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Discussione: Cattolici ed Ebrei.

  1. #11
    più arcipreti, meno arcigay
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    03 Jun 2004
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    Tra la verità e l'errore non c'è nessuna via di mezzo, tra questi due poli opposti non c'è che un immenso vuoto. Colui che si pone in questo vuoto è altrettanto lontano dalla verità di colui che è nell'errore (J. Donoso Cortes)
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    2. La persona umana: grandezza e miseria

    a) Nell'Antico Testamento

    27. Si è soliti parlare, in una sola espressione, di « grandezza e miseria » della persona umana. Nell'Antico Testamento non si incontrano mai questi due termini per caratterizzare la condizione umana, ma vi ricorrono due espressioni corrispondenti: nei primi tre capitoli della Genesi l'uomo e la donna sono, da una parte, « creati a immagine di Dio » (Gn 1,27), ma, dall'altra, « cacciati dal giardino di Eden » (Gn 3,24), per non essere stati docili alla parola di Dio. Questi capitoli orientano la lettura di tutta la Bibbia. Ciascuno è invitato qui a riconoscere i tratti essenziali della propria situazione e lo sfondo di tutta la storia della salvezza.

    Creati a immagine di Dio: questa caratteristica, affermata molto prima della vocazione di Abramo e dell'elezione d'Israele, si applica agli uomini e alle donne di ogni tempo e di ogni luogo (Gn 1,26-27) 64 attribuendo loro la più alta dignità. È possibile che l'espressione tragga la sua origine dall'ideologia regale delle nazioni che circondavano Israele, in particolare l'Egitto, dove il faraone era considerato l'immagine vivente del dio, incaricata del mantenimento e del rinnovamento del cosmo. Ma la Bibbia fa di questa metafora una categoria fondamentale per la definizione di ogni persona umana. Le parole di Dio: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini su... » (Gn 1,26), presentano gli esseri umani come creature di Dio il cui compito è quello di governare la terra che Dio ha creato e popolato. In quanto immagini di Dio e agenti del creatore, gli esseri umani diventano destinatari della sua parola e sono chiamati ad essere a lui docili (Gn 2,15-17).

    Al tempo stesso si constata che le persone umane esistono come uomini e donne, e hanno il compito di servire la vita. Nell'affermazione: « Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (Gn 1,27), la differenziazione dei sessi viene messa in parallelismo con la somiglianza in rapporto a Dio.

    Inoltre, la procreazione umana si trova in stretta connessione con il compito di governare la terra, come mostra la benedizione divina della prima coppia umana: « Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela; dominate su... » (1,28). La somiglianza con Dio, l'associazione uomo-donna e il governo del mondo sono pertanto intimamente legati.

    La stretta connessione tra il fatto di essere creato a immagine di Dio e quello di avere autorità sul mondo comporta parecchie conseguenze. In primo luogo, l'applicazione universale di queste caratteristiche esclude ogni superiorità di un gruppo o di un individuo umano su un altro. Tutte le persone umane sono a immagine di Dio e tutti hanno il compito di continuare l'opera ordinatrice del Creatore. In secondo luogo, vengono prese delle disposizioni in vista della coesistenza armoniosa di tutti i viventi nella ricerca dei mezzi necessari alla loro sussistenza: Dio assegna agli uomini e alle bestie il loro cibo (Gn 1,29-30).65 In terzo luogo, la vita delle persone umane viene dotata di un certo ritmo. Oltre al ritmo del giorno e della notte, dei mesi lunari e degli anni solari (Gn 1,14-18), Dio stabilisce un ritmo settimanale con il riposo il settimo giorno, fondamento del sabato (Gn 2,1-3). Rispettando il sabato (Es 20,8-11), i padroni della terra rendono omaggio al loro Creatore.

    28. La miseria umana trova la sua espressione biblica esemplare nella storia del primo peccato, nel giardino di Eden, e del conseguente castigo. Il racconto di Gn 2,4b–3,24 completa quello di Gn 1,1–2,4a, mostrando come, in una creazione che era « buona » 66 e, una volta completata con la creazione dell'uomo, perfino « molto buona » (Gn 1,31), si sia introdotta la miseria.

    Il racconto precisa il compito affidato all'uomo, « coltivare e custodire » il giardino di Eden (Gn 2,25), e aggiunge il divieto di « mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male » (2,16-17). Questa norma implica che servire Dio e osservare i suoi comandamenti è il correlativo del potere di dominare la terra (1,26.28).

    L'uomo inizia col realizzare le intenzioni di Dio, attribuendo i nomi agli animali (2,18-20), poi accogliendo la donna come dono di Dio (2,23). Nell'episodio della tentazione, invece, la coppia umana cessa di agire secondo gli ordini di Dio. Mangiando del frutto dell'albero, la donna e l'uomo cedono alla tentazione di voler essere come Dio e di appropriarsi di una « conoscenza » che appartiene a Dio soltanto (3,5-6). La conseguenza è che cercano di evitare un confronto con Dio. Ma il loro tentativo di nascondersi evidenzia la follia del peccato, perché esso li lascia nel luogo stesso in cui la voce di Dio li può raggiungere (3,8). La domanda di Dio che incolpa l'uomo: « Dove sei? », fa pensare che questi non si trova là dove dovrebbe essere: a disposizione di Dio e dedito al suo compito (3,9). L'uomo e la donna si accorgono di essere nudi (3,7-10), il che vuol dire che hanno perso la fiducia reciproca e verso l'armonia della creazione.

    Col suo verdetto Dio ridefinisce le condizioni di vita degli essere umani, non la relazione tra lui e loro (3,17-19). D'altra parte, l'uomo perde il suo compito particolare nel giardino di Eden, ma non quello di lavorare (3,17-19.23). Questo è ora orientato verso il « suolo » (3,23; cf 2,5). In altri termini, Dio continua ad affidare una missione alla persona umana. Per « sottomettere la terra e dominare » (1,28), l'uomo deve lavorare (3,23).

    D'ora in poi, però, il « dolore » sarà compagno inseparabile della donna (3,16) e dell'uomo (3,17); la morte è il loro destino (3,19). La relazione tra l'uomo e la donna è deteriorata. La parola « dolore » è associata alla gravidanza e al parto (3,16) e, d'altra parte, alla fatica fisica e mentale causata dal lavoro (3,17).67 Paradossalmente, in ciò che di per sé è fonte di gioia profonda, il parto e la procreazione, si introduce il dolore. Il verdetto lega questo « dolore » alla loro esistenza sul « suolo », che patisce la maledizione per il loro peccato (3,17-18). Lo stesso è per la morte: la fine della vita umana è chiamata ritorno « al suolo », « alla terra », da dove l'uomo è stato tratto per adempiere il suo compito.68 In Gn 2–3 l'immortalità sembra essere legata all'esistenza nel giardino di Eden e condizionata al rispetto del divieto di mangiare dell'albero della « conoscenza ». Una volta violato questo divieto, l'accesso all'albero della vita (2,9) è precluso (3,22). In Sap 2,23-24, l'immortalità è associata alla somiglianza con Dio; « la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo »; viene così stabilito un legame tra Gn 1 e Gn 2–3.

    Creata a immagine di Dio e incaricata di coltivare la terra, la coppia umana ha il grande onore di essere chiamata a completare l'azione creatrice di Dio prendendosi cura delle creature (Sap 9,2-3). Rifiutare di ascoltare la voce di Dio e preferire ad essa quella di una o l'altra creatura rientra nella libertà dell'essere umano; subire il dolore e la morte è la conseguenza di questa opzione presa dalle persone stesse. La « miseria » è diventata un aspetto universale della condizione umana, ma si tratta di un aspetto secondario che non abolisce l'aspetto di « grandezza », voluto da Dio nel suo progetto creatore.

    I capitoli seguenti della Genesi mostrano fino a che punto il genere umano può sprofondare nel peccato e nella miseria: « La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza [...] Ogni carne aveva pervertito la sua condotta sulla terra » (Gn 6,11-12), così che Dio decretò il diluvio. Ma almeno un uomo, Noè, con la sua famiglia, « camminava con Dio » (6,9) e Dio lo scelse per essere all'origine di una nuova partenza dell'umanità. Nella sua posterità, Dio sceglie Abramo, gli ordina di abbandonare il suo paese e gli promette di « fare grande il suo nome » (12,2). Il progetto di Dio, a partire da questo momento, si rivela universale, perché in Abramo « saranno benedette tutte le famiglie della terra » (12,3). L'Antico Testamento mostra poi come questo progetto ha attraversato i secoli, in un'alternanza di momenti di miseria e di grandezza. Mai Dio si è rassegnato a lasciare il suo popolo nella miseria, rimettendolo sempre sulla strada della vera grandezza a vantaggio di tutta l'umanità.

    A questi tratti fondamentali è opportuno aggiungere che l'Antico Testamento non misconosce gli aspetti deludenti dell'esistenza umana (cf Qohelet), né il lancinante problema della sofferenza degli innocenti (cf soprattutto Giobbe), né lo scandalo delle persecuzioni subite dai giusti (cf la storia di Elia, di Geremia e degli ebrei perseguitati da Antioco). Ma in tutti questi casi, soprattutto nell'ultimo, lo scontro con la miseria, invece che porre un ostacolo alla grandezza umana, paradossalmente la risolleva.



    b) Nel Nuovo Testamento

    29. L'antropologia del Nuovo Testamento si basa su quella dell'Antico. Essa testimonia la grandezza della persona umana, creata a immagine di Dio (Gn 1,26-27), e la sua miseria, provocata dall'innegabile realtà del peccato, che fa dell'uomo una caricatura di se stesso.

    Grandezza dell'essere umano. Nei vangeli la grandezza dell'essere umano emerge dalla sollecitudine di Dio per lui, sollecitudine più attenta di quella per gli uccelli del cielo o i fiori dei campi (Mt 6,30); emerge d'altra parte dall'ideale che gli viene proposto: diventare misericordioso come lui (Lc 6,36), perfetto come egli è perfetto (Mt 5,45.48). L'essere umano, infatti, è un essere spirituale, che « non vivrà di solo pane, ma di ogni parola che esce della bocca di Dio » (Mt 4,4; Lc 4,4). È infatti la fame della parola di Dio che attira le folle prima verso Giovanni Battista (Mt 3,5-6 e par.), poi verso Gesù.69 Le attira una percezione del divino. Immagine di Dio, la persona umana è attirata da Dio. Persino i pagani sono capaci di una grande fede.70

    L'apostolo Paolo è quello che ha maggiormente approfondito la riflessione antropologica. « Apostolo dei Gentili » (Rm 11,13), egli ha compreso che tutte le persone umane sono chiamate da Dio a una gloria eccelsa (1 Ts 2,12), quella di diventare figli di Dio,71 amati da lui (Rm 5,8), membri del corpo di Cristo (1 Cor 12,27), pieni di Spirito Santo (1 Cor 6,19). Impossibile immaginare una dignità più alta.

    Il tema della creazione delle persone umane a immagine di Dio è ripreso da Paolo in molti modi. In 1 Cor 11,7 l'apostolo l'applica all'uomo, « immagine e gloria di Dio ». Ma altrove la applica a Cristo, « che è immagine di Dio ».72 La vocazione delle persone umane chiamate da Dio è allora quella di diventare « simili all'immagine del suo Figlio, perché egli sia il primogenito di una moltitudine di fratelli » (Rm 8,29). Questa somiglianza viene data dalla contemplazione della gloria del Signore (2 Cor 3,18; 4,6). La trasformazione, iniziata in questa vita, si completa nell'altra, quando « porteremo l'immagine dell'uomo celeste » (1 Cor 15,49); la grandezza della persona umana raggiungerà allora il suo apice.

    30. Miseria dell'essere umano. La situazione penosa dell'umanità appare in molti modi nel Nuovo Testamento. Si vede chiaramente che la terra non è un paradiso! Gli evangelisti ci mostrano a più riprese una lunga serie di malattie e di infermità che affliggono una moltitudine di persone.73 Nei vangeli, la possessione diabolica esprime la profonda schiavitù nella quale può cadere la persona tutta intera (Mt 8,28-34 e par.). La morte colpisce e getta nell'afflizione.74

    Ma è soprattutto la miseria morale a attirare l'attenzione. Si constata che l'umanità si trova in una situazione di peccato che provoca rischi estremi.75 Di conseguenza l'appello alla conversione si fa pressante. La predicazione di Giovanni Battista lo fa risuonare con forza nel deserto; 76 a lui subentra poi Gesù; « egli proclamava il vangelo di Dio e diceva: [...] convertitevi e credete al vangelo » (Mc 1,14-15); « percorreva tutte le città e i villaggi » (Mt 9,35). Denunciava il male « che esce dall'essere umano » e lo « contamina » (Mc 7,20). « Dal di dentro infatti, dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutto questo male esce dal di dentro e rende l'essere umano impuro ».77 Nella parabola del figlio prodigo, Gesù descrive lo stato di profonda miseria in cui si trova ridotta la persona umana quando si allontana dalla casa del Padre (Lc 15,13-16).

    D'altra parte, egli parlava delle persecuzioni subite dalle persone votate alla causa della « giustizia » (Mt 5,10) e annunciava che i suoi discepoli sarebbero stati perseguitati.78 Egli stesso lo era stato (Gv 5,16); cercavano di metterlo a morte.79 Questa intenzione omicida finisce per trovare i modi di realizzarsi. La passione di Gesù fu allora una manifestazione estrema della miseria morale dell'umanità. Non vi mancò nulla: tradimento, rinnegamento, abbandono, processo e condanna ingiusti, oltraggi e maltrattamenti, supplizio crudele accompagnato da derisioni. La malvagità umana si scatenò contro « il Santo e il Giusto » (At 3,14) e lo ridusse a uno stato di orribile miseria.

    È nella lettera di Paolo ai Romani che si trova la descrizione più fosca della miseria morale dell'umanità (Rm 1,18–3,20) e l'analisi più penetrante della condizione dell'uomo peccatore (Rm 7,14-25). Il quadro che l'apostolo traccia di « ogni empietà e ingiustizia degli uomini che tengono la verità prigioniera dell'ingiustizia » è veramente opprimente. Il rifiuto di rendere gloria a Dio e di ringraziarlo porta a un completo accecamento e alle peggiori perversioni (1,21-32). Paolo si preoccupa di mostrare che la miseria morale è universale e che l'ebreo non ne è esente, malgrado il privilegio che ha di conoscere la Legge (2,17-24). Egli basa la sua tesi su una lunga serie di testi dell'Antico Testamento, che affermano che tutti gli uomini sono peccatori (3,10-18): « Non c'è nessun giusto, nemmeno uno ».80 L'aspetto esclusivo di questa negazione non è certo frutto dell'esperienza, ma ha piuttosto il carattere di un'intuizione teologica di ciò che l'uomo diventa senza la grazia di Dio: il male regna nel cuore di ciascuno (cf Sal 51,7). Questa intuizione è rafforzata in Paolo dalla convinzione che Cristo« è morto per tutti »; 81 tutti avevano quindi bisogno di redenzione. Se il peccato non fosse universale, ci sarebbero persone che non avrebbero bisogno di redenzione.

    La Legge non reca rimedio al peccato, perché l'uomo peccatore, anche se riconoscesse la bontà della Legge e volesse osservarla, deve purtroppo constatare: « il bene che voglio non lo compio, mentre il male che non voglio lo compio » (Rm 7,19). La potenza del peccato si serve della stessa Legge per manifestare ancora di più tutta la sua virulenza, facendola violare (7,13). E il peccato causa la morte,82 il che provoca, da parte dell'uomo peccatore, una crisi di disperazione: « Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (Rm 7,24). Si manifesta così un urgente bisogno di redenzione.

    In un registro completamente diverso, ma con forza ancora maggiore, il libro dell'Apocalisse testimonia anch'esso i guasti che il male produce nel cuore degli uomini. Esso descrive « Babilonia », « la grande prostituta », che ha trascinato nei suoi abomini « i re della terra » e « gli abitanti della terra » e che è « ebbra del sangue dei santi e dei testimoni di Gesù » (Ap 17,1-6). « I suoi peccati si sono accumulati fino al cielo » (18,5). Il male scatena terribili calamità. L'ultima parola, però, non sarà sua. Babilonia crolla (18,2); dal cielo discende « la città santa, la Gerusalemme nuova », « dimora di Dio con gli uomini » (21,2-3). Alla proliferazione del male si oppone la salvezza che viene da Dio.

