Venticinque anni di lotta nel racconto di Antonio Magnabosco
“Paroni casa nostra” ...e subito scoppiò l’incendio autonomista


RENATO CIPRIANI
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D’estate scende raramente, e sempre poco volentieri, dal suo “eremo” sull’Altopiano di Asiago. Ma per “la Padania”, e per raccontare al quotidiano che legge ogni giorno “con piacere e interesse”, cosa fu, come nacque e come mosse i primi passi la Liga Veneta («ho letto la storia della Lega Lombarda - osserva sommessamente, quasi a volersi scusare - e allora ho pensato che anche noi veneti qualcosa da dire ce l’abbiamo...»), Antonio Magnabosco, primo deputato leghista di Vicenza (1992 e 1994), accetta di “scendere a valle”. Più che un’ intervista la sua è una lezione di storia.
Preciso nei riferimenti, circostanziato nei particolari, puntiglioso fino alla pignoleria nelle date, equilibrato ma sferzante nel valutare cose e persone, dà vita a un racconto che meriterebbe un libro (che, forse, un giorno scriverà). Volentieri, senza enfasi e senza mai eccedere nei toni, ripercorre un fantastico e avventuroso “come eravamo” nel segno di un impegno politico e sociale che sa di rivolta, e nel nome di una fedeltà ideale che non è mai venuta meno. Sta seduto su una panca, fuori dall’unico bar aperto di tutta la sconfinata zona industriale di Vicenza (il cui proprietario, chissà perché, ha ritirato i tavolini) e attende le domande. Ma l’attacco, doverosamente, spetta a lui.
«Tutto, ma proprio tutto, ebbe inizio con uno slogan: paroni casa nostra». Senza la “a” prima di “casa”, tiene a precisare. Perché «se davvero la nostra parlata è una lingua e non un dialetto, allora le regole vanno rispettate e le preposizioni usate solo quando servono».
Paroni casa nostra: ricevuto. Ma da quando?
«Da quando, e siamo negli anni ‘70, nel Veneto cominciava a tirare una certa aria di diffuso disagio e di ribellione latente nei confronti delle condizioni in cui eravamo vissuti per almeno quarant’anni. Era solo un moto, certamente poco definito, di rifiuto verso una burocrazia lenta e pesante come un elefante, borbonica nelle forme e soffocante nella pratica quotidiana. Un senso di nausea causato dai raggiri dei governanti romani, rabbia per le continue vessazioni e, su tutto, la consapevolezza, peraltro ancora di pochi, di essere, noi popolo veneto, lontani anni luce dalla mentalità, dal modo di vivere e dai comportamenti di buona parte dell’Italia contemporanea».
Una sorta di risveglio delle coscienze...
«Diciamo l’uscita, tardiva, da un letargo che durava da troppo tempo. Un sonno della ragione e dell’orgoglio durato decenni, durante il quale avevamo solo lavorato. Per 16 o 18 ore al giorno, in silenzio, come forsennati, a testa bassa. Senza mai preoccuparci di vedere e di capire cosa davvero stava succedendo fuori dai cancelli delle nostre imprese e oltre la porta di casa».
Siamo ancora negli anni ’70...
«Avevo sentito parlare di un certo Franco Rocchetta, che girava per i paesi tenendo conferenze sull’uso esteso della lingua veneta e che “predicava” la riscoperta e la riappropriazione della civiltà dei padri e della sua millenaria tradizione storica. Mia moglie Bruna (Bruna Cestonaro, consigliere regionale nel 1994, ndr) partecipò ad alcuni di questi incontri, si rese conto della portata degli argomenti e, come forse sanno fare solo le donne, si infiammò e divenne una convinta autonomista. L’incendio, in casa, ovviamente si propagò. E anch’io venni coinvolto».
Era nata la Liga?
«Solo l’embrione. Io, che del movimento nascente ero ancora, e per forze di cose, ai margini, non presi parte agli atti ufficiali della costituzione del Movimento. Mi limitavo, con mia moglie Bruna, a portare in giro volantini e a fare propaganda fra amici e conoscenti».
Poi arrivarono le prime elezioni...
«Quelle del 1980, amministrative. Siccome non eravamo ancora attrezzati per la raccolta delle firme, ci presentammo insieme a una lista autonomista, l’Union Valdotaine. Prendemmo 10 mila voti. Il risultato ci fece l’effetto di una scossa elettrica. Di quelle che, appunto elettrizzano ma, al tempo stesso, tramortiscono. Non ci pareva vero: c’erano già 10 mila persone che la pensava come noi!».
E poi aumentarono ancora...
«E di molto. La ragione, in sé, era talmente semplice da apparire banale: i vicentini, e i veneti in generale, si avvicinavano alla Liga perché solo la Liga diceva, con chiarezza, a testa alta e in pubblico, esattamente ciò che la gente sentiva e pensava ma che non aveva il coraggio di dire apertamente».
Per esempio?
