli piace.

La compiacente intervistatrice dice che la guerra sarà "dolorosa" e D'Alema accenna pure alla "sofferenza" dei suoi compagni di partito. Ogni volta che i crociati di sinistra fanno una guerra, o meglio che si fanno usare come portaerei per conto terzi, soffrono. Per fortuna appena finita la guerra il dolore passa, per loro. Per qualcuno altro, le cose sono un po' più difficili.

Miguel Martínez



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Americano e me ne vanto L'autocritica ("L'antiamericanismo è un errore") e gli elogi ("Bush si è mosso con notevole saggezza") del presidente ds.

Intervista a Panorama 28 Settembre 2001, di Paola Sacchi

Commosso. Massimo D'Alema, ex premier: "Dopo gli attentati mi sono detto: ci bombardano. Perché New York, l'America, sono casa nostra".

"Dalle Twin Towers ebbi la percezione più chiara di cosa fosse la globalizzazione. Era il '94, vedevo New York per la prima volta. Salii sulle torri per visitare una grande società finanziaria: la Merrill Lynch. A un desk un paio di ragazzi di colore, molto simpatici, compravano e vendevano titoli pubblici italiani. Capii che da quello che facevano dipendeva buona parte della nostra vita pubblica. Mi dissero che in caso di attentato sarebbe entrata in funzione anche una seconda centrale operativa, in un luogo segreto. Sorridendo pensai: che esagerazione. L'11 settembre, dopo l'attentato, mi sono detto: ci bombardano. Perché New York, l'America, sono casa nostra".

Massimo D'Alema, presidente ds, ex premier dal 1998 al 2000, l'uomo che oggi sta tentando l'impresa storica di schierare tutto il suo partito a sostegno degli Usa, racconta a Panorama il suo rapporto con il paese che per la sinistra è stato spesso considerato alla stregua di un avversario. E lui stesso confessa di essere stato un po' antiamericano ai tempi del Vietnam. "Però presto diventai anche antisovietico: ero a Praga quando arrivarono i carri armati russi. Non lo dimenticherò mai".

Ora lei si sente un po' più "americano"?

Il rapporto con gli Usa è stato in questi anni un punto importante della nostra politica, del nostro divenire socialisti europei. []

È sicuro che sia venuto meno ogni residuo di antiamericanismo nel suo partito?

L'antiamericanismo è un errore. Ma è duro a morire, è sopravvissuto a lungo dentro un mondo segnato dalla guerra fredda. Oggi è un punto di vista che non ci aiuta a capire la realtà.[]

Quando tornerà negli Usa?

Presto. Mi hanno invitato alcune università per tenere conferenze.

L'offensiva contro il terrorismo sarà lunga e dolorosa. Non vede il pericolo che la sua linea non regga dentro il partito, tanto più nello scontro congressuale, e che ricominci la sfida tra sinistra riformista e antagonista?

Spero, davvero, di no, sarebbe un disastro. Il ruolo del Paese, la nostra esperienza di governo, sono un bene di tutti. Le mie posizioni le ho fin qui espresse a nome di tutto il partito. Ciò è tanto più apprezzabile perché so che ci sono aree che vivono tutto questo con sofferenza, in particolare la sinistra ds.