  2. #12
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    3. Dio, liberatore e salvatore

    a) Nell'Antico Testamento

    31. Fin dall'inizio della sua storia, al momento dell'uscita dall'Egitto, Israele fa l'esperienza del signore come liberatore e salvatore: tale è la testimonianza della Bibbia, che descrive come Israele sia stato strappato alla dominazione egiziana al momento della traversata del mare (Es 14,21-31). La traversata miracolosa del mare diventa uno dei temi principali della lode di Dio.83 L'uscita dall'Egitto, insieme all'ingresso nella terra promessa (Es 15,17), diventa l'affermazione principale della confessione di fede.84

    Un significato teologico deve essere riconosciuto alle formulazioni di cui si serve l'Antico Testamento per esprimere l'intervento del Signore in questo evento salvifico, fondamentale per Israele: il signore « ha fatto uscire » Israele dall'Egitto, « la casa di schiavitù » (Es 20,2; Dt 5,6), l'ha « fatto salire » verso una « terra bella e spaziosa, dove scorre latte e miele » (Es 3,8.17), l'ha « strappato » ai suoi oppressori (Es 6,6; 12,27), l'ha « riscattato », come si riscattano gli schiavi (pādāh: Dt 7,8) o facendo valere i diritti di parentela (gā'al: Es 6,6; 15,13).

    Nella terra di Canaan, in continuità con l'esperienza dell'uscita dall'Egitto, Israele beneficia nuovamente dell'intervento liberatore e salvatore di Dio. Oppresso da popoli nemici in seguito alla sua infedeltà verso Dio, Israele invoca questi in suo aiuto. Il Signore suscita allora un « giudice » come « salvatore ».85

    Nella triste situazione dell'esilio — dopo la perdita della terra —, al Secondo Isaia, profeta di cui si ignora il nome, spettò il compito di annunciare agli esiliati un messaggio inaudito: il Signore stava per ripetere il suo intervento liberatore iniziale — quello dell'uscita dall'Egitto —, rendendolo ancora più grande. Alla discendenza dei suoi eletti, Abramo e Giacobbe (Is 41,8), egli si sarebbe manifestato come « redentore » (gō'ēl), sottraendola ai suoi padroni stranieri, i Babilonesi.86 « Io, io sono il signore, fuori di me non v'è salvezza » (Is 43,11-12). Come « salvatore » e « redentore » d'Israele, il signore sarà riconosciuto da tutti i mortali (Is 49,26).

    Dopo il ritorno degli esiliati, presentato come imminente dal Secondo Isaia e diventato presto realtà — ma in modo poco spettacolare —, si fece strada la speranza di una liberazione escatologica: alcuni eredi del profeta esilico annunciarono il compimento, ancora futuro, della redenzione d'Israele come intervento divino della fine dei tempi.87 Anche il principe messianico della fine dei tempi può essere presentato come salvatore d'Israele (Mic 4,14–5,5).

    In molti salmi, la salvezza assume un aspetto individuale. Alle prese con la malattia o con intrighi ostili, l'israelita ha la possibilità di invocare il Signore per ottenere di essere preservato dalla morte o dall'oppressione.88 Egli può ugualmente domandare l'aiuto di Dio per il re (Sal 20,10); ha fiducia nell'intervento salvifico di Dio (Sal 55,17-19). Viceversa, i fedeli e in particolare il re (Sal 18 = 2 Sam 22) rendono grazie al Signore per l'aiuto ottenuto e per la fine dell'oppressione.89

    Israele spera, inoltre, che il Signore lo « redimerà da tutte le sue colpe » (Sal 130,8).

    In alcuni testi appare l'idea di una salvezza dopo la morte. Ciò che per Giobbe era solo un barlume di speranza (« il mio redentore è vivo »: Gb 19,25) diventa speranza ferma in un salmo: « Ma Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dal potere degli inferi » (Sal 49,16). In Sal 73,24 il salmista dice pure: « E poi mi accoglierai nella gloria ». Dio può quindi non solo stroncare la potenza della morte e impedirle di separare da lui il suo fedele (Sal 6,5-6), ma anche condurlo al di là della morte a renderlo partecipe della sua gloria.

    Il libro di Daniele e gli scritti deuterocanonici riprendono il tema e gli danno nuovi sviluppi. Secondo l'attesa apocalittica, la glorificazione dei « saggi » (Dan 12,3) — si tratta forse delle persone rimaste fedeli alla Legge nonostante la persecuzione — farà seguito alla risurrezione dei morti (12,2). La ferma speranza di una risurrezione dei martiri « per una vita eterna » (2 Mac 7,9) trova una forte espressione nel secondo libro dei Maccabei.90 Secondo il libro della Sapienza, « gli uomini furono istruiti [...] e salvati dalla Sapienza » (Sap 9,19). Poiché il giusto è « figlio di Dio », Dio « verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari » (2,18), preservandolo dalla morte o salvandolo al di là della morte, perché « la speranza » dei giusti è « piena di immortalità » (3,4).



    b) Nel Nuovo Testamento

    32. Il Nuovo Testamento si colloca in continuità con l'Antico Testamento nella presentazione di Dio come salvatore. Fin dall'inizio del vangelo di Luca, Maria esalta Dio, suo « salvatore » (Lc 1,47) e Zaccaria benedice « il Signore, Dio d'Israele perché ha [...] operato una redenzione per il suo popolo » (Lc 1,68); il tema della salvezza ricorre quattro volte nel « Benedictus »,91 con successive precisazioni: si passa dal desiderio di essere liberati dai nemici (1,71.74) a quello di essere liberati dai peccati (1,77). Paolo proclama che il vangelo è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede » (Rm 1,16).

    Nell'Antico Testamento, per operare la liberazione e la salvezza, Dio si serve di strumenti umani che, come abbiamo visto, ricevono talvolta il titolo di salvatore, attribuito più spesso a Dio stesso. Nel Nuovo Testamento il titolo di « redentore » (lytrōtēs), che ricorre solo una volta, è attribuito a Mosè, inviato come tale da Dio (At 7,35).92 Il titolo « salvatore » è invece attribuito a Dio e a Gesù. Il nome stesso di Gesù evoca la salvezza concessa da Dio; il primo vangelo lo nota subito e precisa che si tratta di una salvezza spirituale: il bambino concepito dalla vergine Maria « sarà chiamato Gesù, perché salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Mt 1,21). Nel vangelo di Luca gli angeli annunciano ai pastori: « Oggi vi è nato un salvatore » (Lc 2,11). Il IV vangelo allarga la prospettiva facendo proclamare dai samaritani che Gesù « è veramente il salvatore del mondo » (Gv 4,42).

    Nei vangeli, negli Atti degli apostoli e nelle lettere autentiche di Paolo, il Nuovo Testamento è molto discreto nell'uso del titolo di salvatore.93 Questa discrezione viene spiegata col fatto che l'uso di questo titolo era molto diffuso nel mondo ellenistico; era attribuito a divinità come Asclepio, un dio guaritore, e a sovrani divinizzati che si presentavano come salvatori del popolo. Poteva perciò apparire ambiguo. Inoltre, la nozione di salvezza, nel mondo greco, aveva una forte connotazione individualistica e fisica, mentre la nozione neotestamentaria, ereditata dall'Antico Testamento, aveva un'ampiezza collettiva e un'apertura spirituale. Col tempo, però, il rischio di ambiguità scomparve e le lettere pastorali e la seconda lettera di Pietro utilizzano spesso il titolo di salvatore applicandolo sia a Dio che a Cristo.94

    Nella vita pubblica di Gesù, la forza della salvezza che si trova in lui non si manifesta soltanto sul piano spirituale, come in Lc 19,9-10, ma anche — e spesso — sul piano corporale. Gesù salva i malati guarendoli.95 Egli osserva: « La tua fede ti ha salvato ».96 I suoi discepoli lo implorano di salvarli dal pericolo ed egli li salva.97 Libera perfino dalla morte.98 Quando è sulla croce i suoi avversari gli ricordano, deridendolo, che « ha salvato gli altri » e lo sfidano a « salvare se stesso scendendo dalla croce ».99 Ma Gesù rifiuta per se stesso questo genere di salvezza, perché è venuto per « dare la propria vita in riscatto (lytron: strumento di liberazione) per molti. 100 Alcuni avrebbero voluto fare di lui un liberatore nazionale, 101 ma egli aveva rifiutato. La salvezza che egli arrecava era di tutt'altro genere.

    La relazione tra la salvezza e il popolo ebraico diventa l'oggetto esplicito della riflessione teologica di Giovanni: « La salvezza viene dai Giudei » (Gv 4,22). Questa affermazione di Gesù si situa in un contesto di opposizione tra il culto ebraico e il culto samaritano, opposizione che sarà superata di fatto dall'instaurazione di un'adorazione « in spirito e verità » (4,23). Alla fine dell'episodio, i samaritani riconoscono che Gesù è « il salvatore del mondo » (4,42).

    Il titolo di salvatore è attribuito in modo speciale a Gesù risorto, perché, con la risurrezione, « Dio lo ha innalzato con la sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele la conversione e il perdono dei peccati » (At 5,31). La prospettiva è escatologica. « Salvatevi », dice Pietro, « da questa generazione perversa » (At 2,40) e Paolo presenta Gesù risorto, ai pagani convertiti, come « colui che ci libera dall'ira ventura » (1 Ts 1,10). « Giustificati ora per il suo sangue, a maggior ragione saremo salvati dall'ira per mezzo di lui » (Rm 5,9).

    Questa salvezza era promessa al popolo d'Israele, ma anche le « nazioni » possono ora parteciparvi, perché il vangelo è « una potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco ». 102 La speranza di salvezza, che si esprime così spesso e con tanta forza nell'Antico Testamento, trova il suo compimento nel Nuovo.

  3. #13
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    4. L'elezione d'Israele

    a) Nell'Antico Testamento

    33. Dio è liberatore e salvatore prima di tutto di un piccolo popolo — situato con altri tra due grandi imperi — perché ha scelto questo popolo per sé, separandolo dagli altri in vista di una speciale relazione con lui e di una missione nel mondo. L'idea dell'elezione è fondamentale per la comprensione dell'Antico Testamento e di tutta la Bibbia.

    L'affermazione secondo la quale il signore ha « scelto » (bahar) Israele è un tema dominante dell'insegnamento del Deuteronomio. La scelta che il Signore ha fatto d'Israele si è manifestata con l'intervento divino per liberarlo dall'Egitto e con il dono di una terra. Il Deuteronomio nega espressamente che la scelta divina sia stata motivata dalla grandezza d'Israele o dalla sua perfezione morale: « Riconosci che non a causa della tua giustizia il signore tuo Dio ti dà il possesso di questo fertile paese, perché tu sei un popolo di dura cervice » (9,6). L'unico fondamento della scelta di Dio è stato il suo amore e la sua lealtà: « perché vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » (7,8).

    Scelto da Dio, Israele è chiamato a essere un « popolo santo » (Dt 7,6; 14,2). Il termine « santo » (qādôš) esprime una situazione che consiste, negativamente, nell'essere separato da ciò che è profano e, positivamente, nell'essere consacrato al servizio di Dio. Utilizzando l'espressione « popolo santo », il Deuteronomio mette in grande rilievo la situazione unica d'Israele, nazione introdotta nel campo del sacro, diventata proprietà particolare di Dio e oggetto di speciale protezione. Contemporaneamente si sottolinea l'importanza della risposta d'Israele all'iniziativa divina e quindi la necessità di una condotta appropriata. In questo modo, la teologia dell'elezione mette in luce al tempo stesso lo status di distinzione e la speciale responsabilità del popolo che, tra tutti gli altri, è stato scelto per essere proprietà particolare di Dio 103 e per essere santo, perché Dio è santo. 104

    Nel Deuteronomio, il tema dell'elezione non riguarda unicamente il popolo. Una delle esigenze fondamentali di questo libro è che il culto del Signore sia celebrato nel luogo che il Signore avrà scelto. L'elezione del popolo appare nell'introduzione parenetica alle leggi, ma, nelle stesse leggi, l'elezione divina si concentra sul santuario unico. 105 Altri libri precisano il luogo in cui si trova questo santuario e mettono questa scelta divina in relazione con l'elezione di una tribù e di una persona. La tribù scelta è quella di Giuda, preferita a Efraim; 106 la persona scelta è Davide. 107 Costui conquista Gerusalemme e la fortezza di Sion, che diventa « Città di Davide » (2 Sam 5,6-7) e vi fa trasportare l'arca dell'alleanza (2 Sam 6,12). È così che il Signore ha scelto Gerusalemme (2 Cr 6,5) e, più precisamente, Sion (Sal 132,13) per sua dimora.

    In epoche di confusione e di tormenti, quando non sembra esserci futuro per gli Israeliti, la certezza di essere il popolo di Dio sostiene la loro speranza nella misericordia di Dio e nella fedeltà alle sue promesse. Durante l'esilio, il Secondo Isaia riprende il tema dell'elezione 108 per consolare gli esiliati, che avevano l'impressione di essere stati abbandonati da Dio (Is 49,14). L'esecuzione del giudizio di Dio non aveva posto fine all'elezione d'Israele; questa manteneva la sua validità, perché poggiava sull'elezione dei patriarchi.109 All'idea di elezione, il Secondo Isaia collega quella di servizio, presentando Israele come « Servo del signore »,110 destinato a essere « luce delle nazioni » (49,6). Questi testi mostrano chiaramente che l'elezione, base della speranza, comportava una responsabilità: Israele doveva essere, davanti alle nazioni, il « testimone » del Dio unico.111 Portando questa testimonianza, il Servo arriverà a conoscere il signore quale egli è (43,10).

    L'elezione d'Israele non implica il rifiuto delle altre nazioni. Al contrario, presuppone che anch'esse appartengono a Dio, perché « a lui appartiene la terra e quanto essa contiene » (Dt 10,14), e Dio « ha stabilito per le nazioni i loro confini » (32,8). Quando Israele viene chiamato da Dio « mio figlio primogenito » (Es 4,22; Ger 31,9) o « la primizia del suo raccolto » (Ger 2,3), queste metafore implicano che le altre nazioni fanno ugualmente parte della famiglia e della casa di Dio. Questa interpretazione dell'elezione è tipica della Bibbia nel suo insieme.

    34. Nella sua dottrina dell'elezione d'Israele, il Deuteronomio, come abbiamo detto, mette l'accento sull'iniziativa divina, ma anche sull'aspetto esigente della relazione tra Dio e il suo popolo. La fede nell'elezione poteva, tuttavia, irrigidirsi in orgoglioso sentimento di superiorità. I profeti si sono preoccupati di lottare contro questa deviazione. Un oracolo di Amos relativizza l'elezione e attribuisce ad altre nazioni il privilegio di un esodo paragonabile a quello di cui Israele è stato beneficiario (Am 9,7). Un altro oracolo dichiara che l'elezione ha come conseguenza, da parte di Dio, una maggiore severità: « Soltanto voi ho eletto tra tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre iniquità » (Am 3,2). Amos conferma che il Signore ha scelto Israele in un modo speciale e unico. In questo contesto, il verbo « conoscere » ha un significato più profondo e più intimo di quello di una presa di coscienza dell'esistenza, esprimendo un'azione personale intima piuttosto che una semplice operazione intellettuale. Ma questa relazione comporta delle esigenze morali specifiche. Essendo popolo di Dio, Israele deve vivere come tale. Se viene meno a questo dovere, riceverà la « visita » di una giustizia divina più severa che nel caso delle altre nazioni.

    Per Amos era chiaro che elezione significa responsabilità piuttosto che privilegio. È evidente che in primo luogo viene la scelta e poi l'esigenza. Nondimeno, l'elezione d'Israele da parte di Dio implica un livello più alto di responsabilità. Ricordandolo, il profeta eliminava l'illusione che faceva credere che il popolo eletto avesse presa su Dio.