«Che era ora di finirla con gli stereotipi in voga a quei tempi secondo cui le donne venete potevano, al massimo, essere rappresentate al cinema come cameriere o puttane, e gli uomini come avvinazzati e ignoranti. E il disagio diventava rabbia quando ci si rendeva conto che a dipingerci così erano quelli che, da decenni, mantenevamo con il nostro sudore!».
Arriviamo alle Politiche del 1983: cosa successe?
«Un successo: eleggemmo un deputato a Treviso e un senatore a Padova. Solo che, entrambi, furono, diciamo così, ammaliati e poi fagocitati da mamma Dc. Restammo ben presto senza voce nel parlamento nazionale. Ma ci restarono almeno i soldi del finanziamento al partito».
A cosa servirono?
«Facemmo fronte alle spese organizzative di un Movimento che, nonostante i tradimenti e le fughe romane, continuava a espandersi. Fondammo un giornale - “Mondo Veneto” - e fummo in grado prestare soldi alla nascente Lega Lombarda di Bossi e a quella del Piemonte di Gremmo. Bossi restituì il prestito. Gremmo no, e poi prese un’altra strada».
Il primo incontro con Bossi?
«A Vicenza, nel 1983, in occasione di una riunione. Con una naturalezza e una convinzione che, al momento, mi lasciarono interdetto, affermò che sarebbe riuscito a distruggere Dc e Psi. Mentre parlava, mi chiedevo chi mai fosse quello sconosciuto così deciso, preparato, aggressivo e con idee tanto chiare in testa, che ci stava promettendo la luna... Solo più tardi imparai a conoscerlo bene e a fidarmi delle sue enormi capacità politiche e delle sue intuizioni. Bossi è uno che anticipa i tempi e che legge con chiarezza dove altri non vedono neanche la pagina. Oggi sono in molti ad ammetterlo, vent’anni fa la sua era una presenza dirompente e fuori di ogni schema. Esattamente ciò di cui, tutti, avevamo bisogno».
E la Liga continuò la sua avventura.
«A Vicenza organizzammo due Diete, cui presero parte rappresentanti di tutti i movimenti autonomisti allora esistenti. Venne gente dalla Sardegna, dalla Lombardia, dalla Valle d’Aosta, dal Trentino, dal Friuli e dal Piemonte. Il protocollo d’intesa che venne approvato e firmato a conclusione dei lavori l’aveva steso mia moglie Bruna».
Bei tempi...
«Sul piano degli entusiasmi e dell’ardore che mettevamo nel promuovere le idee del Movimento senza dubbio sì. Quanto ai rapporti sociali... In quegli anni persi un certo numero di buoni clienti e anche qualche amico. Tutta gente che, anche senza mai dirmelo apertamente, mi considerava una sorta di appestato. L’uomo-Liga da evitare».
1984: ancora alle urne.
«Io e la Bruna, in assenza di altri candidati, ci presentammo nell’Italia centrale. Non fu certo un trionfo, ma qualche voto lo prendemmo ugualmente. Ma le priorità erano altre. C’è un notaio, a Treviso, del cui studio noi vecchi leghisti abbiamo letteralmente consumato le scale a forza di andare a firmare per nuove associazioni in qualità di soci fondatori e per candidature varie. Nel 1985 alle amministrative ottenemmo i primi consiglieri comunali, due provinciali e mandammo anche un leghista in Regione. Di strada ne avevamo fatta! Ma tanta ne restava ancora da percorrere».
Poi il fattaccio.
«Sì, una brutta storia davvero. Il nostro, si fa per dire, consigliere regionale decise di tradire. Pardon: di fuoriuscire. E uscendo si portò dietro gran parte della base dei nostri militanti. I giornali che, evidentemente, non aspettavano altro, si tuffarono a pesce sulla notizia con l’eleganza e il tatto tipici degli squali. Bossi, e devo dire giustamente, rinunciò all’alleanza con noi e la Liga si presentò alle elezioni insieme a un Movimento minore, da poco fondato da un avvocato. Nel vicentino facevamo fatica persino a trovare qualcuno che andasse ad attaccare i manifesti. Io e mia moglie fummo candidati sia alla Camera sia al Senato. Ma, sinceramente, l’idea di essere eletti ci spaventava. Sentivamo di non essere ancora pronti a rappresentare e a difendere le istanze di un intero popolo».
E qualcuno cercò anche di fregarvi...
«Due nostri ex, confluiti nel gruppo di quel famoso consigliere traditore, uno vicentino e uno di Treviso, avevano presentato, a nostra insaputa, il simbolo della Liga all’ufficio elettorale del ministero a Roma. Per la legge italiana, essendo stati loro i primi, avevano tutto il diritto di usarlo. Bisognava presentare ricorso. Solo che, per farlo, avevamo a disposizione 24 ore».
E ci riusciste?
«Sì, portammo tutto a Roma 10 minuti prima della scadenza dei tempi. Al termine di una corsa folle cominciata alle 3 del mattino e proseguita per tutta la giornata, fra pretori da rintracciare e da convincere a seguirci, carte da autenticare, aerei da prendere e chilometri da coprire nel minor tempo possibile, nonostante il traffico e i semafori... Io mi occupai del ricorso vicentino, Paolo Gobbo di quello trevigiano. Per paura di perdere l’ultimo volo utile per Roma, ricordo che avevo allertato un amico, pilota dell’aeroclub della mia città che, a motore acceso, aspettava ordini per un eventuale decollo di emergenza. E non esistevano i telefonini...».
