Il 2003 è stato un anno climaticamente infausto per l’Europa: 20mila i morti per le ondate di caldo in un’estate che dagli inizi di maggio non ha allentato la sua morsa per quattro mesi. Altri pesanti costi umani – vuoi per le elevate temperature, vuoi per le piogge alluvionali o, all’opposto, per le forti siccità – si sono avuti in varie regioni del mondo. Le conseguenze economiche degli "eccessi" si stimano in 47 miliardi di euro. Ma il dato di fondo conferma la marcia inarrestabile dell’effetto serra: il 2003 è stato per il mondo il terzo anno più caldo dal 1861, mezzo grado in più del valore medio del periodo 1961-90. A battere il record dello scorso anno restano solo il 2002 e l’ormai "mitico" 1998, il più rovente della storia documentata. Il gelo negli Stati Uniti orientali e nel Canada nella prima metà di gennaio rappresentano un segnale apparentemente contraddittorio: forti nevicate, temperature addirittura di meno 30 gradi a Toronto, con la rete elettrica canadese costretta ad acquistare 1500 megawatt dagli Usa e con il prezzo del petrolio – dato fondo alle scorte americane (mai così basse da 25 anni) – schizzato a quasi 35 dollari il barile. Anche l’Italia intirizzita di questi giorni, imbiancata da Nord a Sud, sembra confermare il paradosso climatico: dall’estate arida al gennaio glaciale? Eppure queste stranezze non sconfessano l’effetto serra, anche se Washington (contraria alla pur blanda ricetta del protocollo di Kyoto) non si farà scappare l’occasione per rimettere in dubbio le convinzioni degli scienziati di tutto il mondo – americani compresi – sulle responsabilità dell’uomo (leggi: Paesi più industrializzati) nell’accelerazione del trend climatico. Ma perché diciamo che non vi è contraddizione tra estate 2003 e inverno 2004? Perché l’effetto serra non comporta solo un aumento medio (e sottolineo "medio") della temperatura mondiale, ma anche una sempre più frequente e accentuata estremizzazione dei fenomeni meteorologici. Bisogna tener conto del f atto che l’atmosfera manifesta i suoi comportamenti avvolgendo il pianeta con un movimento ondulatorio: l’aria calda si protende verso sud e quella fredda verso nord, in misura naturale, per legge di compensazione. Il fatto che il clima si radicalizzi vuol dire "forzare" questa compensazione con uno sbilanciamento rappresentato da onde più sviluppate. Un eccesso di caldo per una regione significa un’onda molto ampia lungo i meridiani da sud verso nord; ma nella regione adiacente è logico aspettarsi un’onda opposta, protesa da nord verso sud e, dunque, molto fredda. Così sta accadendo all’Italia, investita dai venti gelidi diretti dall’artico al Mediterraneo, a "compensazione" del fatto che nell’Europa occidentale l’aria calda si è spinta molto a nord, dal Portogallo fin oltre la Scozia. Così è stato anche per il Nord America, dove si è aggiunta una seconda causa, lo stratwarming, un eccessivo riscaldamento della stratosfera (l’aria al di sopra dei 10 chilometri) che determina un forte raffreddamento dell’aria sottostante. Resta dunque il fatto che il clima sta cambiando in misura sensibile e preoccupante. Una preoccupazione che dai mass media – dopo che è stata espressa chiaramente dagli scienziati – dovrebbe trasferirsi all’opinione pubblica mondiale, la quale ha il compito di chiedere misure adeguate all’importanza e alla gravità della questione. In un articolo pubblicato in questi giorni su Science, Sir David King, consigliere scientifico del primo ministro britannico Tony Blair, ha sostenuto che «il cambiamento climatico che l’umanità sta affrontando è un problema più serio della minaccia del terrorismo». Qualche giornata di gelo non può farcelo dimenticare.
Guido Caroselli
L'Avvenire 25 01 04