    L'indocilità ostinata del popolo e dei suoi re provocò la catastrofe dell'esilio, annunciata dai profeti. « Il signore decise: Anche Giuda allontanerò dalla mia presenza, come ho allontanato Israele; respingerò questa città, Gerusalemme, che mi ero scelta, e il Tempio di cui avevo detto: “Ivi sarà il mio nome” » (2 Re 23,27). Questa decisione di Dio produsse tutto il suo effetto (2 Re 25,1-21). Ma nel momento in cui si diceva: « Il signore ha ripudiato le due famiglie che si era scelte » (Ger 33,24), il Signore smentiva formalmente questa affermazione: « No! cambierò la loro sorte perché avrò compassione di essi » (Ger 33,26). Già il profeta Osea aveva annunciato che quando Israele sarebbe diventato per Dio « Non-mio-popolo » (Os 1,8), Dio gli avrebbe detto: « Tu sei mio popolo » (Os 2,25). Gerusalemme doveva essere ricostruita; al Tempio riedificato il profeta Aggeo predice una gloria più grande di quella del Tempio di Salomone (Ag 2,9). L'elezione veniva così confermata solennemente.



    b) Nel Nuovo Testamento

    35. L'espressione « popolo eletto » non ricorre nei vangeli, ma la convinzione che Israele sia il popolo scelto da Dio è in essi un dato basilare espresso con altri termini. Matteo applica a Gesù un oracolo di Michea in cui Dio parla d'Israele come del suo popolo; del bimbo nato a Betlemme Dio dice: « Pascerà il mio popolo, Israele » (Mt 2,6; Mic 5,3). La scelta di Dio e la sua fedeltà verso il popolo eletto si riflettono poi nella missione affidata da Dio a Gesù: mi ha inviato solo « alle pecore perdute della casa d'Israele » (Mt 15,24); Gesù stesso limita con parole identiche la prima missione dei suoi « dodici apostoli » (Mt 10,2. 5-6).

    Ma l'opposizione che Gesù incontra nei notabili provoca un mutamento di prospettiva. Concludendo la parabola dei vignaioli omicidi, indirizzata ai « sommi sacerdoti » e agli « anziani del popolo » (Mt 21,23), Gesù dichiara: « Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una nazione che lo farà fruttificare » (21,43). Quest'affermazione non significa comunque la sostituzione del popolo d'Israele con una nazione pagana. La nuova « nazione » sarà, al contrario, in continuazione con il popolo eletto perché avrà come « testata d'angolo » la « pietra scartata dai costruttori » (21,42), che è Gesù, un figlio d'Israele, e sarà composta da Israeliti, ai quali si uniranno « molti » (Mt 8,11) provenienti da « tutte le nazioni » (Mt 28,19). La promessa della presenza di Dio nel suo popolo, che era una così importante garanzia dell'elezione d'Israele, trova il suo compimento nella presenza del Signore risorto nella sua comunità. 112

    Nel vangelo di Luca, il cantico di Zaccaria proclama che « il Dio d'Israele ha visitato il suo popolo » (Lc 1,68) e che la missione del figlio di Zaccaria consisterà nel « camminare alla presenza del Signore » e nel « dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nel perdono dei suoi peccati » (1,76-77). Al momento della presentazione del bambino Gesù al tempio, Simeone qualifica la salvezza apportata da Dio come « gloria del tuo popolo Israele » (2,32). Più tardi, un grande miracolo compiuto da Gesù provoca la seguente acclamazione della folla: « Dio ha visitato il suo popolo » (7,16).

    Per Luca esiste tuttavia una tensione, a causa dell'opposizione incontrata da Gesù. Ma questa opposizione viene dai dirigenti del popolo, non dal popolo stesso, che è molto favorevole a Gesù. 113 Negli Atti degli apostoli, Luca sottolinea che un gran numero di coloro che ascoltano Pietro accoglie il suo appello al pentimento, il giorno di Pentecoste e dopo. 114 Al contrario, il racconto degli Atti sottolinea che, per tre volte, in Asia Minore, in Grecia e a Roma, l'opposizione accanita dei Giudei costringe Paolo a orientare la sua missione verso i Gentili. 115

    A Roma, Paolo ricorda ai notabili ebrei l'oracolo di Isaia che aveva predetto l'indurimento di « questo popolo ». 116 Si trovano così nel Nuovo Testamento, come nell'Antico, due prospettive differenti sul popolo scelto da Dio.

    Si constata, al tempo stesso, che l'elezione d'Israele non è un privilegio chiuso in se stesso. Già l'Antico Testamento annunciava l'adesione di « tutte le nazioni » al Dio d'Israele. 117 Sulla stessa linea, Gesù annuncia che « molti verranno da oriente e da occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe ».118 Gesù, risorto, estende al « mondo intero » la missione degli apostoli e l'offerta della salvezza.119

    Di conseguenza, la prima lettera di Pietro, che si rivolge a dei credenti provenienti soprattutto dal paganesimo, definisce quest'ultimi « stirpe eletta »120 e « nazione santa »,121 come quelli proveniente dal giudaismo. Essi, che non erano un popolo, sono ora « popolo di Dio ».122 La seconda lettera di Giovanni chiama « Signora eletta » (v. 1) la comunità cristiana alla quale è indirizzata e « tua sorella l'eletta » (v. 13) la comunità dalla quale viene inviata. A dei pagani di recente conversione, l'apostolo Paolo non esita a dichiarare: « Conoscendo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione... » (1 Ts 1,4). La convinzione di essere partecipi dell'elezione divina veniva così comunicata a tutti i cristiani.

    36. Nella sua lettera ai Romani, Paolo precisa chiaramente che si tratta, per i cristiani provenienti dal paganesimo, di una partecipazione all'elezione d'Israele, unico popolo di Dio. I Gentili sono l'« oleastro », « innestato sull'olivo buono » per « beneficiare della ricchezza della radice » (Rm 11,17.24). Non devono pertanto gloriarsi a spese dei rami. « Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te » (11,18).

    All'interrogativo se l'elezione d'Israele conservi sempre la sua validità, Paolo dà due risposte differenti; la prima consiste nel dire che alcuni rami sono stati recisi, a causa del loro rifiuto della fede (11,17.20), ma « c'è un resto, conforme a un'elezione per grazia » (11,5). Non si può perciò dire che Dio abbia ripudiato il suo popolo (11,1-2). « Israele non ha ottenuto quello che cercava; l'ha ottenuto invece l'elezione — cioè il resto eletto —; gli altri si sono induriti » (11,7). Una seconda risposta consiste nel dire che quei Giudei che sono diventati « nemici quanto al vangelo » restano « amati, quanto all'elezione, a causa dei padri » (11,28) e Paolo prevede che otterranno perciò misericordia (11,27.31). Gli ebrei non cessano di essere chiamati a vivere per la fede nell'intimità di Dio, « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (11,29).

    Il Nuovo Testamento non afferma mai che Israele è stato ripudiato. Fin dai primi tempi, la Chiesa ha ritenuto che gli ebrei restano testimoni importanti dell'economia divina della salvezza. Essa comprende la propria esistenza come una partecipazione all'elezione d'Israele e alla vocazione che resta, in primo luogo, quella d'Israele, sebbene solo una piccola parte d'Israele l'abbia accettata.

    Quando Paolo parla della provvidenza di Dio come del lavoro di un vasaio che prepara per la sua gloria « vasi di misericordia » (Rm 9,23), non intende dire che questi vasi rappresentino in modo esclusivo o principale dei Gentili, ma che rappresentano dei Gentili e dei Giudei, con una certa priorità per quest'ultimi: « egli ci ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani » (9,24).

    Paolo ricorda che Cristo, « nato sotto la Legge » (Gal 4,4), è stato « servitore dei circoncisi, in nome della fedeltà di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri » (Rm 15,8), il che vuol dire che Cristo, non solo è stato circonciso, ma si è messo a servizio dei circoncisi e ciò per il fatto che Dio si era impegnato verso i patriarchi facendo loro delle promesse, la cui validità veniva dimostrata. « Quanto ai Gentili, aggiunge l'apostolo, essi glorificano Dio per la sua misericordia » (Rm 15,9) e non per la sua fedeltà, perché il loro ingresso nel popolo di Dio non scaturisce da promesse divine; è una specie di supplemento non dovuto. Saranno quindi prima gli ebrei a lodare Dio in mezzo alle nazioni; essi inviteranno poi le nazioni a rallegrarsi con il popolo di Dio (15,9b-10).

    Paolo stesso ricorda spesso con fierezza la propria origine ebraica. 123 In Rm 11,1 ricorda la sua condizione di « israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino », come prova che Dio non ha ripudiato il suo popolo. In 2 Cor 11,22 presenta questa stessa condizione come titolo di gloria che mette in parallelo con il suo titolo di ministro di Cristo (11,23). È vero che, secondo Fil 3,7, questi vantaggi che erano per lui un guadagno, li ha « considerati una perdita a causa di Cristo ». Ma il motivo stava nel fatto che questi vantaggi, invece di condurlo a Cristo, l'avevano allontanato da lui.

    In Rm 3,1-2 Paolo afferma senza esitare « la superiorità del Giudeo e l'utilità della circoncisione », e ne dà una prima ragione, di capitale importanza: « a loro sono state affidate le rivelazioni di Dio ». Altre ragioni vengono esposte più avanti, in Rm 9,4-5, e formano una serie impressionante di doni di Dio e non soltanto di promesse: agli Israeliti appartengono « l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne » (Rm 9,4-5).

    Paolo, tuttavia, afferma subito che non basta appartenere fisicamente a Israele per appartenere veramente a lui ed essere « figli di Dio ». Bisogna anzitutto essere « figli della promessa » (Rm 9,6-8), il che, nel pensiero dell'apostolo, implica l'adesione a Cristo Gesù, nel quale « tutte la promesse di Dio sono divenute ‘sì' » (2 Cor 1,20). Secondo la lettera ai Galati, la « discendenza di Abramo » non può essere che unica; essa si identifica con Cristo e quelli che appartengono a lui (Gal 3,16.19). Ma l'apostolo sottolinea che « Dio non ha ripudiato il suo popolo » (Rm 11,2). Poiché « la radice è santa » (11,16), Paolo resta nella sua convinzione che alla fine Dio, nella sua sapienza insondabile, innesterà nuovamente tutti gli Israeliti sull'olivo buono (11,24); « tutto Israele sarà salvato » (11,26).

    È per le nostre radici comuni e per questa prospettiva escatologica che la Chiesa riconosce al popolo ebraico uno status speciale di « fratello maggiore », il che gli conferisce una posizione unica tra tutte le altre religioni. 124

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    5. L'alleanza

    a) Nell'Antico Testamento

    37. Come abbiamo già visto, l'elezione d'Israele presenta un duplice aspetto: è un dono d'amore da cui ne consegue un'esigenza corrispondente. L'alleanza conclusa al Sinai mette maggiormente in luce questo duplice aspetto.

    Come la teologia dell'elezione, anche quella dell'alleanza è da cima a fondo teologia del popolo del signore. Adottato dal Signore e diventato suo figlio (cf Es 3,10; 4,22-23), Israele riceve l'ordine di vivere in fedeltà esclusiva e in totale impegno verso di lui. Pertanto, per sua stessa definizione, la nozione di alleanza si oppone alla falsa convinzione secondo la quale l'elezione d'Israele sarebbe automaticamente una garanzia della sua esistenza e della sua felicità. L'elezione doveva essere compresa piuttosto come una vocazione che Israele aveva il dovere di realizzare nella sua vita come popolo. L'aver contratto un'alleanza esigeva una scelta e una decisione da parte d'Israele, così come da parte di Dio. 125

    Oltre al suo uso nel racconto del Sinai. 126 (Es 24,3-8), il termine berît, tradotto generalmente con « alleanza », appare in diverse tradizioni bibliche, in particolare quelle riguardanti Noè, Abramo, Davide, Levi e il sacerdozio levitico; è frequente nel Deuteronomio e nella storia deuteronomistica. In ogni contesto, il termine ha sfumature di significato differenti. La traduzione abituale di berît, con « alleanza » è talvolta non appropriata. Il termine può avere il senso più ampio di « impegno », trovarsi in parallelismo con « giuramento » ed esprimere una promessa o una solenne assicurazione.

    Impegno verso Noè(Gn 9,8-17). Dopo il diluvio, Dio annuncia a Noè e ai suoi figli che assumerà un impegno (berît,) con loro e con ogni essere vivente. Nessun obbligo viene imposto a Noè né ai suoi discendenti. Dio s'impegna di propria iniziativa e senza riserve. Questo impegno incondizionato di Dio con la sua creazione è alla base di ogni vita. Il suo carattere unilaterale, cioè senza esigenze imposte alla controparte, emerge chiaramente dal fatto che questo impegno include esplicitamente gli animali (« tutti quelli che sono usciti dall'arca »: 9,10). Come segno dell'impegno assunto da Dio viene dato l'arcobaleno. Quando apparirà tra le nubi, Dio si ricorderà del suo « impegno eterno » verso « ogni carne che è sulla terra » (9,16).

    Impegno verso Abramo(Gn 15,1-25; 17,1-26). Secondo Gn 15, il signore prende un impegno verso Abramo, espresso in questi termini: « Alla tua discendenza io do questo paese » (15,18). Il racconto non fa menzione di un obbligo reciproco. Il carattere unilaterale dell'impegno viene confermato dal rito solenne che precede la dichiarazione divina. Si tratta di un rito di auto-imprecazione: passando tra le due metà degli animali uccisi, la persona che assume l'impegno chiama su di sé una sorte simile, nel caso venisse meno ai suoi obblighi (cf Ger 34,18-20). Se, in Gn 15, si fosse trattato di un'alleanza con obblighi reciproci, le due parti avrebbero dovuto partecipare al rito. Invece non è così: solo il signore, rappresentato da una « torcia di fuoco » (15,17), passa tra gli animali divisi.

    L'aspetto di promessa di Gn 15 si ritrova in Gn 17, ma con l'aggiunta di un comandamento. Dio impone ad Abramo un obbligo generale di perfezione morale (17,1) e una prescrizione positiva particolare, la circoncisione (17,10-14). Le parole: « Cammina alla mia presenza e sii integro » (17,1) mirano a una dipendenza totale e incondizionata in rapporto a Dio. Viene poi promessa (17,2) e definita una berît: promessa di una straordinaria fecondità (17,4-6) e del dono della terra (17,8). Queste promesse sono incondizionate e differiscono in questo dall'alleanza del Sinai (Es 19,5-6). Il termine berît appare 17 volte in questo capitolo con il suo significato fondamentale di assicurazione solenne, ma mira a qualcosa di più di una promessa: viene qui creato un legame eterno tra Dio e Abramo, compresa la sua discendenza: « sarò il vostro Dio » (17,8).

    La circoncisione è il « segno » dell'impegno verso Abramo, come l'arcobaleno è il segno dell'alleanza con Noè, con la differenza che la circoncisione dipende da una decisione umana. È un segno che identifica coloro che beneficiano della promessa di Dio. Se uno non porta questo segno dovrà essere eliminato dal popolo, perché avrà profanato l'alleanza (17,14).

    38. L'alleanza del Sinai. Il testo di Es 19,4-8 mostra il significato fondamentale dell'alleanza di Dio con Israele. Il simbolismo poetico utilizzato — « portare su ali d'aquila » — mostra molto bene come l'alleanza si inserisca molto naturalmente all'interno del processo di profonda liberazione avviato al momento della traversata del mare. Tutta l'idea dell'alleanza risale a questa iniziativa divina. L'atto redentore compiuto dal signore al momento dell'uscita dall'Egitto costituisce per sempre il fondamento dell'esigenza di fedeltà e di docilità verso di lui.

    L'unica risposta valida a questo atto redentore è una continua gratitudine, che si esprime con un'obbedienza sincera. « Ora, se mi obbedirete e osserverete la mia alleanza... » (19,5a): questi patti non devono essere considerati una della basi sulle quali posa l'alleanza, ma piuttosto come la condizione da adempiere per continuare a godere delle benedizioni promesse dal Signore al suo popolo. L'accettazione dell'alleanza offerta include, da una parte, degli obblighi e garantisce, dall'altra, uno status speciale: « Sarete la mia proprietà personale (segullah) »; in altre parole: « sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (19,5b.6).