Risultati?
«Bossi e Leoni furono eletti in Lombardia. Noi sfiorammo il quorum, che ci avrebbe garantito 7 eletti, per poco più di mille voti. Facemmo ricorso, e nelle uniche due sezioni in cui ci fu permesso di rifare lo scrutinio delle schede, trovammo 40 voti per la Liga non assegnati. Ma la cosa non ci scoraggiò. Continuammo la nostra battaglia con la stessa convinzione di prima, e la consapevolezza che gli avversari avrebbero usato contro di noi qualsiasi mezzo per impedirci di andare avanti».
Ancora clandestini?
«Quasi. La sede di Vicenza era la taverna di casa mia. E mio era anche il numero di telefono che appariva su tutto il materiale di propaganda. Un invito a nozze per quanti avevano qualcosa da dire contro di noi... soprattutto di notte. Ma la macchina dava comunque segni di vita incoraggianti. Per i volantini e gli inviti avevo preparato un lucido con le intestazioni del Movimento, lasciando in bianco data, luogo e tipologia dell’incontro. Quando serviva facevo un controlucido completo dei dati, ricavavo così una copia eliografica che poi ciclostilavo. Mia moglie pensava alle buste, agli adesivi e alle spillette con il leone di San Marco. Quando i richiedenti non passavano a ritirare il materiale, andavamo noi, casa per casa, a fare le consegne».
E “Mondo Veneto”?
«Usciva con regolarità. In pratica lo scriveva tutto mia moglie. Le bozze le correggevamo di notte ad Altivole (Treviso), e una volta stampate le copie incollavamo, una a una, tutte le etichette con gli indirizzi. La giornata di lavoro finiva, di norma, verso le 4 del mattino. Ogni tanto andavamo anche “in missione” nei vari uffici postali della provincia. E non era certo un bello spettacolo vedere pacchi interi del nostro giornale buttati in un angolo e pieni di polvere, fra la corrispondenza inevasa, a causa del solito stupido cavillo e per la gioia di qualche impiegata del Sud felice di averci messo il bastoni fra le ruote».
E nel 1989 nasce la Lega Nord...
«Fu l’anno dello Statuto. Io ero consigliere nazionale veneto e facevo parte della delegazione della mia terra. Guidavo da Vicenza fino alla sede della Lega Lombarda a Bergamo, mentre Rocchetta e la Marin dormivano sul sedile posteriore. Spesso dovevo battere le mani sul volante e provare a cantare per tenermi sveglio. Ricordo anche il notaio e l’immenso pastore bergamasco che teneva sotto la scrivania. Nel dicembre di quell’anno fu redatto il documento ufficiale che sancì la nascita della Lega Nord. Sullo scudo di Alberto da Giussano fu apposto il leone di San Marco. La Liga Veneta cessava di vivere come realtà autonoma e cominciava la grande avventura di un nuovo, grande soggetto politico».
E poi Pontida...
«Dove sono stato numerose volte come membro del consiglio federale. La prima, e per me la più emozionante, fu quella del ’90, subito dopo le amministrative. Quella del giuramento degli eletti davanti a un oceano di folla festante e a un mare di bandiere».
1992: in parlamento a Roma...
«Eravamo più di 50, davvero una bella squadra. Con l’elezione a deputato, secondo statuto dovetti dimettermi dalla carica di segretario provinciale. Al mio posto arrivò Stefano Stefani, che mise a disposizione della Lega il suo immenso entusiasmo e le sue grandi qualità di imprenditore e di organizzatore. Ricordo, quando andavo a trovarlo in azienda, che il segnale della sua presenza erano le urla che si sentivano dalla strada. Anche d’inverno, a finestrini chiusi. A distanza di tanti anni non è cambiato. E credo sia un bene».
Compagni di viaggio che ricorda con particolare piacere?
«Tanti, per fortuna mia e della Lega. Da Marino Finozzi ad Antonio Zanella, e poi Tarcisio De Gobbi e Antonio Zanini, morto in un incidente stradale mentre portava in giro i manifesti per una riunione. E a Treviso Paolo Gobbo e Giampaolo Dozzo. Ma sono solo alcuni dei tanti che ho avuto modo di conoscere e di apprezzare, con i quali ho lavorato tanto e sempre con grande entusiasmo. Gente veneta, gente semplice, orgogliosa e sincera. Figli di un popolo di uomini liberi che ha inseguito un sogno e ha creduto in un’idea».
La lezione di storia è finita. Antonio Magnabosco si alza, saluta, sale in macchina e dirige verso l’Altopiano. Accanto alla targa il Sole delle Alpi e il leone di San Marco. Nel cuore, da sempre, un’insopprimibile anelito di libertà. Paroni casa nostra, appunto.


[Data pubblicazione: 06/08/2004]