    Il testo di Es 24,3-8 porta a compimento l'alleanza annunciata in 19,3-8. La ripartizione del sangue in due parti uguali prepara la celebrazione del rito. Una metà del sangue è versata sull'altare, dedicato a Dio, mentre l'altra metà è versata sugli Israeliti radunati, che in questo modo sono consacrati come popolo santo del signore e destinati al suo servizio. L'inizio (19,8) e la fine (24,3.7) del grande evento della fondazione dell'alleanza sono segnati dalla ripetizione di una stessa formula di impegno da parte del popolo: « Quanto il signore ha ordinato, noi lo metteremo in pratica ».

    Questo impegno non viene mantenuto. Gli Israeliti adorano il vitello d'oro (Es 32,1-6). Il racconto di questa infedeltà e di quanto ne consegue costituisce una riflessione sulla rottura dell'alleanza e il suo ristabilimento. Il popolo incorre nella collera di Dio, che parla di sterminarlo (32,10). Ma l'intercessione ripetuta di Mosè, 127 l'intervento dei leviti contro gli idolatri (32,26-29) e la penitenza di popolo (33,4-6) ottengono da Dio che receda dal mettere in atto le sue minacce (32,14) e acconsenta di camminare di nuovo con il suo popolo (33,14-17). Dio prende l'iniziativa di ristabilire l'alleanza (34,1-10). Questi capitoli riflettono la convinzione che, fin dall'inizio, Israele è stato incline a essere infedele all'alleanza, mentre Dio, al contrario, ha sempre riallacciato le relazioni.

    L'alleanza è certamente un modo umano di concepire le relazioni di Dio con il suo popolo. Come tutte le concezioni umane di questo tipo, si tratta di un'espressione imperfetta della relazione tra il divino e l'umano. L'obiettivo dell'alleanza viene definito in modo molto semplice: « Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo » (Lv 26,12; cf Es 6,7). L'alleanza non dev'essere compresa come un semplice contratto bilaterale, perché Dio non può essere sottomesso ad obblighi allo stesso modo delle persone umane. Nondimeno, l'alleanza permetteva agli Israeliti di far appello alla fedeltà di Dio. Israele non era stato il solo a impegnarsi. Il signore si era impegnato a dare la terra come pure la sua presenza benefica in mezzo al popolo.

    L'alleanza nel Deuteronomio. Il Deuteronomio così come la redazione dei libri storici che ne dipendono (Gs – Re) distinguono il « giuramento ai padri » riguardante il dono del paese (Dt 7,12; 8,18) e l'alleanza con la generazione dell'Oreb (5,2-3). Questa alleanza è come un giuramento di fedeltà al Signore (2 Re 23,1-3). Destinata da Dio a essere permanente (Dt 7,9.12), essa esige la fedeltà del popolo. Il termine berît si riferisce spesso in modo specifico al decalogo, piuttosto che alla relazione tra il Signore e Israele di cui il decalogo fa parte. Il Signore « vi ha comunicato la sua berît, le dieci parole che vi ha ordinato di osservare ». 128

    La dichiarazione di Dt 5,3 merita un'attenzione particolare perché afferma la validità dell'alleanza per la generazione presente (cf anche 29,14). Questo versetto è come una chiave di interpretazione per tutto il libro. La distanza temporale tra le generazioni è abolita. L'alleanza del Sinai è resa attuale; essa è stata conclusa « con noi che siamo qui oggi ».

    L'impegno verso Davide. Questa berît, si situa sulla linea di quelle date a Noè e ad Abramo: promessa di Dio senza un obbligo corrispondente per il re. Davide e la sua casa godono ormai del favore di Dio, che s'impegna con giuramento per un'« alleanza eterna ». 129 La natura di questa alleanza viene definita con queste parole di Dio: « Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio ». 130

    Essendo una promessa incondizionata, l'alleanza con la casa di Davide non può essere rotta (Sal 89,29-38). Se il successore di Davide commette delle mancanze, Dio lo punirà come un padre punisce il proprio figlio, ma non ritirerà da lui il suo favore (2 Sam 7,14-15). La prospettiva è molto diversa da quella dell'alleanza del Sinai, dove il favore divino è legato a una condizione: il rispetto dell'alleanza da parte d'Israele (Es 19,5-6).

    39. Una nuova alleanza in Ger 31,31-34. Al tempo di Geremia, l'incapacità d'Israele a osservare l'alleanza del Sinai si manifesta in modo tragico, provocando la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Ma la fedeltà di Dio verso il suo popolo si manifesta allora con la promessa di una « nuova alleanza », che, dice il Signore, « non sarà come l'alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, un'alleanza che essi hanno violato » (Ger 31,32). Venendo dopo l'alleanza del Sinai, la nuova alleanza renderà possibile un nuovo inizio per il popolo di Dio. L'oracolo non annuncia un cambio di legge, ma una nuova relazione con la legge di Dio, nel senso di una interiorizzazione. Invece di essere scritta « su tavole di pietra », 131 la legge sarà scritta da Dio nei « cuori » (Ger 31,33), il che garantirà una docilità perfetta, accettata spontaneamente, invece della continua disubbidienza del passato. 132 Il risultato sarà una vera appartenenza reciproca, una relazione personale di ciascuno con il Signore, che renderà inutili le esortazioni, tanto necessarie prima e tuttavia inefficaci, come avevano sperimentato amaramente i profeti. Questa stupefacente novità avrà come base un'iniziativa estremamente generosa del Signore: il perdono accordato al popolo per tutte le sue colpe.

    L'espressione « nuova alleanza » non si incontra altrove nell'Antico Testamento, ma un oracolo del libro di Ezechiele prolunga visibilmente quello di Ger 31,31-34 annunciando alla casa d'Israele il dono di un « cuore nuovo » e di uno « spirito nuovo », che sarà lo Spirito di Dio e assicurerà la docilità alle leggi di Dio. 133

    Nel giudaismo del Secondo Tempio alcuni Israeliti vedevano la « nuova alleanza » 134 realizzata nella loro comunità grazie a una più fedele osservanza della Legge di Mosè, secondo le istruzioni di un « maestro di giustizia ». Questo dimostra che al tempo di Gesù e di Paolo l'oracolo del libro di Geremia era oggetto di attenzione. Non sorprenderà perciò vedere l'espressione « nuova alleanza » riapparire più volte nel Nuovo Testamento.



    b) Nel Nuovo Testamento

    40. Sul tema dell'alleanza di Dio con il suo popolo, gli scritti del Nuovo Testamento si situano in una prospettiva di compimento, cioè di fondamentale continuità e di decisivo progresso, che comporta necessariamente delle rotture su alcuni punti.

    La continuità riguarda anzitutto la relazione di alleanza, mentre le rotture riguardano le istituzioni dell'Antico Testamento, che, si riteneva, stabilivano e assicuravano questa relazione. Nel Nuovo Testamento l'alleanza viene stabilita su un fondamento nuovo, la persona e l'opera di Gesù Cristo; la relazione di alleanza ne risulta approfondita e ampliata, aperta a tutti grazie alla fede cristiana.

    I vangeli sinottici e gli Atti degli apostoli parlano poco di alleanza. Nei vangeli dell'infanzia, il cantico di Zaccaria (Lc 1,72) proclama il compimento dell'alleanza-promessa data da Dio ad Abramo per la sua discendenza. La promessa mirava all'allacciamento di una relazione reciproca (Lc 1,73-74) tra Dio e questa discendenza.

    Nell'ultima Cena, Gesù interviene in modo decisivo, facendo del suo sangue un « sangue di alleanza » (Mt 26,28; Mc 14,24), fondamento della « nuova alleanza » (Lc 22,20; 1 Cor 11,25). L'espressione « sangue di alleanza » ricorda l'instaurazione dell'alleanza del Sinai da parte di Mosè (Es 24,8) e suggerisce quindi un rapporto di continuità con questa alleanza, ma le parole di Gesù manifestano al tempo stesso un aspetto di radicale novità, perché, mentre l'alleanza del Sinai aveva comportato un rito di aspersione con il sangue di animali immolati, l'alleanza di Cristo è fondata sul sangue di un essere umano che trasforma la sua morte di condannato in dono generoso, facendo così di un evento di rottura un evento di alleanza.

    Dicendo « nuova alleanza », l'espressione di Paolo e di Luca rende esplicita questa novità. Ma al tempo stesso segna la continuità dell'evento con un altro testo dell'Antico Testamento, l'oracolo di Ger 31,31-34, che annunciava che Dio avrebbe stabilito una « nuova alleanza ». La frase di Gesù sulla coppa proclama che la profezia del libro di Geremia è compiuta nella sua passione. I suoi discepoli partecipano a questo compimento grazie alla loro partecipazione alla « cena del Signore » (1 Cor 11,20).

    Negli Atti degli apostoli (3,25) Pietro fa allusione all'alleanza-promessa. Egli si rivolge ai Giudei (3,12), ma il testo che cita riguarda al tempo stesso « tutte le nazioni della terra » (Gn 22,18). Viene così espressa l'apertura universale dell'alleanza.

    L'Apocalisse presenta uno sviluppo caratteristico: in occasione della visione escatologica della « Gerusalemme nuova », viene pronunciata la formula dell'alleanza, amplificata: « ed essi saranno suoi popoli ed Egli, Dio con loro, sarà il loro Dio » (21,3).

    41. Le lettere di Paolo trattano più di una volta della questione dell'alleanza. La « nuova alleanza » fondata nel sangue di Cristo (1 Cor 11,25) ha una dimensione verticale di unione al Signore con la « comunione al sangue di Cristo » (1 Cor 10,16) e una dimensione orizzontale di unione di tutti i cristiani in un « corpo solo » (1 Cor 10,17).

    Il ministero apostolico è a servizio della « nuova alleanza » (2 Cor 3,6), che non è « di lettera » ma « di Spirito », conformemente alle profezie, che promettono che Dio scriverà la sua legge « nei cuori » (Ger 31,33) e darà « uno spirito nuovo », che sarà il suo Spirito.135 Paolo attacca più di una volta l'alleanza-legge del Sinai,136 opponendo ad essa l'alleanza-promessa ricevuta da Abramo. L'alleanza-legge è posteriore e provvisoria (Gal 3,19-25). L'alleanza-promessa è originaria e definitiva (Gal 3,16-18). Essa aveva, fin dall'inizio, un'apertura universale137 e ha trovato in Cristo il suo compimento.138

    Paolo si oppone all'alleanza-legge del Sinai, da una parte perché può essere rivale della fede in Cristo (« l'essere umano non è giustificato per le opere della Legge, ma unicamente per la fede di Gesù Cristo »: Gal 2,16; Rm 3,28) e, dall'altra, in quanto sistema legislativo di un popolo particolare, che non deve essere imposto ai credenti venuti dalle « nazioni ». L'apostolo afferma nondimeno il valore di rivelazione dell'« antica diathēkē », cioè degli scritti dell'« Antico Testamento », che sono da leggere alla luce di Cristo (2 Cor 3,14-16).

    Per Paolo, la fondazione, da parte di Gesù, della « nuova alleanza nel (suo) sangue » (1 Cor 11,25) non implica una rottura dell'alleanza di Dio con il suo popolo, ma ne costituisce il compimento. Paolo annovera ancora « le alleanze » tra i privilegi degli Israeliti, anche se non credono in Cristo (Rm 9,4). Israele continua a trovarsi in una relazione di alleanza ed è sempre il popolo al quale è promesso il compimento dell'alleanza, perché la sua mancanza di fede non può abolire la fedeltà di Dio (Rm 11,29). Anche se gli Israeliti hanno considerato l'osservanza della Legge uno strumento per affermare la propria giustizia, l'alleanza-promessa di Dio, tutta di misericordia (Rm 11,26-27), non può essere annullata. La continuità viene sottolineata dall'affermazione che Cristo è lo scopo e il compimento verso i quali la Legge conduceva il popolo di Dio (Gal 3,24). Per molti Giudei il velo col quale Mosè copriva il suo volto rimane steso sull'Antico Testamento (2 Cor 3,13.15), impedendo loro di riconoscervi la rivelazione di Cristo. Ma questo fa parte del misterioso disegno di salvezza di Dio, il cui scopo finale è la salvezza di « tutto Israele » (Rm 11,26).

    Le « alleanze della promessa » sono menzionate esplicitamente in Ef 2,12, per proclamare che il loro accesso è ora aperto alle « nazioni », avendo Cristo abbattuto « il muro di separazione », cioè la Legge, che vietava questo accesso ai non-ebrei (cf Ef 2,14-15).

    La lettere paoline manifestano quindi una duplice convinzione: quella dell'insufficienza dell'alleanza legale del Sinai, da una parte, e quella della piena validità dell'alleanza-promessa, dall'altra. Quest'ultima trova il suo compimento nella giustificazione per la fede in Cristo, offerta « al Giudeo prima e poi al Greco » (Rm 1,16). Il rifiuto della fede in Cristo ha messo il popolo ebraico in una situazione drammatica di disobbedienza, ma egli resta « amato » e gli viene promessa la misericordia di Dio (cf Rm 11,26-32).

    42. La Lettera agli Ebrei cita in extenso l'oracolo della « nuova alleanza »139 e ne proclama la realizzazione da parte di Cristo, « mediatore di una nuova alleanza ».140 Essa dimostra l'insufficienza delle istituzioni cultuali della « prima alleanza »; sacerdozio e sacrifici erano incapaci di togliere l'ostacolo dei peccati e di stabilire un'autentica mediazione tra il popolo e Dio.141 Queste istituzioni sono state perciò abrogate per far posto al sacrificio e al sacerdozio di Cristo (Eb 7,18-19; 10,9). Cristo, infatti, con la sua obbedienza redentrice (Eb 5,8-9; 10,9-10), ha superato tutti gli ostacoli ed ha aperto a tutti i credenti l'accesso a Dio (Eb 4,14-16; 10,19-22). Il progetto di alleanza annunciato e prefigurato nell'Antico Testamento trova così il suo compimento. Non si tratta di un semplice rinnovamento dell'alleanza del Sinai, ma dello stabilimento di un'alleanza veramente nuova, fondata su una nuova base: l'offerta personale di Cristo (cf 9,14-15).

    L'alleanza di Dio con Davide non viene esplicitamente menzionata nel Nuovo Testamento, ma un discorso di Pietro, negli Atti, mette la risurrezione di Gesù in rapporto con il « giuramento » fatto da Dio a Davide (At 2,30), giuramento che designa l'alleanza con Davide in Sal 89,4 e 132, 11. In At 13,34, un discorso di Paolo opera un accostamento simile, utilizzando un'espressione di Is 55,3 (« la cose sante assicurate a Davide ») che, nel testo di Isaia, definisce un'« alleanza eterna ». La risurrezione di Gesù, « figlio di Davide », 142 viene così presentata come il compimento dell'alleanza-promessa data da Dio a Davide.

    La conclusione che si trae da tutti questi testi è che i primi cristiani avevano coscienza di trovarsi in profonda continuità con il disegno di alleanza manifestato e realizzato dal Dio d'Israele nell'Antico Testamento. Israele continua a trovarsi in una relazione di alleanza con Dio, perché l'alleanza-promessa è definitiva e non può essere abolita. Ma i primi cristiani avevano coscienza di vivere una nuova tappa di questo disegno, tappa che era stata annunciata dai profeti ed era stata ora inaugurata dal sangue di Gesù, « sangue di alleanza », perché versato per amore (cf Ap 1,5b-6).

  5. #15
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    6. La Legge

    43. Il termine ebraico tôrāh, tradotto con « legge », significa più esattamente « istruzione », cioè al tempo stesso insegnamento e direttiva. La tôrāh è fonte suprema di sapienza.143 La Legge occupa un posto centrale nelle Scritture del popolo ebraico e nella sua pratica religiosa, dal tempo biblico fino ai nostri giorni. Per questo, fin dai tempi apostolici, la Chiesa ha dovuto situarsi in rapporto alla Legge, sull'esempio di Gesù stesso, che ha dato ad essa un proprio significato in virtù della sua autorità di Figlio di Dio. 144



    a) La Legge nell'Antico Testamento

    La Legge e il culto d'Israele si sono sviluppati lungo tutto l'Antico Testamento. Le diverse raccolte di leggi145 possono del resto servire da importanti punti di riferimento per la cronologia del Pentateuco.

    Il dono della Legge. La Legge è innanzitutto un dono di Dio al suo popolo. Il dono della Legge diventa oggetto di un racconto principale, di origine composita,146 e di racconti complementari,147 tra i quali 2 Re 22–23 occupa un posto a parte per la sua importanza per il Deuteronomio. Es 19–24 integra la Legge nell'« alleanza » (berît) che il Signore conclude con Israele sulla montagna di Dio, nel corso di una teofania davanti a tutto Israele (Es 19–20), e poi davanti al solo Mosè148 e davanti ai settanta rappresentanti d'Israele (Es 24,9-11). Queste teofanie e l'alleanza significano una grazia speciale per il popolo presente e futuro,149 e le leggi allora rivelate ne sono la garanzia perenne.

    Ma le tradizioni narrative associano al dono della Legge anche la rottura dell'alleanza che risulta dalla violazione del monoteismo, così come prescritto nel Decalogo.150

    « Lo spirito delle leggi » secondo la Tôrāh. Le leggi contengono regole morali (etica), giuridiche (diritto), rituali e culturali (ricca raccolta di usanze religiose e profane). Si tratta di disposizioni concrete, talvolta espresse in modo assoluto (ad es. il decalogo), talvolta sotto forma di casi particolari che concretizzano principi generali. Esse hanno allora valore di precedente e di analogia per situazioni simili, che danno luogo a sviluppi ulteriori di una giurisprudenza, chiamata halakha e sviluppata nella legge orale, chiamata più tardi mishna. Molte leggi hanno un significato simbolico, nel senso che illustrano concretamente valori invisibili, come ad es. l'equità, la pace sociale, l'umanità, ecc. Queste leggi non sono servite tutte come norme da essere applicate; alcune sono testi di scuola per la formazione di futuri sacerdoti, giudici o funzionari; altre riflettono ideali ispirati dal movimento profetico. 151 Esse avevano come campo di applicazione dapprima i borghi e i villaggi del paese (Codice di alleanza), poi tutto il regno di Giuda e d'Israele e più tardi la comunità ebraica dispersa nel mondo.

    Considerate storicamente, le leggi bibliche sono il risultato di una lunga storia di tradizioni religiose, morali e giuridiche. Contengono numerosi elementi comuni alla civiltà del Vicino Oriente antico. Viste sotto l'aspetto letterario e teologico, hanno la loro fonte nel Dio d'Israele, che le ha rivelate o direttamente (il decalogo secondo Dt 5,22) o per mezzo di Mosè, incaricato di promulgarle. Infatti il decalogo è una raccolta a parte rispetto alle altre leggi. Il suo inizio152 lo qualifica come l'insieme delle condizioni necessarie per assicurare la libertà delle famiglie israelite e la loro protezione contro ogni genere di oppressione, quella dell'idolatria come quella dell'immoralità e dell'ingiustizia. Lo sfruttamento che Israele aveva subito in Egitto non doveva mai riprodursi in Israele, con l'oppressione dei deboli da parte dei potenti.

    Invece, le disposizioni del Codice dell'alleanza di Es 34,14-26 incarnano un insieme di valori umani e religiosi, delineando così un ideale comunitario dal valore eterno.

    La Legge è israelitica e giudaica; è quindi particolare, adattata a un popolo storico particolare. Ma ha un valore esemplare per tutta l'umanità (Dt 4,6). Per questa ragione è un bene escatologico promesso a tutte le nazioni, poiché servirà da strumento di pace (Is 2,1-4; Mic 4,1-3). Essa incarna un'antropologia religiosa e un insieme di valori che trascendono il popolo e le condizioni storiche di cui le leggi bibliche sono in parte il prodotto.

    Una spiritualità della Tôrāh. Manifestazioni della sapiente volontà di Dio, i comandamenti acquistarono sempre più importanza nella vita sociale e individuale d'Israele. La Legge divenne onnipresente, soprattutto a partire dall'esilio (VI secolo). Si formò così una spiritualità segnata da una profonda venerazione della Tôrāh. La sua osservanza fu compresa come l'espressione necessaria del « timore del Signore » e la forma perfetta del servizio di Dio. All'interno della stessa Scrittura, i salmi, il Siracide e Baruc ne sono i testimoni. I salmi 1; 19 e 119, salmi della Tôrāh, giocano un ruolo strutturale nell'organizzazione del salterio. La Tôrāh rivelata agli uomini è al tempo stesso il pensiero organizzatore del cosmo creato. Obbedendo a questa legge, gli ebrei credenti vi trovano le loro delizie e la loro benedizione, e partecipano all'universale sapienza creatrice di Dio. Questa sapienza rivelata al popolo ebraico è superiore alla sapienza delle altre nazioni (Dt 4,6.8), in particolare a quella dei Greci (Bar 4,1-4).



    b) La legge nel Nuovo Testamento

    44. Matteo, Paolo, la lettera agli Ebrei e quella di Giacomo dedicano una riflessione teologica esplicita al significato della Legge dopo la venuta di Gesù Cristo.

    Il vangelo di Matteo riflette la situazione della comunità ecclesiale matteana dopo la caduta di Gerusalemme (70 d.C.). Gesù afferma la validità permanente della Legge (Mt 5,18-19), ma in una nuova interpretazione, data con piena autorità (Mt 5,21-28). Gesù « dà compimento » alla Legge (Mt 5,17), radicalizzandola: talvolta abroga la lettera della Legge (divorzio, legge del taglione), talvolta ne dà un'interpretazione più esigente (omicidio, adulterio, giuramento) o più flessibile (sabato). Gesù insiste sul duplice comandamento dell'amore di Dio (Dt 6,5) e del prossimo (Lv 19,18), da cui « dipendono tutta la Legge e i profeti » (Mt 22,34-40). Accanto alla Legge, Gesù, novello Mosè, fa conoscere la volontà di Dio agli uomini, prima agli ebrei e poi alle nazioni (Mt 28,19-20).

    La teologia paolina della legge è ricca, ma non perfettamente unificata. Ciò è dovuto alla natura degli scritti e a un pensiero ancora in piena elaborazione su un terreno teologico non ancora dissodato. La riflessione di Paolo sulla Legge è stata provocata dalla sua personale esperienza spirituale e dal suo ministero apostolico. Dalla sua esperienza spirituale: nel suo incontro con Cristo (1 Cor 15,8), Paolo si rese conto che il suo zelo per la Legge l'aveva fuorviato al punto da portarlo a « perseguitare la Chiesa di Dio » (15,9; Fil 3,6) e che aderendo a Cristo egli rinnegava quindi questo zelo (Fil 3,7-9). Dal suo ministero apostolico: poiché questo ministero riguardava i non-ebrei (Gal 2,7; Rm 1,5), si presentava subito un interrogativo: la fede cristiana esige che si imponga ai non-ebrei la sottomissione alla legge particolare del popolo ebraico e, segnatamente, alle osservanze legali che sono dei segni dell'identità ebraica (circoncisione, regole alimentari, calendario)? Una risposta affermativa a questa domanda sarebbe stata, evidentemente, rovinosa per l'apostolato di Paolo. Posto di fronte a questo problema, l'apostolo non si limita a considerazioni pastorali, ma si dedica a un approfondimento dottrinale.

    Paolo si convince fortemente che la venuta di Cristo (Messia) obbliga a ridefinire il ruolo della Legge. Cristo infatti è il « termine della Legge » (Rm 10,4), al tempo stesso lo scopo verso il quale tendeva e il punto di arrivo dove ha fine il suo regime, perché d'ora in poi non è più la Legge a dare vita — d'altra parte effettivamente essa non lo poteva 153 — ma è la fede in Cristo che giustifica e fa vivere. 154 Cristo risorto dai morti comunica ai credenti la sua vita nuova (Rm 6,9-11) e assicura loro la salvezza (Rm 10,9-10).

    Quale sarà d'ora in poi la funzione della Legge? A questa domanda Paolo cerca una risposta. Vede il significato positivo della Legge: è un privilegio d'Israele (Rm 9,4), « la Legge di Dio » (Rm 7,22); si riassume nel precetto dell'amore del prossimo; 155 è « santa » e « spirituale » (Rm 7,12.14). Secondo Fil 3,6 la legge definisce una certa « giustizia ». Inversamente, la Legge apre automaticamente la possibilità della scelta contraria: « ...non ho conosciuto il peccato se non per la Legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare » (Rm 7,7). Paolo evoca spesso questa opzione implicata inevitabilmente nel dono della Legge, dicendo ad esempio che la condizione umana concreta (« la carne ») o « il peccato » impediscono alla persona umana di aderire alla Legge (Rm 7,23-25) o che « la lettera » della Legge, privata dello Spirito capace di realizzare la Legge, finisce per apportare la morte (2 Cor 3,6-7).

    Opponendo « la lettera » e « lo Spirito », l'Apostolo ha operato una dicotomia, come aveva fatto con Adamo e Cristo: da una parte, egli mette quello che Adamo (cioè l'essere umano senza la grazia) è capace di fare, dall'altra ciò che Cristo (cioè la grazia) realizza. In realtà, nell'esistenza concreta dei pii ebrei, la Legge era inserita in un piano di Dio in cui le promesse e la fede avevano il loro posto, ma Paolo ha voluto parlare di ciò che la Legge può dare per se stessa, come « lettera », facendo cioè astrazione dalla provvidenza che accompagna sempre l'uomo, a meno che egli non voglia fabbricarsi una propria giustizia. 156

    Se, secondo 1 Cor 15,56, « il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge », ne consegue che la Legge, per la sua condizione di lettera, uccide, anche se indirettamente. Di conseguenza, il ministero di Mosè potrà essere chiamato ministero di morte (2 Cor 3,7) e di condanna (3,9). Tuttavia questo ministero è stato circondato da una tale gloria (splendore proveniente da Dio) che gli Israeliti non potevano nemmeno guardare il volto di Mosè (3,7). Questa gloria perde il suo valore per il fatto che esiste una gloria superiore (3,10), quella del « ministero dello Spirito » (3,8).

    45. La lettera ai Galati afferma che « quelli che si richiamano alle opere della Legge, stanno sotto una maledizione », perché la Legge maledice « chiunque non persevera nel compimento di tutto quello che è scritto nel (suo) libro ». 157 La Legge è qui opposta al cammino di fede, proposto del resto ugualmente dalla Scrittura; 158 essa indica il cammino delle opere, che ci lascia con le nostre sole forze (3,12). Non è che l'Apostolo sia contro ogni « opera ». È soltanto contro la pretesa umana di giustificarsi da sé grazie alle « opere della Legge ». Ma non è contro le opere della fede — che, del resto, coincidono spesso con il contenuto della Legge —, opere rese possibili grazie all'unione vitale con Cristo. Egli dichiara, al contrario, che « ciò che conta » è « la fede che opera per amore ». 159

    Paolo è consapevole che la venuta di Cristo ha portato un cambio di regime. I cristiani non vivono più sotto il regime della Legge, ma sotto quello della fede in Cristo (Gal 3,24-26; 4,3-7), che è il regime della grazia (Rm 6,14-15).

    Quanto ai contenuti centrali della legge (il Decalogo e tutto ciò che è nello spirito del Decalogo), Gal 5,18-23 afferma prima: « Se siete guidati dallo Spirito, non siete più sotto la legge » (5,18). Senza aver bisogno della Legge, vi asterrete spontaneamente dalle « opere della carne » (5,19-21) e produrrete « il frutto dello Spirito » (5,22). Paolo aggiunge poi che la Legge non è contro queste cose (5,23), perché i credenti compiranno tutto ciò che la Legge richiede, e anche di più, ed eviteranno tutto ciò che la Legge proibisce. Secondo Rm 8,1-4, « la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù » ha rimediato all'impotenza della Legge di Mosè e ha fatto in modo che « la giusta prescrizione della Legge si adempisse » nei credenti. Uno degli scopi della redenzione era proprio di ottenere questo compimento della Legge!

    Nella Lettera agli Ebrei la Legge appare come un'istituzione che è stata valida nel suo tempo e al suo livello. 160 Ma la vera mediazione tra il popolo peccatore e Dio non è alla sua portata (7,19; 10,1). Solo la mediazione di Cristo è efficace (9,11-14). Cristo è un sommo sacerdote di un genere diverso (7,11.15). I legami della Legge con il sacerdozio fanno sì che « il mutamento di sacerdozio comporti un mutamento di Legge » (7,12). Affermando ciò, l'autore si collega all'insegnamento di Paolo, secondo il quale i cristiani non sono più sotto il regime della Legge, ma sotto quello della fede in Cristo e della grazia. Per il rapporto con Dio, l'autore non insiste sull'osservanza della Legge, bensì sulla « fede », « la speranza » e « l'amore » (10,22.23.24).

    Per Giacomo, come per la prima comunità cristiana, i comandamenti morali continuano a servire da guida (2,11), ma interpretati dal Signore. La « legge regale » (2,8), quella del « Regno » (2,5), è il precetto dell'amore del prossimo. 161 È « la legge perfetta della libertà » (1,25; 2,12-13) che bisogna mettere in pratica grazie a una fede operosa (2,14-16).

    Quest'ultimo esempio mostra al tempo stesso la varietà delle posizioni espresse nel Nuovo Testamento in rapporto alla Legge e il loro fondamentale accordo. Giacomo non annuncia, come Paolo e la lettera agli Ebrei, la fine del regime della Legge, ma concorda con Matteo, Marco, Luca e Paolo, nel sottolineare il primato, non del Decalogo, ma del precetto dell'amore del prossimo (Lv 19,18), che porta a osservare perfettamente il Decalogo e a fare anche meglio. Il Nuovo Testamento si basa perciò sull'Antico. Lo legge alla luce di Cristo, che ha confermato il precetto dell'amore e gli ha dato una nuova dimensione: « Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi » (Gv 13,34; 15,12), cioè fino al sacrificio della vita. La Legge è così più che compiuta.

  6. #16
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    7. La preghiera e il culto, Gerusalemme e il Tempio

    a) Nell'Antico Testamento

    46. Nell'Antico Testamento la preghiera e il culto occupano un posto importante perché queste attività sono i momenti privilegiati della relazione personale e collettiva degli Israeliti con Dio, che li ha scelti e li ha chiamati a vivere nella sua alleanza.

    Preghiera e culto nel Pentateuco. I racconti mostrano delle tipiche situazioni di preghiera, soprattutto in Gn 12–50. Vi si trovano preghiere di angoscia (32,10-13), di richiesta di un favore (24,12-14), di azione di grazie (24,48), così come voti (28,20-22) e consultazioni del Signore sul futuro (25,22-23). Nell'Esodo, Mosè intercede 162 e la sua intercessione salva il popolo dallo sterminio (32,10.14).

    Il Pentateuco, principale fonte per la conoscenza delle istituzioni, raccoglie eziologie, che spiegano l'origine di luoghi, di tempi e di istituzioni sacri. Luoghi sacri come Sichem, Betel, Mambre, Bersabea. 163 Tempi sacri come il sabato, l'anno sabbatico, l'anno giubilare; vengono fissati dei giorni di festa, nonché il Giorno delle espiazioni. 164

    Il culto è un dono del Signore. Molti testi dell'Antico Testamento insistono su questa prospettiva. Pura grazia è la rivelazione del nome di Dio (Es 3,14-15). È il Signore che offre la possibilità di celebrare sacrifici, perché è lui che dona a questo scopo il sangue degli animali (Lv 17,11). Prima di essere un'offerta del popolo a Dio, le primizie e le decime sono un dono di Dio al popolo (Dt 26,9-10). È Dio che istituisce sacerdoti e leviti e disegna gli utensili sacri (Es 25–30).

    Le raccolte di leggi (cf sopra II.B.6, n. 43) contengono una massa di disposizioni liturgiche e diverse indicazioni sulla finalità dell'ordine cultuale. Le distinzioni fondamentali tra puro e impuro da una parte, sacro e profano dall'altra, organizzano lo spazio e il tempo e, di conseguenza, tutta la vita sociale e individuale, fin nella realtà quotidiana. L'impuro situa al di fuori dello spazio socio-culturale le persone o le cose contaminate, mentre il puro vi viene integrato a pieno diritto. L'attività cultuale comporta molteplici purificazioni destinate a reintegrare l'impuro nelle comunità. 165 All'interno del cerchio della purità un altro confine separa il profano (che lì è puro) dal santo (che, oltre a essere puro, è riservato a Dio). Il santo (o il sacro) è il campo che appartiene a Dio. La liturgia della fonte « sacerdotale » (P) distinguerà inoltre il semplice « santo » e il « Santissimo ». Lo spazio del santo è accessibile ai sacerdoti e ai leviti, non agli altri membri del popolo (« laici »). Lo spazio sacro è ad ogni modo uno spazio riservato. 166

    Il tempo sacro è sottratto all'uso profano (divieto di lavorare, il giorno di sabato, e di arare e raccogliere durante l'anno sabbatico). Esso coincide con il ritorno del mondo creato al suo stato anteriore alla consegna del mondo all'uomo. 167

    Lo spazio, le persone e le cose sacre devono essere santificate (consacrate). La consacrazione allontana ciò che è incompatibile con Dio, l'impuro e il peccato, opposti al Signore. Il culto comporta molteplici celebrazioni del perdono (espiazioni) che ripristinano la santità. 168 La santità implica la vicinanza a Dio. 169 Il popolo è consacrato e deve essere santo (Lv 11,44-45). Lo scopo del culto è la santità del popolo — grazie alle espiazioni, purificazioni e consacrazioni — e il servizio di Dio.

    Il culto è un vasto simbolo di grazia, espressione della « condiscendenza » (nel senso patristico di adattamento benevolo) di Dio verso gli uomini, poiché egli l'ha stabilito per perdonare, purificare, santificare e preparare il contatto immediato con la sua presenza (kābôd, gloria).

    47. Preghiera e culto nei profeti. Il libro di Geremia contribuisce molto a valorizzare la preghiera. Esso contiene delle « confessioni », dialoghi con Dio, nei quali il profeta, sia a titolo personale che come rappresentante del popolo, esprime una forte crisi interiore in rapporto all'elezione e alla realizzazione del disegno di Dio. 170 Molti libri profetici integrano salmi e cantici, 171 come anche frammenti di dossologie. 172

    D'altra parte, nei profeti preesilici un tratto saliente è la ripetuta condanna dei sacrifici del ciclo liturgico 173 e perfino della preghiera. 174 Il rifiuto sembra radicale, ma queste invettive non possono essere interpretate come un'abrogazione del culto, una negazione della sua origine divina. Il loro scopo è denunciare la contraddizione tra la condotta di coloro che celebrano e la santità di Dio che pretendono di celebrare.

    Preghiera e culto negli altri Scritti. Tre libri poetici assumono un'importanza capitale in rapporto alla spiritualità della preghiera. In primo luogo Giobbe: con pari sincerità e arte, il protagonista esprime a Dio, senza mezzi termini, tutti i suoi stati d'animo.175 Poi, le Lamentazioni, dove la preghiera si mescola al lamento. 176 Ed, evidentemente, i Salmi, che costituiscono il cuore stesso dell'Antico Testamento. Si ha infatti l'impressione che la Bibbia ebraica abbia conservato così poche indicazioni sviluppate sulla preghiera per meglio condensare tutto il suo fascio di luce su una raccolta particolare. Il salterio è una chiave di lettura insostituibile, non solo per l'insieme della vita del popolo d'Israele, ma per tutto il corpus della Bibbia ebraica. Altrove, negli Scritti, si trovano solo alcune vaghe affermazioni di principio 177 e alcuni esempi di inni o di preghiere più o meno elaborati. 178

    È possibile tentare una classificazione della preghiera dei salmi intorno a quattro assi fondamentali, che conservano un valore universale al di là dei tempi e delle culture.

    La maggior parte dei salmi si ricollegano all'asse della liberazione. La sequenza drammatica appare stereotipata, sia che si radichi in una situazione personale che in una collettiva. L'esperienza del bisogno di salvezza riflesso nella preghiera biblica abbraccia un ampio ventaglio di situazioni. Altre preghiere si ricollegano all'asse dell'ammirazione. Sostengono lo stupore, la contemplazione, la lode. L'asse dell'istruzione raggruppa tre tipi di preghiere meditative: sintesi sulla storia sacra, indicazioni sulle scelte morali personali o collettive (includendo talvolta parole profetiche e oracoli), enunciati delle condizioni richieste per accedere al culto. Infine, alcune preghiere ruotano attorno all'asse delle feste popolari. Si contano soprattutto quattro grandi motivi: raccolti, matrimoni, pellegrinaggi, eventi politici.

    48. I luoghi privilegiati per la preghiera sono gli spazi sacri, i santuari, in particolare quello di Gerusalemme. Ma si ha sempre la possibilità di pregare in privato, nella propria casa. I tempi sacri, fissati dal calendario, segnano la preghiera, anche individuale, così come le ore rituali delle offerte, soprattutto al mattino e alla sera. Negli oranti si osservano varie posizioni: in piedi, con le mani alzate, in ginocchio, completamente prostrati, seduti o coricati.

    Se si sa distinguere tra gli elementi stabili e gli elementi più caduchi del pensiero e della lingua, il tesoro delle preghiere d'Israele può servire a esprimere con molta profondità la preghiera degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Questo indica il valore permanente di questi testi. Alcuni salmi, tuttavia, esprimono uno stadio di preghiera che sarà progressivamente superato, lo stadio, in particolare, delle maledizioni e delle imprecazioni lanciate contro i nemici.

    Il popolo cristiano, pur prendendo tali e quali le preghiere dell'Antico Testamento, le rilegge alla luce del mistero pasquale, conferendo loro, per ciò stesso, un supplemento di significato.

    Il Tempio di Gerusalemme. Costruito da Salomone (verso il 950 a.C.), la costruzione di pietra che dominava la collina di Sion ha giocato un ruolo centrale nella religione israelitica. Col favore della riforma religiosa di Giosia (640-609), 179 la legge deuteronomica esige per tutto il popolo un santuario unico nel paese (Dt 12,2-7). Quello di Gerusalemme viene designato come « il luogo scelto dal signore Dio per farvi abitare il suo nome » (12,11.21; ecc.). Molti racconti eziologici spiegano questa scelta. 180 Da parte sua, la teologia sacerdotale (P) designa questa presenza con la parola « gloria » (kābôd), evocando la manifestazione di Dio, al tempo stesso affascinante e temibile, in particolare nel Santo dei Santi, sopra l'arca della testimonianza coperta dal propiziatorio: 181 il contatto più immediato con Dio si basa sul perdono e la grazia. È per questo che la distruzione del Tempio (587) equivale alla desolazione estrema 182 e assume l'ampiezza di una catastrofe nazionale. La premura per ricostruirlo al termine dell'esilio (Ag 1–2) e celebrarvi un culto degno (Ml 1–3) diventa il criterio del timore di Dio. Dal Tempio si irradiano le benedizioni fino alle estremità della terra (Sal 65). Da qui l'importanza dei pellegrinaggi, come segno di unità (Sal 122). Nell'opera del Cronista il tempio è chiaramente il centro di tutta la vita religiosa e nazionale.

    Il tempio è al tempo stesso uno spazio funzionale e simbolico. Serve da luogo di culto, soprattutto sacrificale, di preghiera, di insegnamento, di guarigione, di intronizzazione regale. Ma, come in tutte le religioni, l'edificio materiale, in basso, evoca il mistero dell'habitat divino, in cielo, in alto (1 Re 8,30). Per la presenza tutta speciale del Dio di vita il santuario diventa luogo di origine per eccellenza della vita (nascita collettiva, rinascita dopo il peccato) e della conoscenza (parola di Dio, rivelazione, sapienza). Gioca il ruolo di asse e centro del mondo. Si osserva, tuttavia, una relativizzazione critica del simbolismo del luogo santo. Mai questo arriverà a garantire e a « contenere » la presenza divina. 183 Parallelamente alla critica del culto ipocrita e formalistico, i profeti smascherano la vanità della fiducia incondizionata posta nel luogo santo (Ger 7,1-15). Una visione simbolica presenta « la gloria del Signore » che abbandona lo spazio sacro in modo solenne. 184 Ma questa gloria ritornerà nel Tempio (Ez 43,1-9), un Tempio restaurato, ideale (40–42), fonte di fecondità, di guarigione, di salvezza (47,1-12). Prima di questo ritorno, Dio promette agli esiliati di essere egli stesso per loro « un santuario » (11,16).

    Gerusalemme. In una prospettiva teologica, la storia della città inizia con una scelta divina (1 Re 8,16). Davide conquista Gerusalemme, antica città cananea (2 Sam 5,6-12) e vi trasporta l'arca dell'alleanza (2 Sam 6–7); Salomone vi costruisce il santuario (1 Re 6). La città viene così integrata tra i luoghi santi più antichi di Giuda e d'Israele dove si viene in pellegrinaggio. Nella guerra di Sennacherib contro Ezechia nel 701 (2 Re 18,13), Gerusalemme viene risparmiata, quasi unica tra le città di Giuda, mentre il regno d'Israele era stato definitivamente conquistato nel 722 dagli Assiri. La liberazione di Gerusalemme era stata annunciata profeticamente come grazia divina (2 Re 19,20-34).

    Ci si abitua a designare Gerusalemme come « la città scelta » dal Signore, 185 « fondata » da lui (Is 14,32), « città di Dio » (Sal 87,3), « città santa » (Is 48,2), perché il Signore è « in mezzo ad essa » (Sof 3,17). È destinata a un avvenire glorioso: presenza divina assicurata « per sempre » e « di generazione in generazione » (Gl 4,16-21), protezione garantita (Is 31,4-5), e quindi felicità e prosperità. Alcuni testi idealizzano perfino la città delle città. Al di là della realtà geografica, essa diventa polo di attrazione e asse del mondo. 186

    Ma la grandezza di Gerusalemme non fermerà la sciagura che sta per abbattersi sulla città. Molti oracoli (2 Re 23,27), azioni simboliche (Ez 4–5) e visioni (8–11) annunciano il rifiuto e la distruzione della città scelta da Dio.

    Più tardi, Gerusalemme restaurata diventa uno dei grandi simboli della salvezza escatologica: città illuminata dal Signore, 187 dotata di un « nome nuovo » e diventata nuovamente « Sposa » di Dio, 188 paradiso ritrovato, col favore dell'avvento di « cieli nuovi » e di « una terra nuova », 189 diventa uno spazio essenzialmente cultuale (Ez 40–48), il centro di un mondo ricreato (Zc 14,16-17). « Tutte le nazioni » verranno a cercarvi il giudizio del Signore e l'insegnamento divino che metterà fine alle guerre. 190



    b) Nel Nuovo Testamento, preghiera e culto, il Tempio e Gerusalemme

    49. Preghiera e culto. A differenza dell'Antico Testamento, il Nuovo non contiene una legislazione dettagliata che stabilisca delle istituzioni cultuali e rituali — prescrive brevemente solo di battezzare e di celebrare l'eucaristia 191 — ma insiste fortemente sulla preghiera.

    I vangeli mostrano spesso Gesù in preghiera. Il suo amore filiale per Dio, suo Padre, lo spingeva a dedicare molto tempo a questa attività. Per pregare si alzava molto presto, anche dopo una notte iniziata molto tardi a causa dell'afflusso di persone con i loro malati (Mc 1,32.35). Passava talvolta tutta la notte in preghiera (Lc 6,12). Per pregare meglio, si ritirava « in luoghi deserti » (Lc 5,16) o saliva « sulla montagna » (Mt 14,23). In Luca i momenti più decisivi del ministero di Gesù sono preparati o accompagnati da una preghiera più intensa: il suo battesimo (Lc 3,21), la scelta dei Dodici (6,12), la domanda posta ai Dodici sulla sua identità (9,18), la trasfigurazione (9,28), la passione (22,41-45).

    Solo raramente i vangeli riferiscono il contenuto della preghiera di Gesù. Quel poco che dicono dimostra che la sua preghiera esprimeva la sua intimità con il Padre, al quale diceva « Abba » (Mc 14,36), nome familiare che nel giudaismo contemporaneo non si trova usato per invocare Dio. La preghiera di Gesù era spesso di ringraziamento, secondo la forma ebraica della ber~k~h. 192 Al momento dell'ultima cena, canta molto naturalmente i salmi prescritti dal rituale della grande festa. 193 Secondo i quattro vangeli, egli cita undici salmi distinti.

    Il Figlio riconosceva con gratitudine che tutto gli veniva dall'amore del Padre (Gv 3,35). Alla fine del discorso dopo la Cena, Giovanni mette sulle labbra di Gesù una lunga preghiera di domanda, per se stesso e per i suoi discepoli, presenti e futuri, che rivela il significato che egli dava alla sua passione (Gv 17). Quanto ai sinottici, ci riferiscono la preghiera supplice di Gesù quando è colto dalla tristezza mortale al Getsemani (Mt 26,36-44 e par.), preghiera accompagnata da un'adesione molto generosa alla volontà del Padre (26,39.42). Sulla croce Gesù fa proprio il grido di angoscia di Sal 22, 2, 194 o, secondo Luca, la preghiera di abbandono di Sal 31,6 (Lc 23,46).

    Accanto alla preghiera di Gesù, i vangeli riportano molte domande e suppliche fatte a Gesù, alle quali egli rispondeva intervenendo generosamente e sottolineando l'efficacia della fede. 195 Gesù dava istruzioni sulla preghiera 196 e incoraggiava, con parabole, a perseverare nella preghiera. 197 Insisteva sulla necessità della preghiera, nei momenti di prova, « per non entrare in tentazione » (Mt 26,41 e par.).

    L'esempio di Gesù suscitava nei discepoli il desiderio di imitarlo: « Signore, insegnaci a pregare » (Lc 11,1). A questo desiderio egli risponde insegnando il Padre nostro. Le formule del Padre nostro 198 sono affini a quelle della preghiera ebraica (Diciotto benedizioni), ma con una sobrietà senza paralleli. In poche parole, infatti, il Padre nostro presenta un programma completo di preghiera filiale: adorazione (1a domanda), desiderio della salvezza escatologica (2a domanda), adesione alla volontà di Dio (3a domanda), supplica per i bisogni esistenziali nell'abbandono fiducioso, giorno dopo giorno, alla provvidenza di Dio (4a domanda), domanda di perdono, condizionata dalla generosità a perdonare (5a domanda), preghiera di essere liberati dalle tentazioni e dall'influenza del Maligno (6a, 7a domande).

    Paolo, da parte sua, dà l'esempio della preghiera di ringraziamento, esprimendola regolarmente, in una forma o nell'altra, all'inizio delle sue lettere. Invita i cristiani a « rendere grazie in ogni circostanza » e a « pregare incessantemente » (1 Ts 5,17).

    50. Gli Atti mostrano spesso i cristiani in preghiera, sia individualmente (At 9,40; 10,9; ecc.) che in comunità (4,24-30; 12,12; ecc.), al Tempio (2,46; 3,1), o nelle case (2,46) o perfino in prigione (16,25). Talvolta la preghiera si accompagna al digiuno (13,3; 14,23). Nel Nuovo Testamento le formule di preghiera sono soprattutto inniche: il Magnificat (Lc 1,46-55), il Benedictus (1,68-79), il Nunc dimittis (2,29-32) e numerosi passi dell'Apocalisse. Esse sono plasmate di linguaggio biblico. Nel corpus paolino gli inni diventano cristologici, 199 riflettendo la liturgia delle chiese. Come la preghiera di Gesù, la preghiera cristiana utilizza la forma ebraica della ber~k~h(« Benedetto sia Dio... »). 200 In ambiente greco, essa è fortemente carismatica (1 Cor 14,2.16-18). La preghiera è opera dello Spirito di Dio. 201 Alcune realizzazioni sono possibili solo grazie alla preghiera (Mc 9,29).

    Il Nuovo Testamento rivela alcuni tratti della preghiera liturgica della Chiesa primitiva. La « cena del Signore » (1 Cor 11,20) occupa nelle tradizioni un posto eminente. 202 La sua forma è segnata dalla liturgia del pasto festivo ebraico: ber~k~hsul pane all'inizio, sul vino alla fine. Fin dalla tradizione soggiacente a 1 Cor 11,23-25 e ai racconti dei sinottici, le due benedizioni furono accostate, così che il pasto è collocato non tra di esse, ma prima o dopo. Questo rito è il memoriale della passione di Cristo (1 Cor 11,24-25); crea comunione (koinonia: 1 Cor 10,16) tra il Signore risorto e i suoi discepoli. Il battesimo, confessione di fede, 203 dà il perdono dei peccati, unisce al mistero pasquale di Cristo (Rm 6,3-5) e fa entrare nella comunità dei credenti (1 Cor 12,13).

    Il calendario liturgico rimase quello ebraico (eccetto per le comunità paoline di cristiani provenienti dal paganesimo: Gal 4,10; Col 2,16), ma il sabato cominciò a essere sostituito dal primo giorno della settimana (At 20,7; 1 Cor 16,2) chiamato « giorno del signore » o « domenicale » (Ap 1,10), cioè giorno del Signore risorto. I cristiani continuarono, all'inizio, a frequentare l'ufficio del Tempio (At 3,1), che servì da punto di partenza della liturgia cristiana delle ore.

    Al culto sacrificale antico, la lettera agli Ebrei riconosce una certa validità rituale (Eb 9,13) e un valore di prefigurazione dell'offerta di Cristo (9,18-23), ma, facendo propria la critica espressa dai profeti e dai salmi, 204 essa nega alle immolazioni di animali qualsiasi efficacia per la purificazione delle coscienze e per il ristabilimento di una profonda relazione con Dio. 205 Il solo sacrificio pienamente efficace è l'offerta personale ed esistenziale di Cristo, che ha fatto di lui il perfetto sommo sacerdote, « mediatore di una nuova alleanza ». 206 Grazie a questa offerta, i cristiani possono avvicinarsi a Dio (Eb 10,19-22) nell'azione di grazie e conducendo una vita generosa (13,15-16). L'apostolo Paolo si esprimeva già in questo senso (Rm 12,1-2).

    51. Il Tempio di Gerusalemme. Durante la vita di Gesù e di Paolo il Tempio esisteva nella sua realtà materiale e liturgica. Come ogni ebreo, Gesù vi si reca in pellegrinaggio; vi insegna. 207 In esso compie l'azione profetica dell'espulsione dei venditori (Mt 21,12-13 e par.).

    L'edificio conserva il suo status simbolico di dimora divina, privilegiata, che rappresenta sulla terra la dimora di Dio nel cielo. In Mt 21,13 Gesù cita un oracolo in cui Dio stesso lo chiama « mia casa » (Is 56,7); in Gv 2,16 Gesù lo chiama « la casa del Padre mio ». Ma più di un testo relativizza questo simbolismo e apre la strada a un superamento. 208 Come aveva fatto Geremia, Gesù predice la rovina del Tempio (Mt 24,2 e par.) e annuncia, d'altra parte, la sua sostituzione con un nuovo santuario, costruito in tre giorni. 209 Dopo la sua risurrezione, i suoi discepoli compresero che il nuovo Tempio era il suo corpo risuscitato (Gv 2,22). Paolo dichiara ai credenti che essi sono membra di questo corpo (1 Cor 12,27) e « santuario di Dio » (3,16-17) o « dello Spirito » (6,19). La prima lettera di Pietro dice loro che, uniti a Cristo, « pietra viva », essi formano tutti insieme un « edificio spirituale » (1 Pt 2,4-5).

    L'Apocalisse parla costantemente di santuario. 210 Fatta eccezione di Ap 11,1-2, per il resto si tratta sempre del « santuario celeste di Dio » (11,19), da dove partono gli interventi di Dio sulla terra. Ma nella visione finale, si dice della « città santa, della Gerusalemme che scende dal cielo » (21,10), che non si vede in essa un santuario, « perché il suo santuario è il Signore, il Dio onnipotente, e l'Agnello » (21,22). Questo è il compimento ultimo del tema del Tempio.

    Gerusalemme. Il Nuovo Testamento riconosce pienamente l'importanza di Gerusalemme nel disegno di Dio. Gesù vieta di giurare per Gerusalemme, « perché è la città del Grande Re » (Mt 5,35). Si dirige risolutamente verso di essa: è lì che deve portare a compimento la sua missione. 211 Ma constata che la città « non ha riconosciuto il momento della sua visita » e prevede in lacrime che questo accecamento porterà alla sua rovina, 212 com'era già avvenuto al tempo di Geremia.

    Nel frattempo, Gerusalemme continua a giocare un ruolo importante. Nella teologia di Luca essa è al centro della storia della salvezza; lì è morto e risorto Cristo. Tutto converge verso questo centro: lì inizia il vangelo (Lc 1,5-25) e lì termina (24,52-53). Tutto poi emana da essa: è da lì che, dopo la venuta dello Spirito Santo, la Buona Novella della salvezza si diffonde ai quattro angoli dell'universo abitato (At 8–28). Quanto a Paolo, sebbene il suo apostolato non sia partito da Gerusalemme (Gal 1,17), egli ritiene indispensabile la comunione con la Chiesa di Gerusalemme (2,1-2). D'altro canto dichiara che la madre dei cristiani è la « Gerusalemme di lassù » (4,26). La città diventa il simbolo del compimento escatologico, sia nella sua dimensione futura (Ap 21,2-3.9-11) che in quella presente (Eb 12,22).

    Così, col favore di un approfondimento simbolico già iniziato nell'Antico Testamento, la Chiesa riconoscerà sempre i legami che la uniscono molto intimamente alla storia di Gerusalemme e del suo Tempio, così come alla preghiera e al culto del popolo ebraico.

  7. #17
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    8. Rimproveri divini e condanne

    a) Nell'Antico Testamento

    52. L'elezione d'Israele e l'alleanza hanno come conseguenza — lo abbiamo visto — delle esigenze di fedeltà e di santità. In che modo il popolo eletto si è comportato rispetto a queste esigenze? A questa domanda l'Antico Testamento dà molto spesso una risposta che esprime la delusione del Dio d'Israele, una risposta carica di rimproveri e perfino di condanne.

    Gli scritti narrativi riportano una lunga serie di infedeltà e di resistenze alla voce di Dio, serie che inizia fin dall'uscita dall'Egitto. In occasioni di crisi esistenziali, che avrebbero dovuto essere delle occasioni di dare prova della fiducia in Dio, gli Israeliti « mormorano », 213 assumendo un atteggiamento di contestazione del disegno di Dio e di opposizione a Mosè, al punto da volerlo « lapidare » (Es 17,4). Appena conclusa l'alleanza del Sinai (Es 24), il popolo si lascia andare all'infedeltà più grave, quella del culto di un idolo (Es 32,4-6). 214 Davanti a questa infedeltà, il Signore constata: « Ho visto che questo è un popolo dalla dura cervice » (Es 32,9). Questa qualifica peggiorativa viene poi ripetuta spesso, 215 diventando una specie di epiteto naturale per caratterizzare Israele. Un altro episodio non è meno significativo: arrivato alla frontiera di Canaan e invitato a entrare nel paese che il Signore gli dona, il popolo oppone un rifiuto, giudicando l'impresa troppo pericolosa. 216 Il Signore rimprovera allora al popolo la sua mancanza di fede (Nm 14,11), lo condanna a errare quarant'anni nel deserto, dove tutti gli adulti dovranno morire (14,29.34), ad eccezione di alcuni che seguono il Signore incondizionatamente.

    Molte volte l'Antico Testamento ricorda che l'indocilità degli Israeliti è iniziata « fin dal giorno in cui i loro padri sono usciti dall'Egitto » aggiungendo che essa continua « fino ad oggi ». 217

    La storia deuteronomistica, che comprende i libri di Giosuè, dei Giudici, 1-2 Samuele e 1-2 Re, esprime un giudizio globalmente negativo sulla storia d'Israele e di Giuda tra l'epoca di Giosuè e l'esilio di Babilonia. Il popolo e i suoi re, con poche eccezioni, hanno ampiamente ceduto alla tentazione degli dei stranieri sul piano religioso e all'ingiustizia sociale e ad ogni sorta di disordini contrari al Decalogo. Questa è la ragione per cui alla fine questa storia si conclude con un bilancio negativo la cui conseguenza visibile fu la perdita della terra promessa con la distruzione dei due regni e quella di Gerusalemme, ivi compreso il suo santuario, nel 587.

    Gli scritti profetici contengono rimproveri particolarmente violenti. Una delle principali missioni dei profeti era proprio quella di « gridare a squarciagola, senza riguardo », per « far conoscere al popolo di Dio i suoi peccati ». 218 Tra i profeti dell'VIII secolo, Amos denuncia le colpe d'Israele, mettendo al primo posto la mancanza di giustizia sociale. 219 Per Osea, è fondamentale l'accusa di idolatria, ma i rimproveri si estendono a molti altri peccati: « spergiuro e menzogna, assassinio e furto, adulterio e violenza, omicidio su omicidio » (Os 4,2). Per Isaia, Dio ha fatto di tutto per la sua vigna, ma essa non ha portato frutto (Is 5,1-7). Come già Amos (4,4), Isaia rifiuta il culto di coloro che non si preoccupano della giustizia (Is 1,11-17). Michea si dice « pieno di forza per proclamare a Giacobbe il suo misfatto » (Mic 3,8).

    Questi misfatti porteranno alla più grave minaccia che i profeti possano lanciare contro Israele e Giuda: il Signore rigetterà il suo popolo, 220 abbandonerà alla distruzione Gerusalemme e il suo santuario, luogo della sua presenza benefica e protettrice. 221

    Gli ultimi decenni di Giuda e gli inizi dell'esilio sono accompagnati dalla predicazione di molti profeti. Allo stesso modo di Osea, Geremia enumera diversi peccati 222 e mostra nell'abbandono del signore la radice di tutto il male (2,13). Stigmatizza l'idolatria definendola adulterio e prostituzione. 223 Ezechiele fa lo stesso in lunghi capitoli (Ez 16; 23) e definisce gli Israeliti « una genia di ribelli » (2,5.6.7.8), « testardi e dal cuore indurito » (2,4; 3,7). Il vigore delle accuse profetiche lascia sbalorditi e sorprende che Israele abbia riservato ad essi tanto spazio nelle sue Scritture, segno di una sincerità e di una umiltà esemplari.

    Nel corso dell'esilio e dopo, tutta la comunità ebraica, non solo quella della Giudea, riconosce le proprie colpe in liturgie e preghiere di confessione nazionale. 224

    Contemplando il proprio passato, il popolo dell'alleanza del Sinai non poteva che esprimere su di esso un giudizio severo: la sua storia era stata una lunga serie di infedeltà. I castighi erano stati meritati. L'alleanza era stata infranta. Ma il Signore non si era mai rassegnato a questa rottura 225 e aveva sempre offerto la grazia della conversione e la ripresa delle relazioni, in una forma più intima e più stabile. 226



    b) Nel Nuovo Testamento

    53. Giovanni Battista si colloca sulla scia degli antichi profeti per chiamare al pentimento la « razza di vipere » (Mt 3,7; Lc 3,7) attirata dalla sua predicazione. Questa era basata sulla convinzione della vicinanza di un intervento divino. Il giudizio era imminente: « Già la scure si trova alla radice degli alberi » (Mt 3,10; Lc 3,9). Era quindi urgente convertirsi.

    Come quella di Giovanni, la predicazione di Gesù è un appello alla conversione, che la vicinanza del regno di Dio rende urgente (Mt 4,17); essa è al tempo stesso l'annuncio della « buona novella » di un intervento favorevole di Dio (Mc 1,14-15). Quando si scontra col rifiuto di credere, Gesù fa ricorso, come gli antichi profeti, alle invettive. Le lancia contro questa « generazione malvagia e adultera » (Mt 12,39), « generazione incredula e perversa » (17,17), e annuncia un giudizio più severo di quello che si era abbattuto su Sodoma (11,24; cf Is 1,10).

    Il rifiuto di Gesù da parte dei dirigenti del suo popolo, che trascinano con loro la popolazione di Gerusalemme, porta al culmine la loro colpevolezza. La sanzione divina sarà la stessa del tempo di Geremia: presa di Gerusalemme e distruzione del Tempio. 227 Ma — ugualmente come al tempo di Geremia — Dio non si limita a sanzionare; offre anche il perdono. Agli ebrei di Gerusalemme, che « hanno ucciso l'autore della vita » (At 3,15), Pietro predica il pentimento e promette la remissione dei peccati (3,19). Mostrandosi meno severo degli antichi profeti, egli fa della loro colpa un peccato commesso « per ignoranza ». 228 Varie migliaia di persone rispondono al suo appello. 229

    Nelle lettere apostoliche, anche se sono molto frequenti le esortazioni e gli avvertimenti, accompagnati talvolta da minacce di condanna in caso di colpe, 230 i rimproveri e le condanne effettive sono relativamente rari, ma non mancano di vigore. 231

    Nella sua lettera ai Romani, Paolo fa una violenta requisitoria contro « gli uomini che tengono la verità prigioniera nell'ingiustizia » (Rm 1,18). La colpa fondamentale dei pagani è il disconoscimento di Dio (1,21); il castigo che subiscono è quello di essere abbandonati da Dio in potere della loro immoralità. 232 Al giudeo viene rimproverata la sua mancanza di coerenza: la sua condotta è in contrasto con la sua conoscenza della Legge (Rm 2,17-24).

    Gli stessi cristiani non sono esenti da rimproveri. La lettera di Galati ne contiene alcuni molto gravi. I Galati sono accusati di voltare le spalle a Dio per passare « a un altro vangelo », non autentico (Gal 1,6); hanno « rotto con Cristo »; sono « decaduti dalla grazia » (5,4). Ma Paolo nutre la speranza che si ravvedano (5,10). I Corinzi, invece, sono rimproverati per le discordie provocate nella loro comunità dal culto di alcune personalità 233 e, d'altra parte, per gravi mancanze di carità durante la celebrazione della « cena del Signore » (1 Cor 11,17-22). « È per questo, dice Paolo, che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti » (11,30). Inoltre la comunità riceve un aspro rimprovero per aver tollerato un caso di condotta scandalosa. Il colpevole deve essere scomunicato, « abbandonato a Satana ». 234 Paolo cita a questo proposito il precetto di Dt 17,7: « Togliete il malvagio di mezzo a voi » (1 Cor 5,13). Le lettere pastorali, da parte loro, se la prendono con dei « sedicenti dottori della legge », che si sono allontanati dalla linea di una vera carità e di una fede sincera (1 Tm 1,5-7); vi si fanno anche dei nomi e si indica la sanzione. 235

    Le lettere inviate « alle sette chiese » (Ap 1,11) dall'autore dell'Apocalisse sono indicative della diversità delle situazioni vissute allora dalle comunità cristiane. Quasi tutte — cinque su sette — iniziano con degli elogi; due contengono addirittura solo elogi, ma le altre cinque contengono rimproveri, alcuni dei quali molto gravi, accompagnati da minacce di castighi. I rimproveri sono, il più delle volte, di ordine generale (« hai abbandonato il tuo fervore originale »: 2,4; « ti si crede vivo e invece sei morto »: 3,1); talvolta sono più precisi, criticando la tolleranza per « l'insegnamento dei Nicolaiti » (2,15) o il compromesso con l'idolatria (2,14.21). Tutte queste lettere esprimono « quello che lo Spirito dice alle Chiese ». 236 Esse dimostrano che, il più delle volte, le comunità cristiane meritano rimproveri e che lo Spirito le chiama alla conversione. 237

  8. #18
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    9. Le promesse

    54. Molte promesse fatte da Dio nell'Antico Testamento sono rilette nel Nuovo alla luce di Gesù Cristo. Questo pone un certo numero di interrogativi delicati e attuali che toccano il dialogo tra gli ebrei e i cristiani; essi riguardano la legittimità di un'interpretazione delle promesse al di là del loro senso originale immediato. Chi, veramente, fa parte della discendenza di Abramo? La Terra promessa è anzitutto un luogo geografico? Quale orizzonte futuro il Dio della rivelazione riserva a Israele, il popolo eletto delle origini? Cosa ne è dell'attesa del Regno di Dio? E di quella del Messia?



    a) La discendenza di Abramo

    Nell'Antico Testamento

    Dio promette ad Abramo una discendenza innumerevole, 238 che gli verrà attraverso il suo unico figlio nato da Sara, erede privilegiato. 239 Questa discendenza sarà, come lo stesso Abramo, fonte di benedizione per tutte le nazioni (12,3; 22,18). La promessa è rinnovata per Isacco (26,4.24) e per Giacobbe (28,14; 32,13).

    La prova dell'oppressione in Egitto non impedisce la sua realizzazione. Al contrario, l'inizio del libro dell'Esodo attesta a più riprese la crescita numerica degli ebrei (Es 1,7.12.20). Quando il popolo viene liberato dall'oppressione, la promessa è già compiuta: gli Israeliti sono « numerosi come le stelle del cielo », ma Dio li moltiplicherà ancora, come ha promesso (Dt 1,10-11). Il popolo cade nell'idolatria ed è minacciato di sterminio; Mosè intercede allora in suo favore presso Dio; fa appello al giuramento fatto da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe di moltiplicare la loro discendenza (Es 32,13). Una grave disobbedienza del popolo nel deserto (Nm 14,2-4), della stessa gravità di quella commessa ai piedi del Sinai (Es 32), suscita, come in Es 32, un'intercessione di Mosè, che viene esaudita e salva il popolo dalle conseguenze del suo peccato. Tuttavia la generazione presente sarà esclusa dalla Terra promessa, ad eccezione del clan di Caleb, rimasto fedele (Nm 14,20-24). Le generazioni successive d'Israele godranno di tutte le promesse fatte ai loro antenati, a condizione, però, di optare risolutamente per « la vita, la benedizione », e non per « la morte, la maledizione » (Dt 30,19), come purtroppo fanno più tardi gli Israeliti del nord, che « il Signore ha rigettato » (2 Re 17,20), e poi quelli del sud, da Lui sottomessi alla prova purificatrice dell'esilio a Babilonia (Ger 25,11).

    L'antica promessa rinasce ben presto in favore dei rimpatriati. 240 Dopo l'esilio, per preservare la purezza della discendenza e quella delle credenze e delle osservanze, « la discendenza d'Israele si separò da tutti gli stranieri ». 241 Ma più tardi, il breve libro di Giona — forse anche, secondo alcuni, quello di Rut — interviene per denunciare la ristrettezza di questo particolarismo. Questo infatti si concilia male con un oracolo del libro di Isaia in cui Dio accorda a « tutti i popoli » l'ospitalità nella sua casa (Is 56,3-7).



    Nel Nuovo Testamento

    55. Il Nuovo Testamento non mette mai in discussione la validità della promessa ad Abramo. Il Magnificat e il Benedictus vi fanno un esplicito riferimento. 242 Gesù è presentato come « figlio di Abramo » (Mt 1,1). Essere figlia o figlio di Abramo (Lc 13,16; 19,9) costituisce una grande dignità. La comprensione della promessa differisce, tuttavia, da quella che ne dà il giudaismo. Già la predicazione di Giovanni Battista relativizza l'importanza del legame familiare con Abramo. Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario (Mt 3,9; Lc 3,8). Gesù dichiara che molti pagani « siederanno a mensa con Abramo », « mentre i figli del regno saranno cacciati fuori » (Mt 8,11-12; Lc 13,28-29).

    Ma è soprattutto l'apostolo Paolo che approfondisce questo tema. Ai Galati, preoccupati di entrare, grazie alla circoncisione, nella famiglia del patriarca al fine di avere diritto all'eredità promessa, Paolo dimostra che la circoncisione non è affatto necessaria, perché il fattore decisivo è la fede in Cristo. Per la fede si diventa figli di Abramo (Gal 3,7), perché Cristo è suo discendente privilegiato (3,16) e, per la fede, si è incorporati a Cristo e si diventa quindi « discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa » (3,29). È in questo modo — e non per la circoncisione — che i pagani possono ricevere la benedizione trasmessa per Abramo (3,8.14). In Gal 4,22-31, un'audace interpretazione tipologica porta alle stesse conclusioni.

    Nella sua lettera ai Romani (4,1-25), Paolo ritorna sull'argomento in termini meno polemici. Egli mette lì in luce la fede di Abramo, fonte, secondo lui, della giustificazione e base della sua paternità, che si estende a tutti coloro che credono, siano essi di origine ebraica o pagana. Dio, infatti, aveva fatto una promessa ad Abramo: « Sarai padre di una moltitudine di popoli » (Gn 17,4); Paolo vede la realizzazione di questa promessa nell'adesione a Cristo di molti credenti di origine pagana (Rm 4,11.17-18). L'Apostolo distingue tra « i figli della carne » e « i figli della promessa » (Rm 9,8). Gli ebrei che aderiscono a Cristo sono al tempo stesso l'uno e l'altro. I credenti di origine pagana sono « figli della promessa », il che è più importante.

    In questo modo Paolo conferma e accentua la portata universale della benedizione di Abramo e situa nell'ordine spirituale la vera posterità del patriarca.

  9. #19
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    b) La Terra promessa

    56. Ogni gruppo umano desidera abitare un territorio in modo stabile. Altrimenti, ridotto alla condizione di straniero o di rifugiato, si trova, nella migliore delle ipotesi, tollerato o, nella peggiore, sfruttato o continuamente respinto. Israele è stato liberato dalla schiavitù dell'Egitto e ha ricevuto da Dio la promessa di una terra, la cui realizzazione richiederà del tempo e porrà molti problemi nel corso della storia. Per il popolo della Bibbia, anche dopo il ritorno dall'esilio a Babilonia, la terra rimane oggetto di speranza: « Quelli benedetti dal signore possederanno la terra » (Sal 37,22).



    Nell'Antico Testamento

    La Bibbia ebraica non conosce l'espressione « Terra promessa », perché non ha una parola per dire « promettere ». L'idea viene espressa col futuro del verbo « dare », o con l'uso del verbo « giurare »: « la terra che ha giurato di darti » (Es 13,5; 33,1; ecc.).

    Nelle tradizioni relative ad Abramo, la promessa di una terra completa quella di una discendenza. 243 Si tratta della « terra di Canaan » (Gn 17,8). Dio suscita un capo, Mosè, per liberare Israele e condurlo nella Terra promessa. 244 Ma il popolo nel suo insieme manca di fede: dei fedeli iniziali, ben pochi sopravvivranno alla lunga traversata del deserto; sarà la giovane generazione a entrare nel paese (Nm 14,26-38). Mosè stesso muore senza potervi entrare (Dt 34,1-5). Sotto la guida di Giosuè, le tribù si insediano nel paese promesso.

    Per la tradizione sacerdotale, il paese deve d'ora in poi restare senza macchia, perché vi abita Dio stesso (Nm 35,34). Il dono è quindi condizionato alla purezza morale 245 e al servizio al signore soltanto, con l'esclusione di tutti gli dei stranieri (Gs 24,14-24). D'altra parte, Dio solo è il proprietario del paese. Gli Israeliti vi abitano solo a titolo di « forestieri e inquilini », 246 come un tempo i patriarchi (Gn 23,4; Es 6,4).

    Dopo il regno di Salomone, la terra dell'eredità si scinde in due regni. I profeti stigmatizzano l'idolatria e le ingiustizie sociali; annunciano il castigo: perdita della terra, che sarà conquistata da stranieri, ed esilio della popolazione. Ma lasciano sempre la porta aperta a un ritorno, a una nuova occupazione della Terra promessa, 247 non senza accentuare il ruolo centrale di Gerusalemme e del suo Tempio. 248 Più tardi la prospettiva si allarga a un futuro escatologico. Pur restando uno spazio geografico delimitato, la Terra promessa diventa un polo di attrazione per le nazioni. 249

    Il tema della terra non deve far dimenticare il modo in cui il libro di Giosuè racconta l'ingresso nella Terra promessa. Molti testi 250 evocano l'atto di consacrazione a Dio dei frutti della vittoria, cioè l'anatema (herem). Questo atto implica, per impedire ogni contaminazione religiosa straniera, l'obbligo di distruggere i luoghi e gli oggetti di culto pagani (Dt 7,5), ma anche ogni essere vivente (20,16-18). Similmente, contro una città israelitica diventata idolatra, Dt 13,16-18 prescrive la messa a morte di tutti gli abitanti e la sua completa distruzione col fuoco.

    Al tempo della composizione del Deuteronomio — così come del libro di Giosué — l'anatema era un postulato teorico, poiché in Giuda non c'erano più popolazioni non israelite. È quindi possibile che la prescrizione dell'anatema sia il risultato di una proiezione nel passato di preoccupazioni posteriori. Il Deuteronomio, infatti, si preoccupa di rafforzare l'identità religiosa di un popolo esposto al pericolo dei culti stranieri e dei matrimoni misti. 251

    Per meglio comprendere questa menzione dell'anatema, bisognerà quindi tener conto di tre fattori di interpretazione, uno teologico, l'altro morale, e l'ultimo, piuttosto sociologico: il riconoscimento della Terra come dominio inalienabile del signore; la necessità di risparmiare al popolo ogni tentazione che poteva comprometterne la totale fedeltà a Dio; infine, la tentazione molto umana di mescolare alla religione le forme più aberranti di ricorso alla violenza.



    Nel Nuovo Testamento

    57. Il Nuovo Testamento sviluppa poco il tema della Terra promessa. La fuga di Gesù e dei suoi genitori in Egitto e il ritorno nella « terra d'Israele » (Mt 2,20-21) riproducono chiaramente l'itinerario dei padri; alla base del racconto c'è una tipologia teologica. Nel discorso di Stefano che ricorda la storia, il termine « promettere » o « promessa » è vicino a « terra » ed « eredità » (At 7,2-7). L'espressione « Terra promessa », inesistente nell'Antico Testamento, si incontra nel Nuovo (Eb 11,9) in un passo che fa, sì, memoria dell'esperienza storica di Abramo, ma per meglio sottolineare il suo carattere provvisorio, incompiuto, e il suo orientamento verso il futuro assoluto del mondo e della storia: per l'autore, la « terra » d'Israele ha il solo scopo di indirizzare verso una terra diversa, una « patria celeste ». 252 Una beatitudine effettua lo stesso tipo di passaggio dal significato geografico storico 253 a un significato più aperto: « i miti possederanno la terra » (Mt 5,5); « la terra » equivale lì a « Regno dei cieli » (5,3.10), in un orizzonte di escatologia al tempo stesso presente e futura.

    Gli autori del Nuovo Testamento non fanno che spingere oltre un processo di approfondimento simbolico messo già in moto nell'Antico Testamento e nel giudaismo intertestamentario. Questo non deve, però, farci dimenticare che una terra concreta è stata promessa da Dio a Israele e ricevuta effettivamente in eredità; questo dono della terra era condizionato alla fedeltà all'alleanza (Lv 26; Dt 28).

  10. #20
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    c) La perennità e la salvezza finale d'Israele

    Nell'Antico Testamento

    58. Quale avvenire attende il popolo dell'alleanza? Nel corso della storia, esso si è posto costantemente questa domanda, in stretto legame con i temi del giudizio e della salvezza di Dio.

    Già da prima dell'esilio, i profeti avevano rimesso in discussione la speranza ingenua in un « Giorno del signore » che avrebbe apportato automaticamente salvezza e vittoria sul nemico. Proprio al contrario, per annunciare la sorte funesta di un popolo dalla coscienza sociale e dalla fede gravemente mancanti, essi ricorrono all'immagine del Giorno del signore che è « tenebre e non luce », 254 ma non senza lasciare intravedere dei barlumi di speranza. 255

    Il dramma dell'esilio provocato dalla rottura dell'alleanza ripresenta lo stesso interrogativo, nella sua massima drammaticità: Israele, lontano dalla sua terra, può ancora sperare la salvezza di Dio? C'è per esso un futuro? Ezechiele, prima, e il Secondo Isaia, poi, annunciano in nome di Dio un nuovo esodo, cioè un ritorno d'Israele nel suo paese, 256 un'esperienza di salvezza, che implica numerosi elementi: la riunificazione del popolo disperso (Ez 36,24) e la diretta responsabilità del Signore stesso su di esso, 257 un soffio di trasformazione interiore profonda, 258 la rinascita nazionale 259 e cultuale, 260 così come una valorizzazione delle scelte divine del passato, in particolare la scelta degli antenati Abramo e Giacobbe 261 e quella del re Davide (Ez 34,23-24).

    Gli sviluppi profetici più recenti si inseriscono nella stessa linea. Alcuni oracoli solenni dichiarano che la stirpe d'Israele sussisterà sempre, 262 non cesserà mai di essere una nazione davanti al Signore e non sarà mai da lui ripudiata, nonostante tutto quello che ha fatto (Ger 31,35-37). Il Signore promette di ricostituire il suo popolo. 263 Le antiche promesse in favore d'Israele sono confermate. I profeti postesilici ne ampliano la portata in una prospettiva universalistica. 264

    Riguardo alle prospettive future, bisogna sottolineare, come una sorta di contropartita, l'importanza di un tema particolare: quello del resto. In questo quadro teologico la perennità d'Israele è garantita, certo, ma all'interno di un gruppo ristretto che diventa, invece e al posto di tutto il popolo, portatore della speranza nazionale e della salvezza di Dio. 265 La comunità postesilica si considera un « resto scampato », in attesa della salvezza di Dio. 266



    Nel Nuovo Testamento

    59. Alla luce della risurrezione di Gesù cosa ne è d'Israele, il popolo eletto? Il perdono divino gli viene offerto subito (At 2,38), così come la salvezza per la fede nel Cristo risorto (13,38-39); molti ebrei lo accettano, 267 compreso « un gran numero di sacerdoti » (6,7), ma i capi si oppongono alla Chiesa nascente e, in ultima analisi, il popolo nel suo insieme non aderisce a Cristo. Questa situazione ha sempre suscitato un forte interrogativo sul compimento del disegno salvifico di Dio. Il Nuovo Testamento ne cerca la spiegazione nelle antiche profezie e constata che questa situazione è lì prefigurata, soprattutto in Is 6,9-10, citato molto spesso a questo proposito. 268 Paolo, in particolare, ne prova una viva sofferenza (Rm 9,1-3) e approfondisce il problema (Rm 9–11). I suoi « fratelli secondo la carne » (Rm 9,3) « hanno urtato contro la pietra d'inciampo » posta da Dio; invece di contare sulla fede, hanno contato sulle opere (9,32). Sono inciampati, ma non « per cadere » (11,11). Infatti « Dio non ha ripudiato il suo popolo » (11,2); ne è testimone l'esistenza di un « Resto », che crede in Cristo; Paolo stesso fa parte di questo Resto (11,1.4-6). Per l'Apostolo, l'esistenza di questo Resto garantisce la speranza della piena restaurazione d'Israele (11,12.15). Il venir meno del popolo eletto rientra in un piano paradossale di Dio: serve alla « salvezza dei pagani » (11,11). « L'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato », grazie alla misericordia di Dio, che gli è stata promessa (11,25-26). Nel frattempo, Paolo mette in guardia i cristiani venuti dal paganesimo contro il pericolo di orgoglio e di ripiegamento su di sé che incombe su di essi, se dimenticano che sono solo dei rami selvatici innestati sull'olivo buono, Israele (11,17-24). Gli Israeliti restano « amati » da Dio e promessi a un avvenire luminoso, « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (11,29). Questa è la dottrina molto positiva alla quale i cristiani devono costantemente ritornare.

 

 
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